I più bei Sonetti di Ugo Foscolo (Zante 1778 - Londra 1827)

 

Alla sera


Forse perché della fatal quïete
tu sei l'immago, a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirito guerrier ch'entro mi rugge.

 


A Zacinto

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar, da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui, bello di fama e di sventura,
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

 


In morte del fratello Giovanni

Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentili anni caduto.

La Madre or sol, suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto;
ma io deluse a voi le palme tendo,
e sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi numi e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto quïete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.

 


Alla musa

Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, aonia Diva,
quando de' miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto

questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete ver la muta riva.
Non udito or t'invoco; ohimè! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva.

E tu fuggisti in compagnia dell'ore,
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco.

Però mi accorgo, e mel ridice Amore,

che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco.