I Promessi Sposi
"L'Historia
si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché
togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li
richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma
gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d'Allori,
rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co'
loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e
trapontando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta, che formano
un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito
solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti
de' Politici maneggj, et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo
hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di
piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto
schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà
in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità
grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle
operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno
sotto l'amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai
tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante,
risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue
parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl'altri Spettabili
Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a
formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo
tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini
temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché
l'humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che
con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici
emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne' tempi di mia
verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le
loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle
Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et
il medesmo si farà de' luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né
alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio
rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della
Filosofia: che quanto agl'huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare
alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da
verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti..."
"Ma,
quando io avrò durata l'eroica fatica di trascriver questa storia da questo
dilavato e graffiato autografo, e l'avrò data, come si suol dire, alla luce, si
troverà poi chi duri la fatica di leggerla?"
Questa
riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che
veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più
seriamente a quello che convenisse di fare. "Ben è vero, dicevo tra me,
scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e
di figure non continua così alla distesa per tutta l'opera. Il buon secentista
ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della
narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e
più piano. Sì; ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto! Idiotismi
lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica
arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua
e là; e poi, ch'è peggio, ne' luoghi più terribili o più pietosi della storia,
a ogni occasione d'eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que' passi
insomma che richiedono bensì un po' di rettorica, ma rettorica discreta, fine,
di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del
proemio. E allora, accozzando, con un'abilità mirabile, le qualità più opposte,
trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina,
nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose,
composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine
ambiziosa, ch'è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo
paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d'oggigiorno: son troppo
ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che
il buon pensiero m'è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne
lavo le mani".
Nell'atto
però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia
così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia,
può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come
dico; molto bella. "Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de'
fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura?" Non essendosi
presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed
ecco l'origine del presente libro, esposta con un'ingenuità pari all'importanza
del libro medesimo.
Taluni
però di que' fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c'eran sembrati
così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede,
abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle
memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a
quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci
abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più
decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de' quali non avendo mai
avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero
realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze,
per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore
sarebbe più tentato di negarla.
Ma,
rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam
noi sostituita? Qui sta il punto.
Chiunque,
senza esser pregato, s'intromette a rifar l'opera altrui, s'espone a rendere
uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l'obbligazione: è
questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di
sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar
qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine,
siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d'indovinare le critiche
possibili e contingenti, con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Né
in questo sarebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero)
non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una
risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma
le mutano. Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam
battere l'una dall'altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole
attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in
apparenza, eran però d'uno stesso genere, nascevan tutt'e due dal non badare ai
fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con
loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato
autore che provasse così ad evidenza d'aver fatto bene. Ma che? quando siamo
stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle
con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual
cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà
certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro,
anzi lo stile d'un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di
libri basta uno per volta, quando non è d'avanzo.
Quel
ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte
di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di
quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di
fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il
ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile
all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e
l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi
di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi
seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende
appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce
lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo
fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di
fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione,
non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia,
dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo,
la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in
valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l'ossatura de' due monti, e il
lavoro dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi
tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville,
di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna.
Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco
discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago
stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina
a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare,
quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l'onore
d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione
di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del
paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche
padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per
diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia. Dall'una
all'altra di quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio all'altro,
correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane;
ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non
iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su
terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma
ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più
o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte
campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un
altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell'acqua; di
qua lago, chiuso all'estremità o piùttosto smarrito in un gruppo, in un
andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si
spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l'acqua riflette capovolti, co'
paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora,
che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra' monti che l'accompagnano,
degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il luogo
stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte:
il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue
cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e
contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo
in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno, il
domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il
magnifico dell'altre vedute.
Per una
di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera
del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre
accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si
trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il
suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario,
tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa
nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e
buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel
sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li
fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando
per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come
a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e
recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era
solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece
anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un
sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon:
quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva
nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che
all'anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di
riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe
figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion
dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e,
alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che
volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un
fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la
stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una
cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano,
l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un
di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di
fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi,
appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il
portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva
distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione.
Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero
sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un
enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di
cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere,
cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava
fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran
guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e
lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi.
Questa
specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già
molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che
potranno darne una bastante de' suoi caratteri principali, degli sforzi fatti
per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.
Fino
dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don
Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese
d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia,
Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente
informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di
Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di
essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e
doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese,
non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o
pur con esso, s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o
mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per
tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di
giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a' renitenti, e dà
a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite
facoltà, per l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile,
scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti
bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume
loro, né scemato il numero, dà fuori un'altra grida, ancor più vigorosa e
notabile, nella quale, tra l'altre ordinazioni, prescrive:
Che
qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due
testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal
nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola
riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno
di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et
ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per
detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto
ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler
essere obbedita da ognuno.
All'udir
parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali
ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i
bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d'un signore non meno
autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È
questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco,
Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città
di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di
quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il
5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e
rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di
gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima
loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese,
ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo
predecessore. Il 23 maggio poi dell'anno 1598, informato, con non poco
dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va
crescendo il numero di questi tali(bravi e vagabondi), né di loro,
giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e
ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili,
confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e fautori loro... prescrive
di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie
ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di
contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare
la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua... essendo
risoluta e determinata che questa sia l'ultima e perentoria monizione.
Non fu
però di questo parere l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don
Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello
Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente
informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran
numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme
tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch'essa
di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e
senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
Convien
credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva
impiegare nell'ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico
IV; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare
contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d'una città; come
riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma,
per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de' bravi, certo è che esso
continuava a germogliare, il 22 settembre dell'anno 1612. In quel giorno
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza,
Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad
estirparlo. A quest'effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti,
stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perché la
stampassero ad esterminio de' bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il
24 decembre dell'anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria,
etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli,
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di
Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s'era
trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi,
il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel
memorabile avvenimento.
Né fu
questa l'ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far
menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo
soltanto una del 13 febbraio dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta
governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che
chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi
trattiamo, c'era de' bravi tuttavia.
Che i
due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo
evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per
certi atti, che l'aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s'eran
guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che
tutt'e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era
alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e
tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto
dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di
coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille
pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse
qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no.
Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche
vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della
coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo
fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per
raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la
faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda
dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno.
Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più
modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare
indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi,
o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti
di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro
che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta,
compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo
per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse
mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.
-
Signor curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia.
- Cosa
comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò
spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
- Lei
ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di chi
coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia, - lei ha intenzione
di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
- Cioè...
- rispose, con voce tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di
mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non
c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come
s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.
- Or
bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, -
questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.
- Ma,
signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi
vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si degnino di mettersi ne'
miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien
nulla in tasca...
- Orsù,
- interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci
metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo
avvertito... lei c'intende.
- Ma
lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...
- Ma, -
interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, -
ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà
non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... - un'altra bestemmia.
-
Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor curato è un uomo che sa
il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male,
purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro
padrone la riverisce caramente.
Questo
nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno,
un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il
terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: - se mi sapessero
suggerire...
- Oh!
suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il bravo, con un riso tra
lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir
parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm...
sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in
suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo?
- Il
mio rispetto...
- Si
spieghi meglio!
-...
Disposto... disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo queste parole, non
sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero,
o mostraron di prenderle nel significato più serio.
-
Benissimo, e buona notte, messere, - disse l'un d'essi, in atto di partir col
compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per
iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. -
Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più
dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono,
cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio
rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due
stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo
l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio,
quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era
toccato di vivere.
Don
Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone.
Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior
condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne,
e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale non
proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse
altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le
violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e
particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se
non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso
e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da
ogni cosa che potesse essergli d'impedimento a proferire una condanna: gli
squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma
fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride,
ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad
attestare ampollosamente l'impotenza de' loro autori; o, se producevan qualche
effetto immediato, era principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che
i pacifici e i deboli già soffrivano da' perturbatori, e d'accrescer le
violenze e l'astuzia di questi. L'impunità era organizzata, e aveva radici che
le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i
privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte
tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in
fatto e difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e con gelosia di
puntiglio. Ora, quest'impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle
gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi
sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e,
all'apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano
nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò
che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e
molestare l'uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione;
perché, col fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire
ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario
d'esecutori d'ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese
le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i
birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz'altre precauzioni, portava
una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse d'una famiglia
potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di
tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch'eran deputati a farle
eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne
dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse,
per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si
sarebbero ben guardati dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta attaccato
sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata, quando
fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a
sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine,
inferiori com'eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con
una gran probabilità d'essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire,
in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro eran
generalmente de' più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l'incarico
loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro
titolo un improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece
d'arrischiare, anzi di gettar la vita in un'impresa disperata, vendessero la
loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a
esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle
occasioni dove non c'era pericolo; nell'opprimer cioè, e nel vessare gli uomini
pacifici e senza difesa.
L'uomo
che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d'essere offeso, cerca
naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que' tempi, portata al massimo
punto la tendenza degl'individui a tenersi collegati in classi, a formarne
delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui
apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la
nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli
artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti
formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole
oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l'individuo
trovava il vantaggio d'impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e
della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di
questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano,
per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non
sarebber bastati, e per assicurarsene l'impunità. Le forze però di queste varie
leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile
dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di
contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a
riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a
cui difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.
Il
nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque
accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella
società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di
molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti,
che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli
obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di
che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli
eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una
classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un
certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don
Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri della propria quiete, non si
curava di que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi
molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello
scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare.
Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle
contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il
militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due
contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si
trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col
più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro
ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché
non avete saputo esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra
parte. Stando alla larga da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie
passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che
venissero da un'intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza
d'inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un
sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a
passare i sessant'anni, senza gran burrasche.
Non è
però che non avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo; e quel continuo
esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que' tanti
bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che,
se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di sfogo, la sua salute
n'avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v'eran poi finalmente al mondo, e
vicino a lui, persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così
poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e
cavarsi anche lui la voglia d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto.
Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando
però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il
battuto era almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un uomo torbido.
A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo
rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile,
perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che
ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava
contro que' suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un
debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi
gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche
severamente, ch'era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del
sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr'occhi, o in un
piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran
conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente.
Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi
su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi
panni, non accadon mai brutti incontri.
Pensino
ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del
poveretto, quello che s'è raccontato. Lo spavento di que' visacci e di quelle
parolacce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare invano, un sistema
di quieto vivere, ch'era costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato
in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti
questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio.
"Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle
ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è
una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E
poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che,
per non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad
altro; non si fanno carico de' travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh
povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia
strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché
non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio,
che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l'occasione.
Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro
imbasciata..." Ma, a questo punto, s'accorse che il pentirsi di non essere
stato consigliere e cooperatore dell'iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse
tutta la stizza de' suoi pensieri contro quell'altro che veniva così a
togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né
aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la
terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l'aveva incontrato
per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d'un'occasione, la
riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e
alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento
volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor
suo tutti que' titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza
interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri,
alla porta di casa sua, ch'era in fondo del paesello, mise in fretta nella
toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente;
e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: - Perpetua!
Perpetua! -, avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser
certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se
n'avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva
ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le
fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che
divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l'età
sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che
le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la
volesse, come dicevan le sue amiche.
-
Vengo, - rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del
vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor
toccata la soglia del salotto, ch'egli v'entrò, con un passo così legato, con
uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero
nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che
gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
-
Misericordia! cos'ha, signor padrone?
-
Niente, niente, - rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo
seggiolone.
- Come,
niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com'è? Qualche gran caso è
avvenuto.
- Oh,
per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso
dire.
- Che
non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un
parere?...
-
Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
- E lei
mi vorrà sostenere che non ha niente! - disse Perpetua, empiendo il bicchiere,
e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della
confidenza che si faceva tanto aspettare.
- Date
qui, date qui, - disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non
ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
- Vuol
dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio
padrone? - disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui
fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse
succhiargli dagli occhi il segreto.
- Per
amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la
vita!
- La
vita!
- La
vita.
- Lei
sa bene che, ogni volta che m'ha detto qualche cosa sinceramente, in
confidenza, io non ho mai...
-
Brava! come quando...
Perpetua
s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, -
signor padrone, - disse, con voce commossa e da commovere, - io le sono sempre
stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei
poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l'animo...
Il
fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo
doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver
respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo
averle fatto più d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte
sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne
al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più
solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla
spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme
di comando e di supplica, e dicendo: - per amor del cielo!
- Delle
sue! - esclamò Perpetua. - Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo
senza timor di Dio!
-
Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
- Oh!
siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?
- Oh
vedete, - disse don Abbondio, con voce stizzosa: - vedete che bei pareri mi sa
dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei
nell'impiccio, e toccasse a me di levarnela.
- Ma!
io l'avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi...
- Ma
poi, sentiamo.
- Il
mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un
sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può
fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci
gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per
informarlo come qualmente...
- Volete
tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover'uomo? Quando mi
fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l'arcivescovo me la
leverebbe?
- Eh!
le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani
dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi
sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché
lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono,
con licenza, a...
-
Volete tacere?
- Io
taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre,
in ogni incontro, è pronto a calar le...
-
Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?
-
Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a
rovinarsi la salute; mangi un boccone.
- Ci
penserò io, - rispose, brontolando, don Abbondio: - sicuro; io ci penserò, io
ci ho da pensare - E s'alzò, continuando: - non voglio prender niente; niente:
ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader
per l'appunto a me.
- Mandi
almen giù quest'altro gocciolo, - disse Perpetua, mescendo. - Lei sa che questo
le rimette sempre lo stomaco.
- Eh!
ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando
sempre: - una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com'andrà?
- e altre simili lamentazioni, s'avviò per salire in camera. Giunto su la
soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con
tono lento e solenne : - per amor del cielo! -, e disparve.
Si
racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la
giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente
aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse
fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che
l'indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu
spesa in consulte angosciose. Non far caso dell'intimazione ribalda, né delle
minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in
deliberazione. Confidare a Renzo l'occorrente, e cercar con lui qualche
mezzo... Dio liberi! - Non si lasci scappar parola... altrimenti... ehm!
- aveva detto un di que' bravi; e, al sentirsi rimbombar quell'ehm!
nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si
pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi!
Quant'impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il
pover'uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il
meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si
rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze;
"e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho
poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose". Ruminò
pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po' leggieri, pur
s'andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer
di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur
un giovanetto ignorante. "Vedremo, - diceva tra sé: - egli pensa alla
morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che
sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so
che dire; ma io non voglio andarne di mezzo". Fermato così un poco l'animo
a una deliberazione, poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni!
Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida,
schioppettate. Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un
momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all'idee abituali
della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si
affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone
istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò
subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s'alzò,
e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza. Lorenzo o,
come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di
poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v'andò, con la lieta furia
d'un uomo di vent'anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era,
fin dall'adolescenza, rimasto privo de' parenti, ed esercitava la professione
di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione,
negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a
segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il
lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l'emigrazione continua de'
lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse
paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese.
Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava
egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua
condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell'annata fosse ancor più
scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia,
pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia,
era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a
contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con
penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel
taschino de' calzoni, con una cert'aria di festa e nello stesso tempo di
braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L'accoglimento incerto e
misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e
risoluti del giovinotto.
"Che
abbia qualche pensiero per la testa", argomentò Renzo tra sé; poi disse: -
son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in
chiesa.
- Di
che giorno volete parlare?
- Come,
di che giorno? non si ricorda che s'è fissato per oggi?
- Oggi?
- replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. - Oggi,
oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.
- Oggi
non può! Cos'è nato?
- Prima
di tutto, non mi sento bene, vedete.
- Mi
dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca
fatica...
- E
poi, e poi, e poi...
- E poi
che cosa?
- E poi
c'è degli imbrogli.
-
Degl'imbrogli? Che imbrogli ci può essere?
-
Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in
queste materie, quanti conti s'ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non
penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose
secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de'
rimproveri, e peggio.
- Ma,
col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto
cosa c'è.
-
Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in
regola?
-
Bisogna ben ch'io ne sappia qualche cosa, - disse Renzo, cominciando ad
alterarsi, - poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni
addietro. Ma ora non s'è sbrigato ogni cosa? non s'è fatto tutto ciò che
s'aveva a fare?
-
Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che
trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel
che dico. Noi poveri curati siamo tra l'ancudine e il martello: voi impaziente;
vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E
noi siam quelli che ne andiam di mezzo.
- Ma mi
spieghi una volta cos'è quest'altra formalità che s'ha a fare, come dice; e
sarà subito fatta.
- Sapete
voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti?
- Che
vuol ch'io sappia d'impedimenti?
- Error,
conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis
affinis,... - cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
- Si
piglia gioco di me? - interruppe il giovine. - Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?
-
Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.
-
Orsù!...
- Via,
caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che
dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando
penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V'è saltato il grillo di
maritarvi...
- Che
discorsi son questi, signor mio? - proruppe Renzo, con un volto tra l'attonito
e l'adirato.
- Dico
per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.
- In
somma...
- In
somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l'ho fatta io. E, prima
di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte
ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.
- Ma
via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?
-
Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci
sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare.
Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet...
- Le ho
detto che non voglio latino.
- Ma
bisogna pur che vi spieghi...
- Ma
non le ha già fatte queste ricerche?
- Non
le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.
-
Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché
aspettare...
- Ecco!
mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più
presto: ma... ma ora mi son venute... basta, so io.
- E che
vorrebbe ch'io facessi?
- Che
aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi
l'eternità: abbiate pazienza.
- Per
quanto?
"Siamo
a buon porto", pensò fra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che
mai, - via, - disse: - in quindici giorni cercherò,... procurerò...
-
Quindici giorni! oh questa sì ch'è nuova! S'è fatto tutto ciò che ha voluto
lei; s'è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che
aspetti quindici giorni! Quindici... - riprese poi, con voce più alta e
stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell'aria; e chi sa qual
diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l'avesse
interrotto, prendendogli l'altra mano, con un'amorevolezza timida e premurosa:
- via, via, non v'alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una
settimana...
- E a
Lucia che devo dire?
- Ch'è
stato un mio sbaglio.
- E i
discorsi del mondo?
- Dite
pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore:
gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una
settimana.
- E
poi, non ci sarà più altri impedimenti?
-
Quando vi dico...
-
Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa,
non m'appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco -. E così detto, se
n'andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli
un'occhiata più espressiva che riverente.
Uscito
poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua
promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e
sempre più lo trovava strano. L'accoglienza fredda e impicciata di don
Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que' due occhi grigi
che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser
avuto paura d'incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi
quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto
quell'accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte
queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un
mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il
giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e
farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava
dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le
diede una voce, mentre essa apriva l'uscio; studiò il passo, la raggiunse, la
ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si
fermò ad attaccar discorso con essa.
- Buon
giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme.
- Ma!
quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.
-
Fatemi un piacere: quel benedett'uomo del signor curato m'ha impastocchiate
certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non
può o non vuole maritarci oggi.
- Oh!
vi par egli ch'io sappia i segreti del mio padrone?
"L'ho
detto io, che c'era mistero sotto", pensò Renzo; e, per tirarlo in luce,
continuò: - via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un
povero figliuolo.
- Mala
cosa nascer povero, il mio caro Renzo.
- È
vero, - riprese questo, sempre più confermandosi ne' suoi sospetti; e, cercando
d'accostarsi più alla questione, - è vero, - soggiunse, - ma tocca ai preti a
trattar male co' poveri?
-
Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché... non so niente; ma quello che
vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a
nessuno; e lui non ci ha colpa.
- Chi è
dunque che ci ha colpa? - domandò Renzo, con un cert'atto trascurato, ma col
cuor sospeso, e con l'orecchio all'erta.
-
Quando vi dico che non so niente... In difesa del mio padrone, posso parlare;
perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a
qualcheduno. Pover'uomo! se pecca, è per troppa bontà. C'è bene a questo mondo
de' birboni, de' prepotenti, degli uomini senza timor di Dio...
"Prepotenti!
birboni! - pensò Renzo: - questi non sono i superiori". - Via, - disse
poi, nascondendo a stento l'agitazione crescente, - via, ditemi chi è.
- Ah!
voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché... non so niente:
quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la
corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt'e
due -. Così dicendo, entrò in fretta nell'orto, e chiuse l'uscio. Renzo,
rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere
del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell'orecchio della buona
donna, allungò il passo; in un momento fu all'uscio di don Abbondio; entrò,
andò diviato al salotto dove l'aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui,
con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.
- Eh!
eh! che novità è questa? - disse don Abbondio.
- Chi è
quel prepotente, - disse Renzo, con la voce d'un uomo ch'è risoluto d'ottenere
una risposta precisa, - chi è quel prepotente che non vuol ch'io sposi Lucia?
- Che?
che? che? - balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante
bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando,
spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all'uscio. Ma Renzo, che
doveva aspettarsi quella mossa, e stava all'erta, vi balzò prima di lui, girò
la chiave, e se la mise in tasca.
- Ah!
ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio
saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui?
-
Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all'anima vostra.
- Penso
che lo voglio saper subito, sul momento -. E, così dicendo, mise, forse senza
avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.
-
Misericordia! - esclamò con voce fioca don Abbondio.
- Lo
voglio sapere.
- Chi
v'ha detto...
- No,
no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.
- Mi
volete morto?
-
Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.
- Ma se
parlo, son morto. Non m'ha da premere la mia vita?
-
Dunque parli. Quel "dunque" fu proferito con una tale energia,
l'aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più
nemmen supporre la possibilità di disubbidire.
- Mi
promettete, mi giurate, - disse - di non parlarne con nessuno, di non dir
mai...?
- Le
prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di
colui.
A quel
nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca
le tanaglie del cavadenti, proferì: - don...
- Don?
- ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava
curvo, con l'orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni
stretti all'indietro.
- Don
Rodrigo! - pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e
strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo
pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra
le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel
punto stesso ch'era costretto a metterla fuori.
- Ah
cane! - urlò Renzo. - E come ha fatto? Cosa le ha detto per...?
- Come
eh? come? - rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un
così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. - Come eh?
Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c'entro per
nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo -. E qui si
fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere,
accorgendosi sempre più d'una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora
era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che
Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò
allegramente: - avete fatta una bella azione! M'avete reso un bel servizio! Un
tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo
sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il
vostro malanno! ciò ch'io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora
che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste...! Per amor del cielo! Non si
scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando,
questa mattina, vi davo un buon parere... eh! subito nelle furie. Io avevo
giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.
- Posso
aver fallato, - rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella
quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: - posso aver fallato; ma
si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso...
Così
dicendo, s'era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli
andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e,
con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita
della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, - giurate almeno... -
gli disse.
- Posso
aver fallato; e mi scusi, - rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire.
-
Giurate... - replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano
tremante.
- Posso
aver fallato, - ripeté Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia,
troncando così la questione, che, al pari d'una questione di letteratura o di
filosofia o d'altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle
parti non faceva che replicare il suo proprio argomento.
-
Perpetua! Perpetua! - gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il
fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si
fosse.
È
accaduto più d'una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio,
di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che
parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego,
egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del
giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel
momento, l'ansietà dell'avvenire, fecero l'effetto. Affannato e balordo, si
ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell'ossa, si
guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce
tremolante e stizzosa: - Perpetua! - La venne finalmente, con un gran cavolo
sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio
al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i "voi sola
potete aver parlato", e i "non ho parlato", tutti i pasticci in
somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di
metter la stanga all'uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun
bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la
febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, - son servito
-; e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo.
Renzo
intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che
dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di
terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo,
fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del
pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine
pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d'ogni insidia; ma,
in que' momenti, il suo cuore non batteva che per l'omicidio, la sua mente non
era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa
di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e... ma gli veniva in mente ch'era come
una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i
soli amici e servitori ben conosciuti v'entravan liberamente, senza essere
squadrati da capo a piedi; che un artigianello sconosciuto non vi
potrebb'entrare senza un esame, e ch'egli sopra tutto... egli vi sarebbe forse
troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo,
d'appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a
passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell'immaginazione,
si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d'alzar chetamente la testa;
riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo
vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla
strada del confine a mettersi in salvo. "E Lucia?" Appena questa
parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri
a cui era avvezza la mente di Renzo, v'entrarono in folla. Si rammentò degli
ultimi ricordi de' suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de' santi,
pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza
delitti, all'orrore che aveva tante volte provato al racconto d'un omicidio; e
si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con
una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di
Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire
così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come,
con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come
farla sua, a dispetto della forza di quell'iniquo potente? E insieme a tutto
questo, non un sospetto formato, ma un'ombra tormentosa gli passava per la
mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una
brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola
occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un
momento nella testa di Renzo. Ma n'era informata? Poteva colui aver concepita
quell'infame passione, senza che lei se n'avvedesse? Avrebbe spinte le cose
tanto in là, prima d'averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai
detta una parola a lui! al suo promesso!
Dominato
da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch'era nel mezzo del villaggio,
e, attraversatolo, s'avviò a quella di Lucia, ch'era in fondo, anzi un po'
fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla
strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto
e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S'immaginò che sarebbero
amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel
mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava
nel cortile, gli corse incontro gridando: - lo sposo! lo sposo!
-
Zitta, Bettina, zitta! - disse Renzo. - Vien qua; va' su da Lucia, tirala in
disparte, e dille all'orecchio... ma che nessun senta, né sospetti di nulla,
ve'... dille che ho da parlarle, che l'aspetto nella stanza terrena, e che
venga subito -. La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba
d'avere una commission segreta da eseguire.
Lucia
usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si
rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei
s'andava schermendo, con quella modestia un po' guerriera delle contadine,
facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i
lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s'apriva al sorriso. I neri e
giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile
dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce,
trapassate da lunghi spilli d'argento, che si dividevano all'intorno, quasi a
guisa de' raggi d'un'aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese.
Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d'oro a
filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e
allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe
fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch'esse, a ricami.
Oltre a questo, ch'era l'ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia
aveva quello quotidiano d'una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta
dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un
turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand'in quando
sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare.
La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s'accostò a Lucia, le fece intendere
accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina
all'orecchio.
- Vo un
momento, e torno, - disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la
faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, - cosa c'è? - disse, non
senza un presentimento di terrore.
-
Lucia! - rispose Renzo, - per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo
esser marito e moglie.
- Che?
- disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella
mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, -
ah! - esclamò, arrossendo e tremando, - fino a questo segno!
-
Dunque voi sapevate...? - disse Renzo.
- Pur
troppo! - rispose Lucia; - ma a questo segno!
- Che
cosa sapevate?
- Non
mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a
licenziar le donne: bisogna che siam soli.
Mentre
ella partiva, Renzo sussurrò: - non m'avete mai detto niente.
- Ah,
Renzo! - rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese
benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia,
voleva dire: potete voi dubitare ch'io abbia taciuto se non per motivi giusti e
puri?
Intanto
la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in
curiosità dalla parolina all'orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa
a veder cosa c'era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne
radunate, e, accomodando l'aspetto e la voce, come poté meglio, disse: - il
signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla -. Ciò detto, le salutò tutte
in fretta, e scese di nuovo.
Le
donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l'accaduto. Due o tre andaron fin
all'uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero.
- Un
febbrone, - rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata
all'altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne' loro
cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne' loro discorsi.
Lucia
entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando
Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt'e due si volsero a chi ne
sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento, il quale non poteva
essere che doloroso: tutt'e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con
l'amore diverso che ognun d'essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché
avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di
sentir parlare la figlia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. - A tua
madre non dir niente d'una cosa simile!
- Ora
vi dirò tutto, - rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule.
-
Parla, parla! - Parlate, parlate! - gridarono a un tratto la madre e lo sposo.
-
Santissima Vergine! - esclamò Lucia: - chi avrebbe creduto che le cose
potessero arrivare a questo segno! - E, con voce rotta dal pianto, raccontò
come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro
dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d'un altro
signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com'ella
diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il
passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell'altro signore
rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s'eran
trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli
occhi bassi; e l'altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo,
vedremo. - Per grazia del cielo, - continuò Lucia, - quel giorno era l'ultimo
della filanda. Io raccontai subito...
- A chi
hai raccontato? - domandò Agnese, andando incontro, non senza un po' di sdegno,
al nome del confidente preferito.
- Al
padre Cristoforo, in confessione, mamma, - rispose Lucia, con un accento soave
di scusa. - Gli raccontai tutto, l'ultima volta che siamo andate insieme alla
chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo
mano ora a una cosa, ora a un'altra, per indugiare, tanto che passasse altra
gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro;
perché, dopo quell'incontro, le strade mi facevan tanta paura...
Al nome
riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d'Agnese si raddolcì. - Hai fatto bene,
- disse, - ma perché non raccontar tutto anche a tua madre?
Lucia
aveva avute due buone ragioni: l'una, di non contristare né spaventare la buona
donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l'altra, di
non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere
gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber
troncata, sul principiare, quell'abbominata persecuzione. Di queste due ragioni
però, non allegò che la prima.
- E a
voi, - disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far
riconoscere a un amico che ha avuto torto: - e a voi doveva io parlar di
questo? Pur troppo lo sapete ora!
- E che
t'ha detto il padre? - domandò Agnese.
- M'ha
detto che cercassi d'affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi
rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non
vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai, - proseguì,
rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e
arrossendo tutta, - fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che
procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s'era stabilito.
Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata
consigliata, e tenevo per certo... e questa mattina, ero tanto lontana da
pensare... - Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto.
- Ah
birbone! ah dannato! ah assassino! - gridava Renzo, correndo innanzi e indietro
per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello.
- Oh
che imbroglio, per amor di Dio! - esclamava Agnese. Il giovine si fermò
d'improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza
mesta e rabbiosa, e disse: - questa è l'ultima che fa quell'assassino.
- Ah! no,
Renzo, per amor del cielo! - gridò Lucia. - No, no, per amor del cielo! Il
Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del
male?
- No,
no, per amor del cielo! - ripeteva Agnese.
-
Renzo, - disse Lucia, con un'aria di speranza e di risoluzione più tranquilla:
- voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non
senta più parlar di noi.
- Ah
Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede
di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora...!
Lucia
si rimise a piangere; e tutt'e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento
che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de' loro abiti.
-
Sentite, figliuoli; date retta a me, - disse, dopo qualche momento, Agnese. -
Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna
poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi
poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il
bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d'un uomo che abbia studiato...
so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate
del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor
del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor... Come si chiama,
ora? Oh to'! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta,
cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di
lampone sulla guancia.
- Lo
conosco di vista, - disse Renzo.
- Bene,
- continuò Agnese: - quello è una cima d'uomo! Ho visto io più d'uno ch'era più
impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e,
dopo essere stato un'ora a quattr'occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate
bene di non chiamarlo così!), l'ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei
quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di
domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da
que' signori. Raccontategli tutto l'accaduto; e vedrete che vi dirà, su due
piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno.
Renzo
abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l'approvò; e Agnese, superba
d'averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro
otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con
uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di
speranza, uscì dalla parte dell'orto, per non esser veduto da' ragazzi, che gli
correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi
o, come dicon colà, i luoghi, se n'andò per viottole, fremendo, ripensando alla
sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli.
Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere
bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un
uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che
gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora
l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in
tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste
spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come
accade troppo sovente tra compagni di sventura.
Giunto
al borgo, domandò dell'abitazione del dottore; gli fu indicata, e v'andò.
All'entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati
provano in vicinanza d'un signore e d'un dotto, e dimenticò tutti i discorsi
che aveva preparati; ma diede un'occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in
cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò
essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso,
quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse
e sapesse ch'egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva:
- date qui, e andate innanzi -. Renzo fece un grande inchino: il dottore l'accolse
umanamente, con un - venite, figliuolo, - e lo fece entrar con sé nello studio.
Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti
de' dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e
polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d'allegazioni, di suppliche, di
libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all'intorno, e da una parte un
seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli
angoli da due ornamenti di legno, che s'alzavano a foggia di corna, coperta di
vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo,
lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s'accartocciava qua e là.
Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una toga ormai consunta, che
gli aveva servito, molt'anni addietro, per perorare, ne' giorni d'apparato,
quando andava a Milano, per qualche causa d'importanza. Chiuse l'uscio, e fece
animo al giovine, con queste parole: - figliuolo, ditemi il vostro caso.
-
Vorrei dirle una parola in confidenza.
- Son
qui, - rispose il dottore: - parlate -. E s'accomodò sul seggiolone. Renzo,
ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva
girar con l'altra, ricominciò: - vorrei sapere da lei che ha studiato...
- Ditemi
il fatto come sta, - interruppe il dottore.
- Lei
m'ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque
sapere...
-
Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete
interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa.
- Mi
scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non
faccia un matrimonio, c'è penale.
"Ho
capito", disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. "Ho
capito". E subito si fece serio, ma d'una serietà mista di compassione e
di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono
inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle
sue prime parole. - Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a
venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e... appunto, in una
dell'anno scorso, dell'attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar
con mano.
Così
dicendo, s'alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte,
rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio.
- Dov'è
ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev'esser
qui sicuro, perché è una grida d'importanza. Ah! ecco, ecco -. La prese, la
spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: - il 15
d'ottobre 1627! Sicuro; è dell'anno passato: grida fresca; son quelle che fanno
più paura. Sapete leggere, figliuolo?
- Un
pochino, signor dottore.
- Bene,
venitemi dietro con l'occhio, e vedrete. E, tenendo la grida sciorinata in
aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e
fermandosi distintamente, con grand'espressione, sopra alcuni altri, secondo il
bisogno:
- Se
bene, per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di
dicembre 1620, et confirmata dall'lllustriss. et Eccellentiss. Signore il
Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii
straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti
tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto
divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia,
eccetera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l'Eccell. Sua,
eccetera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, eccetera, ha
risoluto che si pubblichi la presente.
- E
cominciando dagli atti tirannici, mostrando l'esperienza che molti, così nelle
Città, come nelle Ville... sentite? di questo Stato, con tirannide
esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare
che si facciano contratti violenti di compre, d'affitti... eccetera: dove
sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?
È il
mio caso, - disse Renzo.
-
Sentite, sentite, c'è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non
si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello
paghi un debito; quell'altro non lo molesti, quello vada al suo molino:
tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia
quello che è obbligato per l'uficio suo, o faccia cose che non gli toccano.
Eh?
- Pare
che abbian fatta la grida apposta per me.
- Eh?
non è vero? sentite, sentite: et altre simili violenze, quali seguono da
feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Non se ne scappa: ci son
tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite ora la pena. Tutte queste et
altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter
mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina
e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o
altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena
pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte...
una piccola bagattella! all'arbitrio dell'Eccellenza Sua, o del Senato,
secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E questo
ir-re-mis-si-bil-mente e con ogni rigore, eccetera. Ce n'è della roba, eh?
E vedete qui le sottoscrizioni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in
giù: Platonus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente.
Mentre
il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l'occhio, cercando
di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che
gli parevano dover esser il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più
attento che atterrito, si maravigliava. "Che sia matricolato costui",
pensava tra sé. - Ah! ah! - gli disse poi: - vi siete però fatto tagliare il
ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva
bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l'animo di fare,
in un'occasione.
Per
intender quest'uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che, a quel
tempo, i bravi di mestiere, e i facinorosi d'ogni genere, usavan portare un
lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all'atto
d'affrontar qualcheduno, ne' casi in cui stimasser necessario di travisarsi, e
l'impresa fosse di quelle, che richiedevano nello stesso tempo forza e
prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua
Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal
lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà
la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et
in caso d'inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la
seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale,
all'arbitrio di Sua Eccellenza.
Permette
però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa
di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro,
portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili
mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura
necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti
imposta.
E
parimente comanda a' barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di
corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all'arbitrio
come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette
trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell'ordinario, così nella fronte
come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra,
salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il
ciuffo era dunque quasi una parte dell'armatura, e un distintivo de' bravacci e
degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi.
Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel
dialetto: e non ci sarà forse nessuno de' nostri lettori milanesi, che non si
rammenti d'aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o
qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è un ciuffo,
è un ciuffetto.
- In
verità, da povero figliuolo, - rispose Renzo, - io non ho mai portato ciuffo in
vita mia.
- Non
facciam niente, - rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra
malizioso e impaziente. - Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice
le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al
giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a
imbrogliarle. Se volete ch'io v'aiuti, bisogna dirmi tutto, dall'a fino alla
zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui
avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo
caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch'io
sappia da voi, che v'ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar
la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i
concerti opportuni, per finir l'affare lodevolmente. Capite bene che, salvando
sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi
ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli... Purché non abbiate offeso persona
di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impiccio: con un po' di
spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l'offeso, come si dice: e, secondo la
condizione, la qualità e l'umore dell'amico, si vedrà se convenga più di tenerlo
a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d'attaccarlo noi in criminale,
e mettergli una pulce nell'orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le
gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona
di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c'è rimedio anche per
quelle. D'ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è
serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra
la giustizia e voi, così a quattr'occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le
scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità,
fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.
Mentre
il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con
un'attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al
giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e
stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand'ebbe però
capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli
troncò il nastro in bocca, dicendo: - oh! signor dottore, come l'ha intesa? l'è
proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste
cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai
avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo da
lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d'aver
visto quella grida.
-
Diavolo! - esclamò il dottore, spalancando gli occhi. - Che pasticci mi fate?
Tant'è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi
scusi; lei non m'ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com'è. Sappia dunque
ch'io dovevo sposare oggi, - e qui la voce di Renzo si commosse, - dovevo
sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest'estate; e oggi,
come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s'era disposto ogni
cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse... basta,
per non tediarla, io l'ho fatto parlar chiaro, com'era giusto; e lui m'ha
confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio.
Quel prepotente di don Rodrigo...
- Eh
via! - interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso
rosso, e storcendo la bocca, - eh via! Che mi venite a rompere il capo con
queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar
le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono.
Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m'impiccio con ragazzi; non
voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le
giuro...
-
Andate, vi dico: che volete ch'io faccia de' vostri giuramenti? Io non c'entro:
me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero.
- Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma
senta, ma senta, - ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo
spingeva con le mani verso l'uscio; e, quando ve l'ebbe cacciato, aprì, chiamò
la serva, e le disse: - restituite subito a quest'uomo quello che ha portato:
io non voglio niente, non voglio niente.
Quella
donna non aveva mai, in tutto il tempo ch'era stata in quella casa, eseguito un
ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a
ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un'occhiata
di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l'abbia
fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il
giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime
rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua
spedizione.
Le
donne, nella sua assenza, dopo essersi tristamente levate il vestito delle
feste e messo quello del giorno di lavoro, si misero a consultar di nuovo,
Lucia singhiozzando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato de'
grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse che
bisognava veder d'aiutarsi in tutte le maniere; che il padre Cristoforo era
uomo non solo da consigliare, ma da metter l'opera sua, quando si trattasse di
sollevar poverelli; e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò
ch'era accaduto. - Sicuro, - disse Agnese: e si diedero a cercare insieme la
maniera; giacché andar esse al convento, distante di là forse due miglia, non
se ne sentivano il coraggio, in quel giorno: e certo nessun uomo di giudizio
gliene avrebbe dato il parere. Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si
sentì un picchietto all'uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto
- Deo gratias -. Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad
aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore
cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone
l'imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto.
- Oh
fra Galdino! - dissero le due donne.
- Il
Signore sia con voi, - disse il frate. - Vengo alla cerca delle noci.
- Va' a
prender le noci per i padri, - disse Agnese. Lucia s'alzò, e s'avviò all'altra
stanza, ma, prima d'entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che
rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito alla bocca, diede
alla madre un'occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con
supplicazione, e anche con una certa autorità.
Il
cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: - e questo matrimonio? Si
doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci
fosse una novità. Cos'è stato?
- Il
signor curato è ammalato, e bisogna differire, - rispose in fretta la donna. Se
Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. -
E come va la cerca? - soggiunse poi, per mutar discorso.
- Poco
bene, buona donna, poco bene. Le son
tutte qui -. E, così dicendo, si levò la bisaccia d'addosso, e la fece
saltar tra le due mani. - Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella
abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte.
- Ma!
le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s'ha a misurar il pane, non si
può allargar la mano nel resto.
- E per
far tornare il buon tempo, che rimedio c'è, la mia donna? L'elemosina. Sapete
di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt'anni sono, in quel nostro
convento di Romagna?
- No,
in verità; raccontatemelo un poco.
- Oh!
dovete dunque sapere che, in quel convento, c'era un nostro padre, il quale era
un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d'inverno, passando per una
viottola, in un campo d'un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre
Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini,
con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le
radici al sole. "Che fate voi a quella povera pianta?" domandò il
padre Macario. "Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e
io ne faccio legna". "Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che,
quest'anno, la farà più noci che foglie". Il benefattore, che sapeva chi
era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che
gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava
la sua strada, "padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per
il convento". Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a
guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci
a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché
andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il
miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav'uomo aveva lasciato un
figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò
per riscotere la metà ch'era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo
affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i
cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite
questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e,
gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de' frati. Que'
giovinastri ebber voglia d'andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e
lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l'uscio, va verso il cantuccio
dov'era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli
stesso e vede... che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un
esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo
un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un
benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la
carità d'un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant'olio,
che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam
come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a
tutti i fiumi.
Qui
ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggeva a fatica,
tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allungate. Mentre fra
Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne scioglieva la
bocca, per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e
severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata, che
voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augùri, in promesse,
in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s'avviava. Ma Lucia,
richiamatolo, disse: - vorrei un servizio da voi; vorrei che diceste al padre
Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia la carità di
venir da noi poverette, subito subito; perché non possiamo andar noi alla
chiesa.
- Non
volete altro? Non passerà un'ora che il padre Cristoforo saprà il vostro
desiderio.
- Mi
fido.
- Non
dubitate -. E così detto, se n'andò, un po' più curvo e più contento, di quel
che fosse venuto.
Al
vedere che una povera ragazza mandava a chiamare, con tanta confidenza, il
padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione, senza maraviglia
e senza difficoltà, nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di
dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi,
e in tutto il contorno; ma tale era la condizione de' cappuccini, che nulla
pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl'infimi, ed esser
servito da' potenti, entrar ne' palazzi e ne' tuguri, con lo stesso contegno
d'umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di
passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder
l'elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a
tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente
abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone,
o in una brigata di ragazzacci che, fingendo d'esser alle mani tra loro,
gl'inzaccherassero la barba di fango. La parola "frate" veniva, in
que' tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo: e i
cappuccini, forse più d'ogni altr'ordine, eran oggetto de' due opposti
sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perché, non possedendo nulla,
portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta
professione d'umiltà, s'esponevan più da vicino alla venerazione e al
vilipendio che queste cose possono attirare da' diversi umori, e dal diverso
pensare degli uomini.
Partito
fra Galdino, - tutte quelle noci! - esclamò Agnese: - in quest'anno!
-
Mamma, perdonatemi, - rispose Lucia; - ma, se avessimo fatta un'elemosina come
gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima
d'aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le
ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente...
- Hai
pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto, - disse
Agnese, la quale, co' suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe,
come si dice, buttata nel fuoco per quell'unica figlia, in cui aveva riposta
tutta la sua compiacenza.
In
questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto dispettoso insieme e
mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l'ultima trista
vicenda delle povere bestie, per quel giorno.
- Bel
parere che m'avete dato! - disse ad Agnese. - M'avete mandato da un buon
galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli! - E raccontò il suo
abboccamento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, voleva
mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non doveva aver
saputo far la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella questione,
annunziando che sperava d'aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche
questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell'impiccio.
- Ma, se il padre, - disse, - non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un
modo o nell'altro.
Le
donne consigliaron la pace, la pazienza, la prudenza. - Domani, - disse Lucia,
- il padre Cristoforo verrà sicuramente; e vedrete che troverà qualche rimedio,
di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno immaginare.
- Lo
spero; - disse Renzo, - ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela fare.
A questo mondo c'è giustizia finalmente.
Co'
dolorosi discorsi, e con le andate e venute che si son riferite, quel giorno
era passato; e cominciava a imbrunire.
- Buona
notte, - disse tristamente Lucia a Renzo, il quale non sapeva risolversi
d'andarsene.
- Buona
notte, - rispose Renzo, ancor più tristamente.
-
Qualche santo ci aiuterà, - replicò Lucia: - usate prudenza, e rassegnatevi.
La
madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n'andò, col
cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: - a questo mondo c'è
giustizia, finalmente! - Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa
più quel che si dica.
Il sole
non era ancor tutto apparso sull'orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal
suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov'era aspettato. È
Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell'Adda, o vogliam dire del
lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da
pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il
convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in
faccia all'entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a
Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s'alzava dietro
il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de' monti opposti, scendere,
come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello
d'autunno, staccando da' rami le foglie appassite del gelso, le portava a
cadere, qualche passo distante dall'albero. A destra e a sinistra, nelle vigne,
sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la
terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne' campi di stoppie
biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d'uomo
che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto,
s'incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o
spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al
padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a
sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un
inchino di ringraziamento, per l'elemosina che avevan ricevuta, o che andavano
a cercare al convento. Lo spettacolo de' lavoratori sparsi ne' campi, aveva
qualcosa d'ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade,
con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme;
altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla.
La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra
stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della
famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini
potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del
frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d'andar a
sentire qualche sciagura.
"Ma
perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s'era
mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi
era questo padre Cristoforo?" Bisogna soddisfare a tutte queste domande.
Il
padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai
cinquant'anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi
girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s'alzava di tempo in tempo, con
un movimento che lasciava trasparire un non so che d'altero e d'inquieto; e
subito s'abbassava, per riflessione d'umiltà. La barba bianca e lunga, che gli
copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate
della parte superiore del volto, alle quali un'astinenza, già da gran pezzo
abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d'espressione. Due
occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con
vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere,
col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo
in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Il
padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il
suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d'un mercante di *** (questi
asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne' suoi
ultim'anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell'unico figliuolo,
aveva rinunziato al traffico, e s'era dato a viver da signore.
Nel suo
nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo
che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal
fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch'era stato mercante:
avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il
libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l'ombra di Banco a
Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de' parassiti. E non si
potrebbe dire la cura che dovevano aver que' poveretti, per schivare ogni
parola che potesse parere allusiva all'antica condizione del convitante. Un
giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne' momenti
della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più
godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d'aver apparecchiato,
andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que' commensali, il più
onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la
minima ombra di malizia, proprio col candore d'un bambino, rispose: - eh! io fo
l'orecchio del mercante -. Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola
che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del
padrone, che s'era rannuvolata: l'uno e l'altro avrebber voluto riprender
quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da
sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma,
pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno
scansava d'incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran
occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno,
se n'andò; e l'imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non
ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in
angustie continue, temendo sempre d'essere schernito, e non riflettendo mai che
il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di
cui allora si vergognava, l'aveva pure esercitata per tant'anni, in presenza
del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la
condizione de' tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle
consuetudini; gli diede maestri di lettere e d'esercizi cavallereschi; e morì,
lasciandolo ricco e giovinetto.
Lodovico
aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era
cresciuto, l'avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando
volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da
quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia,
come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di
sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal
maniera di vivere non s'accordava, né con l'educazione, né con la natura di
Lodovico. S'allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con
rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi
compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto
d'inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo
pure aver che far con loro in qualche modo, s'era dato a competer con loro di
sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e
ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l'aveva poi imbarcato per
tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per
l'angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità
delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch'erano appunto coloro
coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte
queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d'un debole
sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s'intrometteva in una
briga, se ne tirava addosso un'altra; tanto che, a poco a poco, venne a
costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de' torti.
L'impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse
nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato
continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza
parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar
raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva
tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come
per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i
più ribaldi; e vivere co' birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più
d'una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo
imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in
pensiero dell'avvenire, per le sue sostanze che se n'andavan, di giorno in
giorno, in opere buone e in braverie, più d'una volta gli era saltata la
fantasia di farsi frate; che, a que' tempi, era il ripiego più comune, per
uscir d'impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la
sua vita, divenne una risoluzione, a causa d'un accidente, il più serio che gli
fosse ancor capitato.
Andava
un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato
da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa,
diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant'anni, affezionato,
dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e
regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una
numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e
soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma
che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il
contraccambio: giacché è uno de' vantaggi di questo mondo, quello di poter
odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi,
s'avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta
all'alterigia e allo sprezzo. Tutt'e due camminavan rasente al muro; ma
Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una
consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non
istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale
allora si faceva gran caso. L'altro pretendeva, all'opposto, che quel diritto
competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d'andar nel mezzo; e
ciò in forza d'un'altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti
altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse
deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una
guerra, ogni volta che una testa dura s'abbattesse in un'altra della stessa
tempra. Que' due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure
di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale,
squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono
corrispondente di voce: - fate luogo.
- Fate
luogo voi, - rispose Lodovico. - La diritta è mia.
- Co'
vostri pari, è sempre mia.
- Sì,
se l'arroganza de' vostri pari fosse legge per i pari miei. I bravi dell'uno e
dell'altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in
cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che
arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la
presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de' contendenti.
- Nel
mezzo, vile meccanico; o ch'io t'insegno una volta come si tratta co'
gentiluomini.
- Voi
mentite ch'io sia vile.
- Tu
menti ch'io abbia mentito -. Questa risposta era di prammatica. - E, se tu
fossi cavaliere, come son io, - aggiunse quel signore, - ti vorrei far vedere,
con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.
- E un
buon pretesto per dispensarvi di sostener co' fatti l'insolenza delle vostre
parole.
-
Gettate nel fango questo ribaldo, - disse il gentiluomo, voltandosi a' suoi.
-
Vediamo! - disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano
alla spada.
-
Temerario! - gridò l'altro, sfoderando la sua: - io spezzerò questa, quando
sarà macchiata del tuo vil sangue.
Così
s'avventarono l'uno all'altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla
difesa de' loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e
anche perché Lodovico mirava piùttosto a scansare i colpi, e a disarmare il
nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo.
Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d'un bravo, e una
sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava
addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell'estremo pericolo,
andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di
lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò
la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col
povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch'era finita, si diedero alla
fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non
essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che
già accorreva, scantonarono dall'altra parte: e Lodovico si trovò solo, con
que' due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla.
- Com'è
andata? - È uno. - Son due. - Gli ha fatto un occhiello nel ventre. - Chi è
stato ammazzato? - Quel prepotente. - Oh santa Maria, che sconquasso! - Chi
cerca trova. - Una le paga tutte. - Ha finito anche lui. - Che colpo! - Vuol
essere una faccenda seria. - E quell'altro disgraziato! - Misericordia! che
spettacolo! - Salvatelo, salvatelo. - Sta fresco anche lui. - Vedete com'è
concio! butta sangue da tutte le parti. - Scappi, scappi. Non si lasci
prendere.
Queste
parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella
folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l'aiuto. Il
fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa,
impenetrabile allora a' birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone,
che si chiamava la giustizia. L'uccisore ferito fu quivi condotto o portato
dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del
popolo, che glielo raccomandava, dicendo: - è un uomo dabbene che ha freddato
un birbone superbo: l'ha fatto per sua difesa: c'è stato tirato per i capelli.
Lodovico
non aveva mai, prima d'allora, sparso sangue; e, benché l'omicidio fosse, a que'
tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi a sentirlo
raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l'impressione ch'egli ricevette dal
veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu
una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico,
l'alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal
furore, all'abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che
cambiò, in un punto, l'animo dell'uccisore. Strascinato al convento, non sapeva
quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò
in un letto dell'infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i cappuccini ne
avevano ordinariamente uno in ogni convento), che accomodava faldelle e fasce
sulle due ferite ch'egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego
particolare era d'assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render
questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento.
Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell'infermeria, e, avvicinatosi al letto
dove Lodovico giaceva, - consolatevi - gli disse: - almeno è morto bene, e m'ha
incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo -. Questa parola
fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più
distintamente i sentimenti ch'eran confusi e affollati nel suo animo: dolore
dell'amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello
stesso tempo, un'angosciosa compassione dell'uomo che aveva ucciso. - E
l'altro? - domandò ansiosamente al frate.
-
L'altro era spirato, quand'io arrivai. Frattanto, gli accessi e i contorni del
convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir
la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno
potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un
vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento
di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di
dispetto minaccioso, que' curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma
l'avevano scritto in viso.
Appena
Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore,
lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome
perdono d'essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di
quella desolazione, e, nello stesso tempo, l'assicurasse ch'egli prendeva la
famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a' casi suoi, sentì rinascere più che mai
vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per
la mente: gli parve che Dio medesimo l'avesse messo sulla strada, e datogli un
segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura;
e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo
desiderio. N'ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni
precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire
un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch'era tuttavia
un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se
le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo
aveva lasciati.
La
risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali,
per cagion sua, erano in un bell'intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo
così alla giustizia, cioè alla vendetta de' suoi nemici, non era partito da
metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a' propri
privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di
tutti i cappuccini dell'universo, per aver lasciato violare il diritto di
tutti, concitarsi contro tutte l'autorità ecclesiastiche, le quali si
consideravan come tutrici di questo diritto. Dall'altra parte, la famiglia
dell'ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s'era messa al
punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s'attentasse di
mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell'ucciso, e
nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice
soltanto ch'eran tutti smaniosi d'aver nell'unghie l'uccisore, o vivo o morto.
Ora questo, vestendo l'abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in
certa maniera, un'emenda, s'imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente
in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l'armi. I
parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che
s'era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni
modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a
piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d'elemosina, poteva parere una
punizione competente, anche all'offeso il più borioso.
Il
padre guardiano si presentò, con un'umiltà disinvolta, al fratello del morto,
e, dopo mille proteste di rispetto per l'illustrissima casa, e di desiderio di
compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di
Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa
poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera ancor più
destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede
in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: - è
un troppo giusto dolore -. Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia
avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne
pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che
l'uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il guardiano, che
aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando
che l'altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d'ubbidienza: e tutto
fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati,
che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i
dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente;
contento il popolo, che vedeva fuor d'impiccio un uomo ben voluto, e che, nello
stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in
mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d'espiazione
e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e
rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua
risoluzione fosse attribuita alla paura, l'afflisse un momento; ma si consolò
subito, col pensiero che anche quell'ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per
lui, e un mezzo d'espiazione. Così, a trent'anni, si ravvolse nel sacco; e,
dovendo, secondo l'uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse
uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò
fra Cristoforo.
Appena
compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl'intimò che sarebbe
andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe
all'indomani. Il novizio s'inchinò profondamente, e chiese una grazia. -
Permettetemi, padre, - disse, - che, prima di partir da questa città, dove ho
sparso il sangue d'un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la
ristori almeno dell'affronto, ch'io mostri almeno il mio rammarico di non poter
risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell'ucciso, e gli levi, se
Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall'animo -. Al guardiano parve che
un tal passo, oltre all'esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più
la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli
la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme
con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche
compiacenza. Dopo aver pensato un momento, - venga domani, - disse; e assegnò
l'ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.
Il
gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e
clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e
presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un'eleganza moderna) una bella
pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti
che, all'indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di
venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo
brulicava di signori d'ogni età e d'ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi
di gran cappe, d'alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di
gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre. Le
anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di
bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell'apparecchio, ne indovinò il
motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé:
"sta bene: l'ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici:
quello fu scandalo, questa è riparazione". Così, con gli occhi bassi, col
padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile,
tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le
scale, e, di mezzo all'altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio,
seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale,
circondato da' parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo
sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo
della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.
C'è
talvolta, nel volto e nel contegno d'un uomo, un'espressione così immediata, si
direbbe quasi un'effusione dell'animo interno, che, in una folla di spettatori,
il giudizio sopra quell'animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra
Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s'era fatto frate, né veniva a
quell'umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti.
Quando vide l'offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi,
incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: -
io sono l'omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del
mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la
supplico d'accettarle per l'amor di Dio -. Tutti gli occhi erano immobili sul
novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi.
Quando fra Cristoforo tacque, s'alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e
di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d'ira
compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l'inginocchiato, -
alzatevi, - disse, con voce alterata: - l'offesa... il fatto veramente... ma
l'abito che portate... non solo questo, ma anche per voi... S'alzi, padre...
Mio fratello... non lo posso negare... era un cavaliere... era un uomo... un
po' impetuoso... un po' vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne
parli più... Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura -. E, presolo
per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino,
rispose: - io posso dunque sperare che lei m'abbia concesso il suo perdono! E
se l'ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s'io potessi sentire dalla
sua bocca questa parola, perdono!
-
Perdono? - disse il gentiluomo. - Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo
desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti...
-
Tutti! tutti! - gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s'aprì a
una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un'umile e
profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva
riparare. Il gentiluomo, vinto da quell'aspetto, e trasportato dalla commozione
generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di
pace. Un - bravo! bene! - scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si
mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran
copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale
faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: - padre, gradisca qualche
cosa; mi dia questa prova d'amicizia -. E si mise per servirlo prima d'ogni
altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, - queste cose,
- disse, - non fanno più per me; ma non sarà mai ch'io rifiuti i suoi doni. Io
sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa
dire d'aver goduto la sua carità, d'aver mangiato il suo pane, e avuto un segno
del suo perdono -. Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne
subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d'argento, e
lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta.
Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti
quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si
liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell'anticamere, per isbrigarsi da'
servitori, e anche da' bravi, che gli baciavano il lembo dell'abito, il
cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e
accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d'onde uscì,
cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.
Il
fratello dell'ucciso, e il parentado, che s'erano aspettati d'assaporare in
quel giorno la trista gioia dell'orgoglio, si trovarono in vece ripieni della
gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor
qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti
ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di
soprusi vendicati, d'impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione,
la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la
cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva
saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao,
ch'era quel rodomonte che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della
pazienza mirabile d'un fra Simone, morto molt'anni prima. Partita la compagnia,
il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che
aveva in teso, ciò ch'egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: -
diavolo d'un frate! - (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole)
- diavolo d'un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento,
quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m'abbia ammazzato il fratello -. La nostra
storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po'
men precipitoso, e un po' più alla mano.
Il
padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata,
dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser
consacrata. Il silenzio ch'era imposto a' novizi, l'osservava, senza
avvedersene, assorto com'era, nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e
dell'umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all'ora
della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del
pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo,
come un ricordo perpetuo.
Non è
nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che,
adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano
ordinariamente assegnati, di predicare e d'assistere i moribondi, non lasciava
mai sfuggire un'occasione d'esercitarne due altri, che s'era imposti da sé:
accomodar differenze, e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per
qualche parte, senza ch'egli se n'avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un
resticciolo di spiriti guerreschi, che l'umiliazioni e le macerazioni non
avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e
posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l'uomo
s'animava, a un tratto, dell'impeto antico, che, secondato e modificato da
un'enfasi solenne, venutagli dall'uso del predicare, dava a quel linguaggio un
carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l'aspetto, annunziava una
lunga guerra, tra un'indole focosa, risentita, e una volontà opposta,
abitualmente vittoriosa, sempre all'erta, e diretta da motivi e da ispirazioni
superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l'aveva una
volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale,
che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca,
smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno
però ricordare della loro energia primitiva.
Se una
poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l'aiuto del
padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia,
accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammirava l'innocenza
di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un'indegnazione
santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l'oggetto. Oltre di
ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di
starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche
tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch'era in lui come ingenita,
s'aggiungeva, in questo caso, quell'angustia scrupolosa che spesso tormenta i
buoni.
Ma,
intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, è
arrivato, s'è affacciato all'uscio; e le donne, lasciando il manico dell'aspo
che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: - oh padre Cristoforo!
sia benedetto!
Il qual
padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena ebbe data un'occhiata
alle donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non eran falsi. Onde,
con quel tono d'interrogazione che va incontro a una trista risposta, alzando
la barba con un moto leggiero della testa all'indietro, disse: - ebbene? -
Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a far le scuse
d'aver osato... ma il frate s'avanzò, e, messosi a sedere sur un panchetto a tre
piedi, troncò i complimenti, dicendo a Lucia: - quietatevi, povera figliuola. E
voi, - disse poi ad Agnese, - raccontatemi cosa c'è! - Mentre la buona donna
faceva alla meglio la sua dolorosa relazione, il frate diventava di mille
colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora batteva i piedi. Terminata la
storia, si coprì il volto con le mani, ed esclamò: - o Dio benedetto! fino a
quando...! - Ma, senza compir la frase, voltandosi di nuovo alle donne: -
poverette! - disse: - Dio vi ha visitate. Povera Lucia!
- Non
ci abbandonerà, padre? - disse questa, singhiozzando.
-
Abbandonarvi! - rispose. - E con che faccia potrei io chieder a Dio qualcosa
per me, quando v'avessi abbandonata? voi in questo stato! voi, ch'Egli mi
confida! Non vi perdete d'animo: Egli v'assisterà: Egli vede tutto: Egli può
servirsi anche d'un uomo da nulla come son io, per confondere un... Vediamo,
pensiamo quel che si possa fare.
Così
dicendo, appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, chinò la fronte nella
palma, e con la destra strinse la barba e il mento, come per tener ferme e
unite tutte le potenze dell'animo. Ma la più attenta considerazione non serviva
che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse pressante e
intrigato, e quanto scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi.
"Mettere un po' di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi
al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E
fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella che ha
d'una schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e invocar la
sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand'anche questa povera
innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per quell'uomo? Chi sa a qual
segno possa arrivare?... E resistergli? Come? Ah! se potessi, pensava il povero
frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, que' di Milano! Ma! non
è un affare comune; sarei abbandonato. Costui fa l'amico del convento, si
spaccia per partigiano de' cappuccini: e i suoi bravi non son venuti più d'una
volta a ricoverarsi da noi? Sarei solo in ballo; mi buscherei anche
dell'inquieto, dell'imbroglione, dell'accattabrighe; e, quel ch'è più, potrei
fors'anche, con un tentativo fuor di tempo, peggiorar la condizione di questa
poveretta". Contrappesato il pro e il contro di questo e di quel partito,
il migliore gli parve d'affrontar don Rodrigo stesso, tentar di smoverlo dal
suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell'altra vita, anche di
questa, se fosse possibile. Alla peggio, si potrebbe almeno conoscere, per
questa via, più distintamente quanto colui fosse ostinato nel suo sporco
impegno, scoprir di più le sue intenzioni, e prender consiglio da ciò.
Mentre
il frate stava così meditando, Renzo, il quale, per tutte le ragioni che ognun
può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa, era comparso
sull'uscio; ma, visto il padre sopra pensiero, e le donne che facevan cenno di
non disturbarlo, si fermò sulla soglia, in silenzio. Alzando la faccia, per
comunicare alle donne il suo progetto, il frate s'accorse di lui, e lo salutò
in un modo ch'esprimeva un'affezione consueta, resa più intensa dalla pietà.
- Le
hanno detto..., padre? - gli domandò Renzo, con voce commossa.
- Pur
troppo; e per questo son qui.
Che
dice di quel birbone...?
- Che
vuoi ch'io dica di lui? Non è qui a sentire: che gioverebbero le mie parole?
Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio non t'abbandonerà.
-
Benedette le sue parole! - esclamò il giovane. - Lei non è di quelli che dan
sempre torto a' poveri. Ma il signor curato, e quel signor dottor delle cause
perse...
- Non
rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti inutilmente. Io
sono un povero frate; ma ti ripeto quel che ho detto a queste donne: per quel
poco che posso, non v'abbandonerò.
- Oh,
lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste
che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran pronti a dare il sangue per
me; m'avrebbero sostenuto contro il diavolo. S'io avessi avuto un nemico?... bastava
che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se
vedesse come si ritirano... - A questo punto, alzando gli occhi al volto del
padre, vide che s'era tutto rannuvolato, e s'accorse d'aver detto ciò che
conveniva tacere. Ma volendo raccomodarla, s'andava intrigando e imbrogliando:
- volevo dire... non intendo dire... cioè, volevo dire...
- Cosa
volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l'opera mia, prima che
fosse intrapresa! Buon per te che sei stato disingannato in tempo. Che! tu
andavi in cerca d'amici... quali amici!... che non t'avrebber potuto aiutare,
neppur volendo! E cercavi di perder Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu
che Dio è l'amico de' tribolati, che confidano in Lui? Non sai tu che, a metter
fuori l'unghie, il debole non ci guadagna? E quando pure... - A questo punto,
afferrò fortemente il braccio di Renzo: il suo aspetto, senza perder
d'autorità, s'atteggiò d'una compunzione solenne, gli occhi s'abbassarono, la
voce divenne lenta e come sotterranea: - quando pure... è un terribile
guadagno! Renzo! vuoi tu confidare in me?... che dico in me, omiciattolo,
fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?
- Oh
sì! - rispose Renzo. - Quello è il Signore davvero.
-
Ebbene; prometti che non affronterai, che non provocherai nessuno, che ti
lascerai guidar da me.
- Lo
prometto. Lucia fece un gran respiro, come se le avesser levato un peso
d'addosso; e Agnese disse: - bravo figliuolo.
-
Sentite, figliuoli, - riprese fra Cristoforo: - io anderò oggi a parlare a quell'uomo.
Se Dio gli tocca il cuore, e dà forza alle mie parole, bene: se no, Egli ci
farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto, statevi quieti, ritirati,
scansate le ciarle, non vi fate vedere. Stasera, o domattina al più tardi, mi
rivedrete -. Detto questo, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e
partì. S'avviò al convento, arrivò a tempo d'andare in coro a cantar sesta,
desinò, e si mise subito in cammino, verso il covile della fiera che voleva
provarsi d'ammansare.
Il
palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d'una bicocca, sulla
cima d'uno de' poggi ond'è sparsa e rilevata quella costiera. A questa
indicazione l'anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne
alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo
forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che
guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole,
abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo
piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de'
costumi del paese. Dando un'occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio
fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe,
rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa.
La gente che vi s'incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran
ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le
zanne, parevan sempre pronti, chi nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive;
donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire
in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne' sembianti e nelle mosse
de' fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di
petulante e di provocativo.
Fra
Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e
pervenne su una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa,
segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato. Le rade e
piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte
dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno
tant'alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d'un altro.
Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che
fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte,
collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d'abitanti. Due
grand'avoltoi, con l'ali spalancate, e co' teschi penzoloni, l'uno
spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l'altro ancor saldo e pennuto, erano
inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati,
ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia,
aspettando d'esser chiamati a goder gli avanzi della tavola del signore. Il
padre si fermò ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare; ma un de' bravi
s'alzò, e gli disse: - padre, padre, venga pure avanti: qui non si fanno
aspettare i cappuccini: noi siamo amici del convento: e io ci sono stato in
certi momenti che fuori non era troppo buon'aria per me; e se mi avesser tenuta
la porta chiusa, la sarebbe andata male -. Così dicendo, diede due picchi col
martello. A quel suono risposer subito di dentro gli urli e le strida di
mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse borbottando un vecchio
servitore; ma, veduto il padre, gli fece un grand'inchino, acquietò le bestie,
con le mani e con la voce, introdusse l'ospite in un angusto cortile, e
richiuse la porta. Accompagnatolo poi in un salotto, e guardandolo con una
cert'aria di maraviglia e di rispetto, disse: - non è lei... il padre
Cristoforo di Pescarenico?
- Per
l'appunto.
- Lei
qui?
- Come
vedete, buon uomo.
- Sarà
per far del bene. Del bene, - continuò mormorando tra i denti, e
rincamminandosi, - se ne può far per tutto -. Attraversati due o tre altri
salotti oscuri, arrivarono all'uscio della sala del convito. Quivi un gran
frastono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopra tutto
di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Il frate voleva
ritirarsi, e stava contrastando dietro l'uscio col servitore, per ottenere
d'essere lasciato in qualche canto della casa, fin che il pranzo fosse
terminato; quando l'uscio s'aprì. Un certo conte Attilio, che stava seduto in
faccia (era un cugino del padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui,
senza nominarlo), veduta una testa rasa e una tonaca, e accortosi
dell'intenzione modesta del buon frate, - ehi! ehi! - gridò: - non ci scappi,
padre riverito: avanti, avanti -. Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il
soggetto di quella visita, pure, per non so qual presentimento confuso,
n'avrebbe fatto di meno. Ma, poiché lo spensierato d'Attilio aveva fatta quella
gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro; e disse: - venga,
padre, venga -. Il padre s'avanzò, inchinandosi al padrone, e rispondendo, a
due mani, ai saluti de' commensali.
L'uomo
onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo
con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo
scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prender
quell'attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si
riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon
testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della
causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto d'orrore e di compassione
per don Rodrigo, stesse con una cert'aria di suggezione e di rispetto, alla
presenza di quello stesso don Rodrigo, ch'era lì in capo di tavola, in casa
sua, nel suo regno, circondato d'amici, d'omaggi, di tanti segni della sua
potenza, con un viso da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che
un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. Alla sua destra
sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di
libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare,
per alcuni giorni, con lui. A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava,
con gran rispetto, temperato però d'una certa sicurezza, e d'una certa
saccenteria, il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato
a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come
s'è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d'un rispetto il più puro, il
più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col
naso più rubicondo del solito: in faccia ai due cugini, due convitati oscuri,
de' quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare,
chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a
cui un altro non contraddicesse.
- Da
sedere al padre, - disse don Rodrigo. Un servitore presentò una sedia, sulla
quale si mise il padre Cristoforo, facendo qualche scusa al signore, d'esser
venuto in ora inopportuna. - Bramerei di parlarle da solo a solo, con suo
comodo, per un affare d'importanza, - soggiunse poi, con voce più sommessa, all'orecchio
di don Rodrigo.
- Bene,
bene, parleremo; - rispose questo: - ma intanto si porti da bere al padre. Il
padre voleva schermirsi; ma don Rodrigo, alzando la voce, in mezzo al trambusto
ch'era ricominciato, gridava: - no, per bacco, non mi farà questo torto; non
sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa casa, senza aver gustato del
mio vino, né un creditore insolente, senza aver assaggiate le legna de' miei
boschi -. Queste parole eccitarono un riso universale, e interruppero un
momento la questione che s'agitava caldamente tra i commensali. Un servitore,
portando sur una sottocoppa un'ampolla di vino, e un lungo bicchiere in forma
di calice, lo presentò al padre; il quale, non volendo resistere a un invito
tanto pressante dell'uomo che gli premeva tanto di farsi propizio, non esitò a
mescere, e si mise a sorbir lentamente il vino.
-
L'autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà riverito; anzi è
contro di lei; - riprese a urlare il conte Attilio: - perché quell'uomo
erudito, quell'uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della
cavalleria, ha fatto che il messo d'Argante, prima d'esporre la sfida ai
cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione...
- Ma
questo - replicava, non meno urlando, il podestà, - questo è un di più, un mero
di più, un ornamento poetico, giacché il messaggiero è di sua natura
inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto
a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i
proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E, non avendo il
messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida
in iscritto...
- Ma
quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non
conosceva le prime...?
- Con
buona licenza di lor signori, - interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe
voluto che la questione andasse troppo avanti: - rimettiamola nel padre
Cristoforo; e si stia alla sua sentenza.
- Bene,
benissimo, - disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto garbata di far
decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà, più
infervorato di cuore nella questione, si chetava a stento, e con un certo viso,
che pareva volesse dire: ragazzate.
- Ma,
da quel che mi pare d'aver capito, - disse il padre, - non son cose di cui io
mi deva intendere.
-
Solite scuse di modestia di loro padri; - disse don Rodrigo: - ma non mi
scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in
capo, e che il mondo l'ha conosciuto. Via, via: ecco la questione.
- Il
fatto è questo, - cominciava a gridare il conte Attilio.
-
Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino, - riprese don Rodrigo. - Ecco la
storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il
portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un
fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà
alcune bastonate al portatore. Si tratta...
- Ben
date, ben applicate, - gridò il conte Attilio. - Fu una vera ispirazione.
- Del
demonio, - soggiunse il podestà. - Battere un ambasciatore! persona sacra!
Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.
- Sì,
signore, da cavaliere, - gridò il conte: - e lo lasci dire a me, che devo
intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni,
sarebbe un'altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello
che non posso capire è perché le premano tanto le spalle d'un mascalzone.
- Chi
le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non
mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io.
Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i
feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli,
chiedevan licenza d'esporre l'ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che
faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.
- Che
hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla
buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi
della cavalleria moderna, ch'è la vera, dico e sostengo che un messo il quale
ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta
licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo...
-
Risponda un poco a questo sillogismo.
-
Niente, niente, niente.
- Ma
ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui
il messo de quo era senz'arme; ergo...
-
Piano, piano, signor podestà.
- Che
piano?
-
Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la
spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per
questo, si posson dar certi casi... ma stiamo nella questione. Concedo che
questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro
bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti
bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada. E lei, signor dottor
riverito, in vece di farmi de' sogghigni, per farmi capire ch'è del mio parere,
perché non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a
persuader questo signore?
- Io...
- rispose confusetto il dottore: - io godo di questa dotta disputa; e ringrazio
il bell'accidente che ha dato occasione a una guerra d'ingegni così graziosa. E
poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già
delegato un giudice... qui il padre...
- È
vero; - disse don Rodrigo: - ma come volete che il giudice parli, quando i
litiganti non vogliono stare zitti?
-
Ammutolisco, - disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la
mano, come in atto di rassegnazione.
- Ah
sia ringraziato il cielo! A lei, padre, - disse don Rodrigo, con una serietà
mezzo canzonatoria.
- Ho
già fatte le mie scuse, col dire che non me n'intendo, - rispose fra
Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore.
- Scuse
magre: - gridarono i due cugini: - vogliamo la sentenza!
-
Quand'è così, - riprese il frate, - il mio debole parere sarebbe che non vi
fossero né sfide, né portatori, né bastonate.
I
commensali si guardarono l'un con l'altro maravigliati.
- Oh
questa è grossa! - disse il conte Attilio. - Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si
vede che lei non conosce il mondo.
- Lui?
- disse don Rodrigo: - me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto
voi: non è vero, padre? Dica, dica, se non ha fatta la sua carovana?
In vece
di rispondere a quest'amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto
a sé medesimo: "queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui
per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto".
- Sarà,
- disse il cugino: - ma il padre... come si chiama il padre?
- Padre
Cristoforo - rispose più d'uno.
- Ma,
padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe
mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto
d'onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è
impossibile.
-
Animo, dottore, - scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la
disputa dai due primi contendenti, - animo, a voi, che, per dar ragione a
tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al
padre Cristoforo.
- In
verità, - rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e
rivolgendosi al padre, - in verità io non so intendere come il padre
Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l'uomo di mondo, non
abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito,
non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma
il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che,
questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall'impiccio di proferire
una sentenza.
Che si
poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e
sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate.
Ma don
Rodrigo, per voler troncare quella questione, ne venne a suscitare un'altra. -
A proposito, - disse, - ho sentito che a Milano correvan voci d'accomodamento.
Il
lettore sa che in quell'anno si combatteva per la successione al ducato di
Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva lasciata
prole legittima, era entrato in possesso il duca di Nevers, suo parente più
prossimo. Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu, sosteneva quel principe,
suo ben affetto, e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte
d'Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse
ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo
dell'impero, così le due parti s'adoperavano, con pratiche, con istanze, con
minacce, presso l'imperator Ferdinando II, la prima perché accordasse
l'investitura al nuovo duca; la seconda perché gliela negasse, anzi aiutasse a
cacciarlo da quello stato.
- Non
son lontano dal credere, - disse il conte Attilio, - che le cose si possano
accomodare. Ho certi indizi...
- Non
creda, signor conte, non creda, - interruppe il podestà. - Io, in questo
cantuccio, posso saperle le cose; perché il signor castellano spagnolo, che,
per sua bontà, mi vuole un po' di bene, e per esser figliuolo d'un creato del
conte duca, è informato d'ogni cosa...
- Le
dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben altri personaggi;
e so di buon luogo che il papa, interessatissimo, com'è, per la pace, ha fatto
proposizioni...
- Così
dev'essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve
sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua
politica, e...
- E, e,
e; sa lei, signor mio, come la pensi l'imperatore, in questo momento? Crede lei
che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? le cose a cui si deve pensare
son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l'imperatore possa
ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai, o come lo
chiamano, e se...
- Il
nome legittimo in lingua alemanna, - interruppe ancora il podestà, - è
Vagliensteino, come l'ho sentito proferir più volte dal nostro signor
castellano spagnolo. Ma stia pur di buon animo, che...
- Mi
vuole insegnare...? - riprendeva il conte; ma don Rodrigo gli dié d'occhio, per
fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte tacque, e
il podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca, continuò, a vele
gonfie, il corso della sua eloquenza. - Vagliensteino mi dà poco fastidio;
perché il conte duca ha l'occhio a tutto, e per tutto; e se Vagliensteino vorrà
fare il bell'umore, saprà ben lui farlo rigar diritto, con le buone, o con le
cattive. Ha l'occhio per tutto, dico, e le mani lunghe; e, se ha fisso il
chiodo, come l'ha fisso, e giustamente, da quel gran politico che è, che il
signor duca di Nivers non metta le radici in Mantova, il signor duca di Nivers
non ce le metterà; e il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell'acqua. Mi
fa pur ridere quel caro signor cardinale, a voler cozzare con un conte duca,
con un Olivares. Dico il vero, che vorrei rinascere di qui a dugent'anni, per
sentir cosa diranno i posteri, di questa bella pretensione. Ci vuol altro che
invidia; testa vuol esser: e teste come la testa d'un conte duca, ce n'è una
sola al mondo. Il conte duca, signori miei, - proseguiva il podestà, sempre col
vento in poppa, e un po' maravigliato anche lui di non incontrar mai uno
scoglio: - il conte duca è una volpe vecchia, parlando col dovuto rispetto, che
farebbe perder la traccia a chi si sia: e, quando accenna a destra, si può
esser sicuri che batterà a sinistra: ond'è che nessuno può mai vantarsi di
conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che devon metterli in esecuzione,
quegli stessi che scrivono i dispacci, non ne capiscon niente. Io posso parlare
con qualche cognizion di causa; perché quel brav'uomo del signor castellano si
degna di trattenersi meco, con qualche confidenza. Il conte duca, viceversa, sa
appuntino cosa bolle in pentola di tutte l'altre corti; e tutti que' politiconi
(che ce n'è di diritti assai, non si può negare) hanno appena immaginato un
disegno, che il conte duca te l'ha già indovinato, con quella sua testa, con
quelle sue strade coperte, con que' suoi fili tesi per tutto. Quel pover'uomo
del cardinale di Riciliù tenta di qua, fiuta di là, suda, s'ingegna: e poi?
quando gli è riuscito di scavare una mina, trova la contrammina già bell'e
fatta dal conte duca...
Sa il
cielo quando il podestà avrebbe preso terra; ma don Rodrigo, stimolato anche
da' versacci che faceva il cugino, si voltò all'improvviso, come se gli venisse
un'ispirazione, a un servitore, e gli accennò che portasse un certo fiasco.
-
Signor podestà, e signori miei! - disse poi: - un brindisi al conte duca; e mi
sapranno dire se il vino sia degno del personaggio -. Il podestà rispose con un
inchino, nel quale traspariva un sentimento di riconoscenza particolare; perché
tutto ciò che si faceva o si diceva in onore del conte duca, lo riteneva in
parte come fatto a sé.
- Viva
mill'anni don Gasparo Guzman, conte d'Olivares, duca di san Lucar, gran privato
del re don Filippo il grande, nostro signore! - esclamò, alzando il bicchiere.
Privato,
chi non lo sapesse, era il termine in uso, a que' tempi, per significare il
favorito d'un principe.
- Viva
mill'anni! - risposer tutti.
-
Servite il padre, - disse don Rodrigo.
- Mi
perdoni; - rispose il padre: - ma ho già fatto un disordine, e non potrei...
- Come!
- disse don Rodrigo: - si tratta d'un brindisi al conte duca. Vuol dunque far
credere ch'ella tenga dai navarrini?
Così si
chiamavano allora, per ischerno, i Francesi, dai principi di Navarra, che
avevan cominciato, con Enrico IV, a regnar sopra di loro.
A tale
scongiuro, convenne bere. Tutti i commensali proruppero in esclamazioni, e in
elogi del vino; fuor che il dottore, il quale, col capo alzato, con gli occhi
fissi, con le labbra strette, esprimeva molto più che non avrebbe potuto far
con parole.
- Che
ne dite eh, dottore? - domandò don Rodrigo. Tirato fuor del bicchiere un naso
più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi
ogni sillaba: - dico, proferisco, e sentenzio che questo è l'Olivares de' vini:
censui, et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in
tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e
definisco che i pranzi dell'illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene
d'Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo
palazzo, dove siede e regna la splendidezza.
- Ben
detto! ben definito! - gridarono, a una voce, i commensali: ma quella parola,
carestia, che il dottore aveva buttata fuori a caso, rivolse in un punto tutte
le menti a quel tristo soggetto; e tutti parlarono della carestia. Qui andavan
tutti d'accordo, almeno nel principale; ma il fracasso era forse più grande che
se ci fosse stato disparere. Parlavan tutti insieme. - Non c'è carestia, -
diceva uno: - sono gl'incettatori...
- E i
fornai, - diceva un altro: - che nascondono il grano. Impiccarli.
-
Appunto; impiccarli, senza misericordia.
- De'
buoni processi, - gridava il podestà.
- Che
processi? - gridava più forte il conte Attilio: - giustizia sommaria. Pigliarne
tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti
come i più ricchi e i più cani, e impiccarli.
-
Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla.
-
Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti. Chi, passando
per una fiera, s'è trovato a goder l'armonia che fa una compagnia di
cantambanchi, quando, tra una sonata e l'altra, ognuno accorda il suo
stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente,
in mezzo al rumore degli altri, s'immagini che tale fosse la consonanza di
quei, se si può dire, discorsi. S'andava intanto mescendo e rimescendo di quel
tal vino; e le lodi di esso venivano, com'era giusto, frammischiate alle
sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s'udivan più sonore
e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.
Don
Rodrigo intanto dava dell'occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre
lì fermo, senza dar segno d'impazienza né di fretta, senza far atto che
tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene,
prima d'essere stato ascoltato. L'avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto
di meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato
udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poiché la seccatura non
si poteva scansare, si risolvette d'affrontarla subito, e di liberarsene;
s'alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il
chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s'avvicinò, in atto contegnoso, al
frate, che s'era subito alzato con gli altri; gli disse: - eccomi a' suoi
comandi -; e lo condusse in un'altra sala.
- In
che posso ubbidirla? - disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della
sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva
dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati.
Per dar
coraggio al nostro fra Cristoforo, non c'era mezzo più sicuro e più spedito,
che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le
parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a
cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a
quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del
bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò
ch'era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran
presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: - vengo a proporle un
atto di giustizia, a pregarla d'una carità. Cert'uomini di mal affare hanno
messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero
curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti.
Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza,
e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e
potendolo... la coscienza, l'onore...
- Lei
mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al
mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque
ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario
che l'offende.
Fra
Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al
peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire
alle strette, s'impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù
qualunque cosa piacesse all'altro di dire, e rispose subito, con un tono
sommesso: - se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la
mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene;
ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto
dobbiam tutti comparire... - e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e
metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di
legno attaccato alla sua corona, - non s'ostini a negare una giustizia così
facile, e così dovuta a de' poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra
di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L'innocenza è
potente al suo...
- Eh,
padre! - interruppe bruscamente don Rodrigo: - il rispetto ch'io porto al suo
abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il
vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.
Questa
parola fece venir le fiamme sul viso del frate: il quale però, col sembiante di
chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: - lei non crede che un tal
titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo ch'io fo ora qui,
non è né vile né spregevole. M'ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo
che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia
metter la sua gloria... qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi
agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù; ma...
- Sa
lei, - disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza qualche
raccapriccio, - sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire una
predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia!
Oh! - e continuò, con un sorriso forzato di scherno: - lei mi tratta da più di
quel che sono. Il predicatore in casa! Non l'hanno che i principi.
- E
quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle
loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo
ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una
innocente...
- In
somma, padre, - disse don Rodrigo, facendo atto d'andarsene, - io non so quel
che lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev'essere qualche
fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e
non si prenda la libertà d'infastidir più a lungo un gentiluomo.
Al
moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s'era messo davanti, ma con gran
rispetto; e, alzate le mani, come per supplicare e per trattenerlo ad un punto,
rispose ancora: - la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che,
l'una e l'altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far
altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non
voglia tener nell'angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di
lei può far tutto.
-
Ebbene, - disse don Rodrigo, - giacché lei crede ch'io possa far molto per
questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore...
-
Ebbene? - riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l'atto e il
contegno di don Rodrigo non permettevano d'abbandonarsi alla speranza che
parevano annunziare quelle parole.
-
Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le
mancherà più nulla, e nessuno ardirà d'inquietarla, o ch'io non son cavaliere.
A
siffatta proposta, l'indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora,
traboccò. Tutti que' bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in
fumo: l'uomo vecchio si trovò d'accordo col nuovo; e, in que' casi, fra
Cristoforo valeva veramente per due.
- La
vostra protezione! - esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente
sul piede destro, mettendo la destra sull'anca, alzando la sinistra con
l'indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati:
- la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a
me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.
- Come
parli, frate?...
- Parlo
come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra
protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma
voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di
riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la
fronte alta, e con gli occhi immobili.
- Come!
in questa casa...!
- Ho
compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere
che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro
sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per
darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe
difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore
di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è
sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel
ch'io vi prometto. Verrà un giorno...
Don
Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non
trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s'aggiunse alla
rabbia un lontano e misterioso spavento.
Afferrò
rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar
quella dell'infausto profeta, gridò: - escimi di tra' piedi, villano temerario,
poltrone incappucciato.
Queste
parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All'idea di
strapazzo e di villanià, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo,
associata l'idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli
cadde ogni spirito d'ira e d'entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che
quella d'udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d'aggiungere.
Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il
capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un
albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il
ciel la manda.
-
Villano rincivilito! - proseguì don Rodrigo: - tu tratti da par tuo. Ma
ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle
carezze che si fanno a' tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue
gambe, per questa volta; e la vedremo. Così dicendo, additò, con impero
sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre
Cristoforo chinò il capo, e se n'andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a
passi infuriati, il campo di battaglia.
Quando
il frate ebbe serrato l'uscio dietro a sé, vide nell'altra stanza dove entrava,
un uomo ritirarsi pian piano, strisciando il muro, come per non esser veduto
dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore ch'era venuto a
riceverlo alla porta di strada. Era costui in quella casa, forse da
quarant'anni, cioè prima che nascesse don Rodrigo; entratovi al servizio del
padre, il quale era stato tutt'un'altra cosa. Morto lui, il nuovo padrone,
dando lo sfratto a tutta la famiglia, e facendo brigata nuova, aveva però
ritenuto quel servitore, e per esser già vecchio, e perché, sebben di massime e
di costume diverso interamente dal suo, compensava però questo difetto con due
qualità: un'alta opinione della dignità della casa, e una gran pratica del
cerimoniale, di cui conosceva, meglio d'ogni altro, le più antiche tradizioni,
e i più minuti particolari. In faccia al signore, il povero vecchio non si
sarebbe mai arrischiato d'accennare, non che d'esprimere la sua disapprovazione
di ciò che vedeva tutto il giorno: appena ne faceva qualche esclamazione,
qualche rimprovero tra i denti a' suoi colleghi di servizio; i quali se ne
ridevano, e prendevano anzi piacere qualche volta a toccargli quel tasto, per
fargli dir di più che non avrebbe voluto, e per sentirlo ricantar le lodi
dell'antico modo di vivere in quella casa. Le sue censure non arrivavano agli
orecchi del padrone che accompagnate dal racconto delle risa che se n'eran
fatte; dimodoché riuscivano anche per lui un soggetto di scherno, senza
risentimento. Ne' giorni poi d'invito e di ricevimento, il vecchio diventava un
personaggio serio e d'importanza.
Il padre
Cristoforo lo guardò, passando, lo salutò, e seguitava la sua strada; ma il
vecchio se gli accostò misteriosamente, mise il dito alla bocca, e poi, col
dito stesso, gli fece un cenno, per invitarlo a entrar con lui in un andito
buio. Quando furon lì, gli disse sotto voce: - padre, ho sentito tutto, e ho
bisogno di parlarle.
- Dite
presto, buon uomo.
- Qui
no: guai se il padrone s'avvede... Ma io so molte cose; e vedrò di venir domani
al convento.
- C'è
qualche disegno?
-
Qualcosa per aria c'è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma ora starò
sull'intesa, e spero di scoprir tutto. Lasci fare a me. Mi tocca a vedere e a
sentir cose...! cose di fuoco! Sono in una casa...! Ma io vorrei salvar l'anima
mia.
- Il
Signore vi benedica! - e, proferendo sottovoce queste parole, il frate mise la
mano sul capo bianco del servitore, che, quantunque più vecchio di lui, gli
stava curvo dinanzi, nell'attitudine d'un figliuolo. - Il Signore vi
ricompenserà, - proseguì il frate: - non mancate di venir domani.
- Verrò,
- rispose il servitore: - ma lei vada via subito e... per amor del cielo... non
mi nomini -. Così dicendo, e guardando intorno, uscì, per l'altra parte
dell'andito, in un salotto, che rispondeva nel cortile; e, visto il campo
libero, chiamò fuori il buon frate, il volto del quale rispose a quell'ultima
parola più chiaro che non avrebbe potuto fare qualunque protesta. Il servitore
gli additò l'uscita; e il frate, senza dir altro, partì.
Quell'uomo
era stato a sentire all'uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra
Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men
contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come
un'eccezione? E ci sono dell'eccezioni alle regole più comuni e men
contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sé, se ne ha
voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d'aver dei fatti da
raccontare.
Uscito
fuori, e voltate le spalle a quella casaccia, fra Cristoforo respirò più
liberamente, e s'avviò in fretta per la scesa, tutto infocato in volto,
commosso e sottosopra, come ognuno può immaginarsi, per quel che aveva sentito,
e per quel che aveva detto. Ma quella così inaspettata esibizione del vecchio
era stata un gran ristorativo per lui: gli pareva che il cielo gli avesse dato
un segno visibile della sua protezione. "Ecco un filo, - pensava, - un
filo che la provvidenza mi mette nelle mani. E in quella casa medesima! E senza
ch'io sognassi neppure di cercarlo!" Così ruminando, alzò gli occhi verso
l'occidente, vide il sole inclinato, che già già toccava la cima del monte, e
pensò che rimaneva ben poco del giorno. Allora, benché sentisse le ossa gravi e
fiaccate da' vari strapazzi di quella giornata, pure studiò di più il passo,
per poter riportare un avviso, qual si fosse, a' suoi protetti, e arrivar poi
al convento, prima di notte: che era una delle leggi più precise, e più
severamente mantenute del codice cappuccinesco.
Intanto,
nella casetta di Lucia, erano stati messi in campo e ventilati disegni, de'
quali ci conviene informare il lettore. Dopo la partenza del frate, i tre
rimasti erano stati qualche tempo in silenzio; Lucia preparando tristamente il
desinare; Renzo sul punto d'andarsene ogni momento, per levarsi dalla vista di
lei così accorata, e non sapendo staccarsi; Agnese tutta intenta, in apparenza,
all'aspo che faceva girare. Ma, in realtà, stava maturando un progetto; e,
quando le parve maturo, ruppe il silenzio in questi termini:
-
Sentite, figliuoli! Se volete aver cuore e destrezza, quanto bisogna, se vi
fidate di vostra madre, - a quel vostra Lucia si riscosse, - io m'impegno di
cavarvi di quest'impiccio, meglio forse, e più presto del padre Cristoforo,
quantunque sia quell'uomo che è -. Lucia rimase lì, e la guardò con un volto
ch'esprimeva più maraviglia che fiducia in una promessa tanto magnifica; e
Renzo disse subitamente: - cuore? destrezza? dite, dite pure quel che si può
fare.
- Non è
vero, - proseguì Agnese, - che, se foste maritati, si sarebbe già un pezzo
avanti? E che a tutto il resto si troverebbe più facilmente ripiego?
- C'è
dubbio? - disse Renzo: - maritati che fossimo... tutto il mondo è paese; e, a
due passi di qui, sul bergamasco, chi lavora seta è ricevuto a braccia aperte.
Sapete quante volte Bortolo mio cugino m'ha fatto sollecitare d'andar là a star
con lui, che farei fortuna, com'ha fatto lui: e se non gli ho mai dato retta,
gli è... che serve? perché il mio cuore era qui. Maritati, si va tutti insieme,
si mette su casa là, si vive in santa pace, fuor dell'unghie di questo ribaldo,
lontano dalla tentazione di fare uno sproposito. N'è vero, Lucia?
- Sì, -
disse Lucia: - ma come...?
- Come
ho detto io, - riprese la madre: - cuore e destrezza; e la cosa è facile.
-
Facile! - dissero insieme que' due, per cui la cosa era divenuta tanto
stranamente e dolorosamente difficile.
-
Facile, a saperla fare, - replicò Agnese. - Ascoltatemi bene, che vedrò di
farvela intendere. Io ho sentito dire da gente che sa, e anzi ne ho veduto io
un caso, che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è
necessario che voglia; basta che ci sia.
- Come
sta questa faccenda? - domandò Renzo.
-
Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d'accordo. Si
va dal curato: il punto sta di chiapparlo all'improvviso, che non abbia tempo
di scappare. L'uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice:
signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i
testimoni sentano; e il matrimonio è bell'e fatto, sacrosanto come se l'avesse
fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare,
fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie.
-
Possibile? - esclamò Lucia.
- Come!
- disse Agnese: - state a vedere che, in trent'anni che ho passati in questo
mondo, prima che nasceste voi altri, non avrò imparato nulla. La cosa è tale
quale ve la dico: per segno tale che una mia amica, che voleva prender uno
contro la volontà de' suoi parenti, facendo in quella maniera, ottenne il suo
intento. Il curato, che ne aveva sospetto, stava all'erta; ma i due diavoli
seppero far così bene, che lo colsero in un punto giusto, dissero le parole, e
furon marito e moglie: benché la poveretta se ne pentì poi, in capo a tre
giorni.
Agnese
diceva il vero, e riguardo alla possibilità, e riguardo al pericolo di non ci
riuscire: ché, siccome non ricorrevano a un tale espediente, se non persone che
avesser trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i parrochi
mettevan gran cura a scansare quella cooperazione forzata; e, quando un d'essi
venisse pure sorpreso da una di quelle coppie, accompagnata da testimoni,
faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che
volevano farlo vaticinare per forza.
- Se
fosse vero, Lucia! - disse Renzo, guardandola con un'aria d'aspettazione
supplichevole.
- Come!
se fosse vero! - disse Agnese. - Anche voi credete ch'io dica fandonie. Io
m'affanno per voi, e non sono creduta: bene bene; cavatevi d'impiccio come
potete: io me ne lavo le mani.
- Ah
no! non ci abbandonate, - disse Renzo. - Parlo così, perché la cosa mi par
troppo bella. Sono nelle vostre mani; vi considero come se foste proprio mia
madre.
Queste
parole fecero svanire il piccolo sdegno d'Agnese, e dimenticare un proponimento
che, per verità, non era stato serio.
- Ma
perché dunque, mamma, - disse Lucia, con quel suo contegno sommesso, - perché
questa cosa non è venuta in mente al padre Cristoforo?
- In
mente? - rispose Agnese: - pensa se non gli sarà venuta in mente! Ma non ne
avrà voluto parlare.
-
Perché? - domandarono a un tratto i due giovani.
-
Perché... perché, quando lo volete sapere, i religiosi dicono che veramente è
cosa che non istà bene.
- Come
può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand'è fatta? - disse
Renzo.
- Che
volete ch'io vi dica? - rispose Agnese. - La legge l'hanno fatta loro, come gli
è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose...
Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma, dato
che gliel abbiate, né anche il papa non glielo può levare.
- Se è
cosa che non istà bene, - disse Lucia, - non bisogna farla.
- Che!
- disse Agnese, - ti vorrei forse dare un parere contro il timor di Dio? Se
fosse contro la volontà de' tuoi parenti, per prendere un rompicollo... ma,
contenta me, e per prender questo figliuolo; e chi fa nascer tutte le
difficoltà è un birbone; e il signor curato...
- L'è
chiara, che l'intenderebbe ognuno, - disse Renzo.
- Non
bisogna parlarne al padre Cristoforo, prima di far la cosa, - proseguì Agnese:
- ma, fatta che sia, e ben riuscita, che pensi tu che ti dirà il padre?
"Ah figliuola! è una scappata grossa; me l'avete fatta". I religiosi
devon parlar così. Ma credi pure che, in cuor suo, sarà contento anche lui.
Lucia,
senza trovar che rispondere a quel ragionamento, non ne sembrava però
capacitata: ma Renzo, tutto rincorato, disse: - quand'è così, la cosa è fatta.
-
Piano, - disse Agnese. - E i testimoni? Trovar due che vogliano, e che intanto
sappiano stare zitti! E poter cogliere il signor curato che, da due giorni, se
ne sta rintanato in casa? E farlo star lì? ché, benché sia pesante di sua
natura, vi so dir io che, al vedervi comparire in quella conformità, diventerà
lesto come un gatto, e scapperà come il diavolo dall'acqua santa.
- L'ho
trovato io il verso, l'ho trovato, - disse Renzo, battendo il pugno sulla
tavola, e facendo balzellare le stoviglie apparecchiate per il desinare. E
seguitò esponendo il suo pensiero, che Agnese approvò in tutto e per tutto.
- Son
imbrogli, - disse Lucia: - non son cose lisce. Finora abbiamo operato
sinceramente: tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà: il padre Cristoforo
l'ha detto. Sentiamo il suo parere.
-
Lasciati guidare da chi ne sa più di te, - disse Agnese, con volto grave. - Che
bisogno c'è di chieder pareri? Dio dice: aiutati, ch'io t'aiuto. Al padre racconteremo
tutto, a cose fatte.
-
Lucia, - disse Renzo, - volete voi mancarmi ora? Non avevamo noi fatto tutte le
cose da buon cristiani? Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non
ci aveva fissato lui il giorno e l'ora? E di chi è la colpa, se dobbiamo ora
aiutarci con un po' d'ingegno? No, non mi mancherete. Vado e torno con la
risposta -. E, salutando Lucia, con un atto di preghiera, e Agnese, con un'aria
d'intelligenza, partì in fretta.
Le
tribolazioni aguzzano il cervello: e Renzo il quale, nel sentiero retto e piano
di vita percorso da lui fin allora, non s'era mai trovato nell'occasione
d'assottigliar molto il suo, ne aveva, in questo caso, immaginata una, da far
onore a un giureconsulto. Andò addirittura, secondo che aveva disegnato, alla
casetta d'un certo Tonio, ch'era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che,
con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l'orlo
d'un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una
piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di
Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo,
stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di
scodellare. Ma non c'era quell'allegria che la vista del desinare suol pur dare
a chi se l'è meritato con la fatica. La mole della polenta era in ragion
dell'annata, e non del numero e della buona voglia de' commensali: e ognun
d'essi, fissando, con uno sguardo bieco d'amor rabbioso, la vivanda comune, pareva
pensare alla porzione d'appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo
barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di
faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un
gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo : -
volete restar servito? -, complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa
di quant'altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare,
quand'anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui
fosse all'ultimo boccone.
- Vi
ringrazio, - rispose Renzo: - venivo solamente per dire una parolina a Tonio;
e, se vuoi, Tonio, per non disturbar le tue donne, possiamo andar a desinare
all'osteria, e lì parleremo -. La proposta fu per Tonio tanto più gradita,
quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacché, su questa materia,
principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla
polenta un concorrente, e il più formidabile. L'invitato non istette a domandar
altro, e andò con Renzo.
Giunti
all'osteria del villaggio; seduti, con tutta libertà, in una perfetta
solitudine, giacché la miseria aveva divezzati tutti i frequentatori di quel
luogo di delizie; fatto portare quel poco che si trovava; votato un boccale di
vino; Renzo, con aria di mistero, disse a Tonio: - se tu vuoi farmi un piccolo
servizio, io te ne voglio fare uno grande.
-
Parla, parla; comandami pure, - rispose Tonio, mescendo.
- Oggi
mi butterei nel fuoco per te.
- Tu
hai un debito di venticinque lire col signor curato, per fitto del suo campo,
che lavoravi, l'anno passato.
- Ah,
Renzo, Renzo! tu mi guasti il benefizio. Con che cosa mi vieni fuori? M'hai
fatto andar via il buon umore.
- Se ti
parlo del debito, - disse Renzo, - è perché, se tu vuoi, io intendo di darti il
mezzo di pagarlo.
- Dici
davvero?
-
Davvero. Eh? saresti contento?
-
Contento? Per diana. se sarei contento! Se non foss'altro, per non veder più
que' versacci, e que' cenni col capo, che mi fa il signor curato, ogni volta
che c'incontriamo. E poi sempre: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo,
per quel negozio? A tal segno che quando, nel predicare, mi fissa quegli occhi
addosso, io sto quasi in timore che abbia a dirmi, lì in pubblico: quelle
venticinque lire! Che maledette siano le venticinque lire! E poi, m'avrebbe a
restituir la collana d'oro di mia moglie, che la baratterei in tanta polenta.
Ma...
- Ma,
ma, se tu mi vuoi fare un servizietto, le venticinque lire son preparate.
- Di'
su.
-
Ma...! - disse Renzo, mettendo il dito alla bocca.
- Fa
bisogno di queste cose? tu mi conosci.
- Il
signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il
mio matrimonio; e io in vece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che,
presentandosegli davanti i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è
mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell'e fatto. M'hai
tu inteso?
- Tu
vuoi ch'io venga per testimonio?
- Per
l'appunto.
- E
pagherai per me le venticinque lire?
- Così
l'intendo.
- Birba
chi manca.
- Ma
bisogna trovare un altro testimonio.
- L'ho
trovato. Quel sempliciotto di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io.
Tu gli pagherai da bere?
- E da
mangiare, - rispose Renzo. - Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà
fare?
-
Gl'insegnerò io: tu sai bene ch'io ho avuta anche la sua parte di cervello.
-
Domani...
Bene.
- Verso
sera...
-
Benone.
-
Ma...! - disse Renzo, mettendo di nuovo il dito alla bocca.
-
Poh...! - rispose Tonio, piegando il capo sulla spalla destra, e alzando la
mano sinistra, con un viso che diceva: mi fai torto.
- Ma,
se tua moglie ti domanda, come ti domanderà, senza dubbio...
- Di
bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò
mai a saldare il conto. Qualche pastocchia la troverò, da metterle il cuore in
pace.
-
Domattina, - disse Renzo, - discorreremo con più comodo, per intenderci bene su
tutto.
Con
questo, uscirono dall'osteria, Tonio avviandosi a casa, e studiando la fandonia
che racconterebbe alle donne, e Renzo, a render conto de' concerti presi.
In
questo tempo Agnese, s'era affaticata invano a persuader la figliuola. Questa
andava opponendo a ogni ragione, ora l'una, ora l'altra parte del suo dilemma:
o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perché non dirla al padre
Cristoforo?
Renzo
arrivò tutto trionfante, fece il suo rapporto, e terminò con un ahn?
interiezione che significa: sono o non sono un uomo io? si poteva trovar di
meglio? vi sarebbe venuta in mente? e cento cose simili.
Lucia
tentennava mollemente il capo; ma i due infervorati le badavan poco, come si
suol fare con un fanciullo, al quale non si spera di far intendere tutta la
ragione d'una cosa, e che s'indurrà poi, con le preghiere e con l'autorità, a
ciò che si vuol da lui.
- Va
bene, - disse Agnese: - va bene; ma... non avete pensato a tutto.
- Cosa
ci manca? - rispose Renzo.
- E
Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Tonio e suo fratello, li lascerà
entrare; ma voi! voi due! pensate! avrà ordine di tenervi lontani, più che un
ragazzo da un pero che ha le frutte mature.
- Come
faremo? - disse Renzo, un po' imbrogliato.
- Ecco:
ci ho pensato io. Verrò io con voi; e ho un segreto per attirarla, e per
incantarla di maniera che non s'accorga di voi altri, e possiate entrare. La
chiamerò io, e le toccherò una corda... vedrete.
-
Benedetta voi! - esclamò Renzo: - l'ho sempre detto che siete nostro aiuto in
tutto.
- Ma
tutto questo non serve a nulla, - disse Agnese, - se non si persuade costei,
che si ostina a dire che è peccato.
Renzo
mise in campo anche lui la sua eloquenza; ma Lucia non sl lasciava smovere.
- Io
non so che rispondere a queste vostre ragioni, - diceva: - ma vedo che, per far
questa cosa, come dite voi, bisogna andar avanti a furia di sotterfugi, di
bugie, di finzioni. Ah Renzo! non abbiam cominciato così. Io voglio esser
vostra moglie, - e non c'era verso che potesse proferir quella parola, e
spiegar quell'intenzione, senza fare il viso rosso: - io voglio esser vostra
moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio, all'altare. Lasciamo fare a
Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo d'aiutarci, meglio
che non possiamo far noi, con tutte codeste furberie? E perché far misteri al
padre Cristoforo?
La
disputa durava tuttavia, e non pareva vicina a finire, quando un calpestìo
affrettato di sandali, e un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che
fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento, annunziarono il padre
Cristoforo. Si chetaron tutti; e Agnese ebbe appena tempo di susurrare all'orecchio
di Lucia: - bada bene, ve', di non dirgli nulla.
Il
padre Cristoforo arrivava nell'attitudine d'un buon capitano che, perduta,
senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra
pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo
chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi
ordini.
- La
pace sia con voi, - disse, nell'entrare. - Non c'è nulla da sperare dall'uomo:
tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua
protezione.
Sebbene
nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacché il
vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per
mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piùttosto inaudita che
rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne
abbassarono il capo; ma nell'animo di Renzo, l'ira prevalse all'abbattimento.
Quell'annunzio lo trovava già amareggiato da tante sorprese dolorose, da tanti
tentativi andati a vòto, da tante speranze deluse, e, per di più, esacerbato,
in quel momento, dalle ripulse di Lucia.
-
Vorrei sapere, - gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non
aveva mai fatto prima d'allora, alla presenza del padre Cristoforo; - vorrei
sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere... per sostenere che la
mia sposa non dev'essere la mia sposa.
-
Povero Renzo! - rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno
sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza : - se il potente che vuol
commettere l'ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose
non anderebbero come vanno.
- Ha
detto dunque quel cane, che non vuole, perché non vuole?
Non ha
detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per
commetter l'iniquità, dovessero confessarla apertamente.
- Ma
qualcosa ha dovuto dire: cos'ha detto quel tizzone d'inferno?
- Le
sue parole, io l'ho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole dell'iniquo
che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui,
e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può
insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e
lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chieder più in là. Colui non
ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo; non ha figurato nemmen di
conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma... ma pur troppo ho dovuto
intendere ch'è irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non
vi perdete d'animo; e tu, Renzo... oh! credi pure, ch'io so mettermi ne' tuoi
panni, ch'io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! È una magra
parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu...! non vorrai tu concedere
a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la
giustizia? Il tempo è suo; e ce n'ha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo;
e sappi... sappiate tutti ch'io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora,
non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; devo stare al convento
tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso
impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio,
per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerà. Si fa buio;
bisogna ch'io corra al convento. Fede, coraggio; e addio.
Detto
questo, uscì in fretta, e se n'andò, correndo, e quasi saltelloni, giù per
quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio
di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una
penitenza, che gl'impedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò
che potesse richiedere il bisogno de' suoi protetti.
- Avete
sentito cos'ha detto d'un non so che... d'un filo che ha, per aiutarci? - disse
Lucia. - Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci...
- Se
non c'è altro...! - interruppe Agnese. - Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o
chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo...
-
Chiacchiere! la finirò io: io la finirò! - interruppe Renzo, questa volta,
andando in su e in giù per la stanza, e con una voce, con un viso, da non
lasciar dubbio sul senso di quelle parole.
- Oh
Renzo! - esclamò Lucia.
- Cosa
volete dire? - esclamò Agnese.
- Che
bisogno c'è di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli nell'anima,
finalmente è di carne e ossa anche lui...
- No,
no, per amor del cielo...! - cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce.
- Non
son discorsi da farsi, neppur per burla, - disse Agnese.
- Per
burla? - gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e
piantandole in faccia due occhi stralunati. - Per burla! vedrete se sarà burla.
- Oh
Renzo! - disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi: - non v'ho mai visto così.
- Non
dite queste cose, per amor del cielo, - riprese ancora in fretta Agnese,
abbassando la voce. - Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui?
E quand'anche... Dio liberi!... contro i poveri c'è sempre giustizia.
- La
farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch'io.
Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e
pazienza... e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io,
il paese: quanta gente mi benedirà...! e poi in tre salti...!
L'orrore
che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede
forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con
voce accorata, ma risoluta: - non v'importa più dunque d'avermi per moglie. Io
m'era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse...
Fosse al sicuro d'ogni giustizia e d'ogni vendetta, foss'anche il figlio del
re...
E bene!
- gridò Renzo, con un viso più che mai stravolto: - io non v'avrò; ma non
v'avrà né anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del...
- Ah
no! per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi
così, - esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte; mentre
Agnese chiamava e richiamava il giovine per nome, e gli palpava le spalle, le
braccia, le mani, per acquietarlo. Stette egli immobile e pensieroso, qualche
tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt'a un
tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l'indice verso di
essa, e gridò: - questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!
- E io
che male v'ho fatto, perché mi facciate morire? - disse Lucia, buttandosegli
inginocchioni davanti.
- Voi!
- rispose, con una voce ch'esprimeva un'ira ben diversa, ma un'ira tuttavia: -
voi! Che bene mi volete voi? Che prova m'avete data? Non v'ho io pregata, e
pregata, e pregata? E voi: no! no!
- Sì
sì, - rispose precipitosamente Lucia: - verrò dal curato, domani, ora, se
volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò.
- Me lo
promettete? - disse Renzo, con una voce e con un viso divenuto, tutt'a un
tratto, più umano.
- Ve lo
prometto.
- Me
l'avete promesso.
-
Signore, vi ringrazio! - esclamò Agnese, doppiamente contenta.
In
mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva
esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po' d'artifizio a
farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper
nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta ch'era
realmente infuriato contro don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso
di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor d'un uomo,
nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce
dall'altra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini.
- Ve
l'ho promesso, - rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso:
- ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al
padre...
- Oh
via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora? e farmi fare
uno sproposito?
- No
no, - disse Lucia, cominciando a rispaventarsi. - Ho promesso, e non mi ritiro.
Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non voglia...
-
Perché volete far de' cattivi augùri, Lucia? Dio sa che non facciam male a
nessuno.
-
Promettetemi almeno che questa sarà l'ultima.
- Ve lo
prometto, da povero figliuolo.
- Ma,
questa volta, mantenete poi, - disse Agnese.
Qui
l'autore confessa di non sapere un'altra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per
tutto, malcontenta d'essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come
lui, la cosa in dubbio.
Renzo
avrebbe voluto prolungare il discorso, e fissare, a parte a parte, quello che
si doveva fare il giorno dopo; ma era già notte, e le donne gliel'augurarono
buona; non parendo loro cosa conveniente che, a quell'ora, si trattenesse più a
lungo.
La
notte però fu a tutt'e tre così buona come può essere quella che succede a un
giorno pieno d'agitazione e di guai, e che ne precede uno destinato a
un'impresa importante, e d'esito incerto. Renzo si lasciò veder di buon'ora, e
concertò con le donne, o piuttosto con Agnese, la grand'operazione della sera,
proponendo e sciogliendo a vicenda difficoltà, antivedendo contrattempi, e
ricominciando, ora l'uno ora l'altra, a descriver la faccenda, come si
racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e, senza approvar con parole ciò
che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di far meglio che saprebbe.
-
Anderete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come v'ha detto
ier sera? - domandò Agnese a Renzo.
- Le zucche!
- rispose questo: - sapete che diavoli d'occhi ha il padre: mi leggerebbe in
viso, come sur un libro, che c'è qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi
dell'interrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi, io devo star qui, per
accudire all'affare. Sarà meglio che mandiate voi qualcheduno.
-
Manderò Menico.
- Va
bene, - rispose Renzo; e partì, per accudire all'affare, come aveva detto.
Agnese
andò a una casa vicina, a cercar Menico, ch'era un ragazzetto di circa dodici
anni, sveglio la sua parte, e che, per via di cugini e di cognati, veniva a
essere un po' suo nipote. Lo chiese ai parenti, come in prestito, per tutto
quel giorno, - per un certo servizio, - diceva. Avutolo, lo condusse nella sua
cucina, gli diede da colazione, e gli disse che andasse a Pescarenico, e si
facesse vedere al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi, con una
risposta, quando sarebbe tempo. - Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu
sai, con la barba bianca, quello che chiamano il santo...
- Ho
capito, - disse Menico: - quello che ci accarezza sempre, noi altri ragazzi, e
ci dà, ogni tanto, qualche santino.
-
Appunto, Menico. E se ti dirà che tu aspetti qualche poco, lì vicino al
convento, non ti sviare: bada di non andar, con de' compagni, al lago, a veder
pescare, né a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, né a far
quell'altro tuo giochetto solito...
Bisogna
saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti,
grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non
dico quelle sole.
- Poh!
zia; non son poi un ragazzo.
- Bene,
abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta... guarda; queste due belle
parpagliole nuove son per te.
-
Datemele ora, ch'è lo stesso.
- No,
no, tu le giocheresti. Va, e portati bene; che n'avrai anche di più.
Nel
rimanente di quella lunga mattinata, si videro certe novità che misero non poco
in sospetto l'animo già conturbato delle donne. Un mendico, né rifinito né
cencioso come i suoi pari, e con un non so che d'oscuro e di sinistro nel
sembiante, entrò a chieder la carità, dando in qua e in là cert'occhiate da
spione. Gli fu dato un pezzo di pane, che ricevette e ripose, con
un'indifferenza mal dissimulata. Si trattenne poi, con una certa
sfacciataggine, e, nello stesso tempo, con esitazione, facendo molte domande,
alle quali Agnese s'affrettò di risponder sempre il contrario di quello che
era. Movendosi, come per andar via, finse di sbagliar l'uscio, entrò in quello
che metteva alla scala, e lì diede un'altra occhiata in fretta, come poté.
Gridatogli dietro: - ehi ehi! dove andate galantuomo? di qua! di qua! - tornò
indietro, e uscì dalla parte che gli veniva indicata, scusandosi, con una
sommissione, con un'umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti
duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere, di tempo in
tempo, altre strane figure. Che razza d'uomini fossero, non si sarebbe potuto
dir facilmente; ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti
viandanti che volevan parere. Uno entrava col pretesto di farsi insegnar la
strada; altri, passando davanti all'uscio, rallentavano il passo, e guardavan
sott'occhio nella stanza, a traverso il cortile, come chi vuol vedere senza dar
sospetto. Finalmente, verso il mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì.
Agnese s'alzava ogni tanto, attraversava il cortile, s'affacciava all'uscio di
strada, guardava a destra e a sinistra, e tornava dicendo: - nessuno - : parola
che proferiva con piacere, e che Lucia con piacere sentiva, senza che né l'una né
l'altra ne sapessero ben chiaramente il perché. Ma ne rimase a tutt'e due una
non so quale inquietudine, che levò loro, e alla figliuola principalmente, una
gran parte del coraggio che avevan messo in serbo per la sera.
Convien
però che il lettore sappia qualcosa di più preciso, intorno a que' ronzatori
misteriosi: e, per informarlo di tutto, dobbiam tornare un passo indietro, e
ritrovar don Rodrigo, che abbiam lasciato ieri, solo in una sala del suo
palazzotto, al partir del padre Cristoforo.
Don
Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella
sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie
generazioni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in
faccia un suo antenato guerriero, terrore de' nemici e de' suoi soldati, torvo
nella guardatura, co' capelli corti e ritti, co' baffi tirati e a punta, che
sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l'eroe, con le
gambiere, co' cosciali, con la corazza, co' bracciali, co' guanti, tutto di
ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don
Rodrigo lo guardava; e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia
un altro antenato, magistrato, terrore de' litiganti e degli avvocati, a sedere
sur una gran seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in un'ampia toga nera;
tutto nero, fuorché un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di
zibellino arrovesciata (era il distintivo de' senatori, e non lo portavan che
l'inverno, ragion per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito
d'estate); macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e
pareva che dicesse: vedremo. Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere;
di là un abate, terrore de' suoi monaci: tutta gente in somma che aveva fatto
terrore, e lo spirava ancora dalle tele. Alla presenza di tali memorie, don
Rodrigo tanto più s'arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un
frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan. Formava un
disegno di vendetta, l'abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla
passione, e a ciò che chiamava onore; e talvolta (vedete un poco!) sentendosi
fischiare ancora agli orecchi quell'esordio di profezia, si sentiva venir, come
si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due
soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servitore, e gli
ordinò che lo scusasse con la compagnia, dicendo ch'era trattenuto da un affare
urgente. Quando quello tornò a riferire che que' signori eran partiti,
lasciando i loro rispetti: - e il conte Attilio? - domandò, sempre camminando,
don Rodrigo.
- È
uscito con que' signori, illustrissimo.
- Bene:
sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la cappa, il
cappello: subito.
Il
servitore partì, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò, portando la
ricca spada, che il padrone si cinse; la cappa, che si buttò sulle spalle; il
cappello a gran penne, che mise e inchiodò, con una manata, fieramente sul
capo: segno di marina torbida. Si mosse, e, alla porta, trovò i sei ribaldi
tutti armati, i quali, fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. Più
burbero, più superbioso, più accigliato del solito, uscì, e andò passeggiando
verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan
rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non
rispondeva. Come inferiori, l'inchinavano anche quelli che da questi eran detti
signori; ché, in que' contorni, non ce n'era uno che potesse, a mille miglia,
competer con lui, di nome, di ricchezze, d'aderenze e della voglia di servirsi
di tutto ciò, per istare al di sopra degli altri. E a questi corrispondeva con
una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva che
s'incontrasse col signor castellano spagnolo, l'inchino allora era ugualmente
profondo dalle due parti; la cosa era come tra due potentati, i quali non
abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per convenienza, fanno onore al grado
l'uno dell'altro. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre
all'immagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto
diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa, dove andava, per il
solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e
rispettosa, ch'è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere;
e, a notte già fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche lui
tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la quale, don
Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco.
-
Cugino, quando pagate questa scommessa? - disse, con un fare di malizia e di
scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i servitori.
- San
Martino non è ancor passato.
-
Tant'è che la paghiate subito; perché passeranno tutti i santi del lunario,
prima che...
-
Questo è quel che si vedrà.
-
Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e son tanto certo
d'aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un'altra.
-
Sentiamo.
- Che
il padre... il padre... che so io? quel frate in somma v'ha convertito.
-
Eccone un'altra delle vostre.
-
Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che sarà un
bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria
per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son pesci che
si piglino tutti i giorni, né con tutte le reti. Siate certo che vi porterà per
esempio; e, quando anderà a far qualche missione un po' lontano, parlerà de'
fatti vostri. Mi par di sentirlo -. E qui, parlando col naso, accompagnando le
parole con gesti caricati, continuò, in tono di predica: - in una parte di
questo mondo, che, per degni rispetti, non nomino, viveva, uditori carissimi, e
vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, più amico delle femmine, che degli
uomini dabbene, il quale, avvezzo a far d'ogni erba un fascio, aveva messo gli
occhi...
-
Basta, basta, - interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. -
Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch'io.
-
Diavolo! che aveste voi convertito il padre!
- Non
mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino deciderà -. La
curiosità del conte era stuzzicata; non gli risparmiò interrogazioni, ma don
Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della decisione, e
non volendo comunicare alla parte avversa disegni che non erano né incamminati,
né assolutamente fissati.
La
mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L'apprensione che quel verrà
un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del tutto, co' sogni della
notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella
debolezza passeggiera. L'immagini più recenti della passeggiata trionfale,
degl'inchini, dell'accoglienze, e il canzonare del cugino, avevano contribuito
non poco a rendergli l'animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso.
"Cose grosse", disse tra sé il servitore a cui fu dato l'ordine;
perché l'uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de'
bravi, quello a cui s'imponevano le imprese più rischiose e più inique, il
fidatissimo del padrone, l'uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse.
Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorar la
protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della sua livrea, l'aveva messo
al coperto da ogni ricerca della giustizia. Cosi, impegnandosi a ogni delitto
che gli venisse comandato, colui si era assicurata l'impunità del primo. Per
don Rodrigo, l'acquisto non era stato di poca importanza; perché il Griso,
oltre all'essere, senza paragone, il più valente della famiglia, era anche una
prova di ciò che il suo padrone aveva potuto attentar felicemente contro le
leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e
nell'opinione.
-
Griso! - disse don Rodrigo: - in questa congiuntura, si vedrà quel che tu vali.
Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo.
- Non
si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell'illustrissimo
signor padrone.
-
Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par
meglio; purché la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le sia
fatto male.
-
Signore, un po' di spavento, perché la non faccia troppo strepito... non si
potrà far di meno.
-
Spavento... capisco... è inevitabile. Ma non le si torca un capello; e sopra
tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso?
-
Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria,
senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario.
- Sotto
la tua sicurtà. E... come farai?
- Ci
stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo al paese. Abbiam
bisogno d'un luogo per andarci a postare. e appunto c'è, poco distante di là,
quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa... vossignoria
non saprà niente di queste cose... una casa che bruciò, pochi anni sono, e non
hanno avuto danari da riattarla, e l'hanno abbandonata, e ora ci vanno le
streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani, che son pieni d'ubbie,
non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l'oro del
mondo: sicché possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a
guastare i fatti nostri.
- Va
bene; e poi?
Qui, il
Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finché d'accordo ebbero concertata
la maniera di condurre a fine l'impresa, senza che rimanesse traccia degli
autori, la maniera anche di rivolgere, con falsi indizi, i sospetti altrove,
d'impor silenzio alla povera Agnese, d'incutere a Renzo tale spavento, da
fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la
volontà di lagnarsi; e tutte l'altre bricconerie necessarie alla riuscita della
bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferir que' concerti, perché, come
il lettore vedrà, non son necessari all'intelligenza della storia; e siam
contenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir
parlamentare que' due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se
n'andava, per metter mano all'esecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse:
- senti: se per caso, quel tanghero temerario vi desse nell'unghie questa sera,
non sarà male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle.
Così, l'ordine che gli verrà intimato domani di stare zitto, farà più
sicuramente l'effetto. Ma non l'andate a cercare, per non guastare quello che
più importa: tu m'hai inteso.
- Lasci
fare a me, - rispose il Griso, inchinandosi, con un atto d'ossequio e di
millanteria; e se n'andò. La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il
paese. Quel falso pezzente che s'era inoltrato a quel modo nella povera
casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la
pianta: i falsi viandanti eran suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi
ordini, bastava una cognizione più superficiale del luogo. E, fatta la
scoperta, non s'eran più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto.
Tornati
che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e fissò definitivamente il
disegno dell'impresa; assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si poté
fare, senza che quel vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a
orecchi tesi, s'accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di
stare attento e di domandare; accattando una mezza notizia di qua, una mezza di
là, commentando tra sé una parola oscura, interpretando un andare misterioso,
tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si doveva eseguir quella notte. Ma
quando ci fu riuscito, essa era già poco lontana, e già una piccola vanguardia
di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio,
quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura
di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscì, con la scusa di
prendere un po' d'aria, e s'incamminò in fretta in fretta al convento, per dare
al padre Cristoforo l'avviso promesso. Poco dopo, si mossero gli altri bravi, e
discesero spicciolati, per non parere una compagnia: il Griso venne dopo; e non
rimase indietro che una bussola, la quale doveva esser portata al casolare, a
sera inoltrata; come fu fatto. Radunati che furono in quel luogo, il Griso
spedì tre di coloro all'osteria del paesetto; uno che si mettesse sull'uscio, a
osservar ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti
fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere, come
dilettanti; e attendessero intanto a spiare, se qualche cosa da spiare ci
fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell'agguato ad aspettare.
Il
povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al loro posto; il
sole cadeva; quando Renzo entrò dalle donne, e disse: - Tonio e Gervaso
m'aspettan fuori: vo con loro all'osteria, a mangiare un boccone; e, quando
sonerà l'ave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio, Lucia! tutto dipende da
un momento -. Lucia sospirò, e ripeté: - coraggio, - con una voce che smentiva
la parola.
Quando
Renzo e i due compagni giunsero all'osteria, vi trovaron quel tale già piantato
in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la
schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e
riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il
nero di due occhi grifagni. Un berretto piatto di velluto chermisi, messo
storto, gli copriva la metà del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte fosca,
girava, da una parte e dall'altra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce,
fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso
randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo a guardargli in
viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne sotto quante ce ne
poteva stare. Quando Renzo, ch'era innanzi agli altri, fu lì per entrare,
colui, senza scomodarsi, lo guardò fisso fisso; ma il giovine, intento a
schivare ogni questione, come suole ognuno che abbia un'impresa scabrosa alle
mani, non fece vista d'accorgersene, non disse neppure: fatevi in là; e,
rasentando l'altro stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per
l'apertura lasciata da quella cariatide. I due compagni dovettero far la stessa
evoluzione, se vollero entrare. Entrati, videro gli altri, de' quali avevan già
sentita la voce, cioè que' due bravacci, che seduti a un canto della tavola,
giocavano alla mora, gridando tutt'e due insieme (lì, è il giuoco che lo richiede),
e mescendosi or l'uno or l'altro da bere, con un gran fiasco ch'era tra loro.
Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia; e un de' due specialmente,
tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca
ancora aperta, per un gran "sei" che n'era scoppiato fuori in quel
momento, squadrò Renzo da capo a piedi; poi diede d'occhio al compagno, poi a
quel dell'uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e
incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare ne' loro
aspetti un'interpretazione di tutti que' segni: ma i loro aspetti non
indicavano altro che un buon appetito. L'oste guardava in viso a lui, come per
aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sé in una stanza vicina, e ordinò
la cena.
- Chi sono
que' forestieri? - gli domandò poi a voce bassa, quando quello tornò, con una
tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano.
- Non
li conosco, - rispose l'oste, spiegando la tovaglia.
- Come?
né anche uno?
-
Sapete bene, - rispose ancora colui, stirando, con tutt'e due le mani, la
tovaglia sulla tavola, - che la prima regola del nostro mestiere, è di non
domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose.
Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare:
quando le annate son ragionevoli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerà
il buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi,
o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le
simili non le avete mai mangiate.
- Come
potete sapere...? - ripigliava Renzo; ma l'oste, già avviato alla cucina,
seguitò la sua strada. E lì, mentre prendeva il tegame delle polpette
summentovate, gli s'accostò pian piano quel bravaccio che aveva squadrato il
nostro giovine, e gli disse sottovoce: - Chi sono que' galantuomini?
- Buona
gente qui del paese, - rispose l'oste, scodellando le polpette nel piatto.
- Va
bene; ma come si chiamano? chi sono? - insistette colui, con voce alquanto
sgarbata.
- Uno si
chiama Renzo, - rispose l'oste, pur sottovoce: - un buon giovine, assestato;
filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. L'altro è un contadino che ha
nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che n'abbia pochi; che gli
spenderebbe tutti qui. L'altro è un sempliciotto, che mangia però volentieri,
quando gliene danno. Con permesso.
E, con
uno sgambetto, uscì tra il fornello e l'interrogante; e ando a portare il
piatto a chi si doveva. - Come potete sapere, - riattaccò Renzo, quando lo vide
ricomparire, - che siano galantuomini, se non li conoscete?
- Le
azioni, caro mio: l'uomo si conosce all'azioni. Quelli che bevono il vino senza
criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su lite con gli
altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad
aspettar fuori, e lontano dall'osteria, tanto che il povero oste non ne vada di
mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come
ci conosciamo tra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper
tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt'altro in testa? e con
davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto? - Così dicendo, se
ne tornò in cucina.
Il
nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle
domande, dice ch'era un uomo così fatto, che, in tutti i suoi discorsi, faceva
professione d'esser molto amico de' galantuomini in generale; ma, in atto
pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o
sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh?
La cena
non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro
comodo; ma l'invitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, e
anche un po' inquieto del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva
l'ora d'andarsene. Si parlava sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche
e svogliate.
- Che
bella cosa, - scappò fuori di punto in bianco Gervaso, - che Renzo voglia
prender moglie, e abbia bisogno...! - Renzo gli fece un viso brusco. - Vuoi
stare zitto, bestia? - gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una
gomitata. La conversazione fu sempre più fredda, fino alla fine. Renzo, stando
indietro nel mangiare, come nel bere, attese a mescere ai due testimoni, con
discrezione, in maniera di dar loro un po' di brio, senza farli uscir di
cervello. Sparecchiato, pagato il conto da colui che aveva fatto men guasto,
dovettero tutti e tre passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte
si voltarono a Renzo, come quand'era entrato. Questo, fatti ch'ebbe pochi passi
fuori dell'osteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati
seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, co' suoi compagni, come se
dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quando s'accorsero
d'essere osservati, si fermarono anch'essi, si parlaron sottovoce, e tornarono
indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino da sentir le loro parole, gli
sarebbero parse molto strane. - Sarebbe però un bell'onore, senza contar la
mancia, - diceva uno de' malandrini, - se, tornando al palazzo, potessimo
raccontare d'avergli spianate le costole in fretta in fretta, e così da noi,
senza che il signor Griso fosse qui a regolare.
- E
guastare il negozio principale! - rispondeva l'altro. - Ecco: s'è avvisto di
qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih! se fosse più tardi! Torniamo indietro,
per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte le parti: lasciamoli andar
tutti a pollaio.
C'era
in fatti quel brulichìo, quel ronzìo che si sente in un villaggio, sulla sera,
e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne
venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i
ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan
gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All'aprirsi degli usci,
si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva
nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della
raccolta, e sulla miseria dell'annata; e più delle parole, si sentivano i
tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno.
Quando Renzo vide che i due indiscreti s'eran ritirati, continuò la sua strada
nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un altro, ora
all'uno, ora all'altro fratello. Arrivarono alla casetta di Lucia, ch'era già
notte.
Tra il
primo pensiero d'una impresa terribile, e l'esecuzione di essa (ha detto un
barbaro che non era privo d'ingegno), l'intervallo è un sogno, pieno di fantasmi
e di paure. Lucia era, da molte ore, nell'angosce d'un tal sogno: e Agnese,
Agnese medesima, l'autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a
stento parole per rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento
cioè di dar principio all'opera, l'animo si trova tutto trasformato. Al terrore
e al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro
coraggio: l'impresa s'affaccia alla mente, come una nuova apparizione: ciò che
prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole tutt'a un tratto:
talvolta comparisce grande l'ostacolo a cui s'era appena badato;
l'immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusino d'ubbidire;
e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare
sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, in quel
momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divisa da lui, piùttosto
ch'eseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: -
son qui, andiamo -; quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza
esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo né forza
di far difficoltà, e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre,
un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.
Zitti
zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta, e preser la
strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata d'attraversarlo: che
s'andava diritto alla casa di don Abbondio; ma scelsero quella, per non esser
visti. Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e
lì si divisero. I due promessi rimaser nascosti dietro l'angolo di essa; Agnese
con loro, ma un po' più innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpetua, e a
impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far nulla da
sé, e senza il quale non si poteva far nulla, s'affacciaron bravamente alla
porta, e picchiarono.
- Chi
è, a quest'ora? - gridò una voce dalla finestra, che s'aprì in quel momento:
era la voce di Perpetua. - Ammalati non ce n'è, ch'io sappia. È forse accaduta
qualche disgrazia?
- Son
io, - rispose Tonio, - con mio fratello, che abbiam bisogno di parlare al
signor curato.
- È ora
da cristiani questa? - disse bruscamente Perpetua. - Che discrezione? Tornate domani.
-
Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e venivo a
saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove;
ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando n'abbia
messi insieme degli altri.
-
Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perché venire a quest'ora?
- Gli
ho ricevuti, anch'io, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se li tengo a
dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però, se l'ora non vi
piace, non so che dire: per me, son qui; e se non mi volete, me ne vo.
-
No, no, aspettate un momento: torno con la risposta. Così
dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi,
e, detto sottovoce a Lucia: - coraggio; è un momento; è come farsi cavar un
dente, - si riunì ai due fratelli, davanti all'uscio; e si mise a ciarlare con
Tonio, in maniera che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse
abbattuta lì a caso, e che Tonio l'avesse trattenuta un momento.
"Carneade!
Chi era costui?" ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone,
in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando
Perpetua entrò a portargli l'imbasciata. "Carneade! questo nome mi par
bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone
del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?" Tanto
il pover'uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!
Bisogna
sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un
curato suo vicino, che aveva un po' di libreria, gli prestava un libro dopo
l'altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel
momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito
(quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in
onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel
duomo di Milano, due anni prima. Il santo v'era paragonato, per l'amore allo
studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché
Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per
saperne qualche cosa, non c'è bisogno d'un'erudizione molto vasta. Ma, dopo
Archimede, l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era
rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di
Tonio.
- A
quest'ora? - disse anche don Abbondio, com'era naturale.
- Cosa
vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo...
- Già:
se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire... Ehi!
ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?
-
Diavolo! - rispose Perpetua, e scese; aprì l'uscio, e disse: - dove siete? -
Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese, e
salutò Perpetua per nome.
- Buona
sera, Agnese, - disse Perpetua: - di dove si viene, a quest'ora?
- Vengo
da... - e nominò un paesetto vicino. - E se sapeste... - continuò: - mi son
fermata di più, appunto in grazia vostra.
- Oh
perché? - domandò Perpetua; e voltandosi a' due fratelli, - entrate, - disse, -
che vengo anch'io.
-
Perché, - rispose Agnese, - una donna di quelle che non sanno le cose, e
voglion parlare... credereste? s'ostinava a dire che voi non vi siete maritata
con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v'hanno voluta. Io
sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l'uno e l'altro...
-
Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?
- Non
me lo domandate, che non mi piace metter male.
- Me lo
direte, me l'avete a dire: oh la bugiarda!
-
Basta... ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene
tutta la storia, per confonder colei.
-
Guardate se si può inventare, a questo modo! - esclamò di nuovo Perpetua; e
riprese subito: - in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere... Ehi,
Tonio! accostate l'uscio, e salite pure, che vengo -. Tonio, di dentro, rispose
di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata.
In
faccia all'uscio di don Abbondio, s'apriva, tra due casipole, una stradetta,
che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s'avviò, come se volesse
tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro.
Quand'ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che
accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il
segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e
tutt'e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti;
arrivarono all'uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron
nell'andito, dov'erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo
l'uscio pian piano; e tutt'e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur
per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s'avvicinarono all'uscio della
stanza, ch'era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.
- Deo
gratias, - disse Tonio, a voce chiara.
-
Tonio, eh? Entrate, - rispose la voce di dentro. Il chiamato aprì l'uscio,
appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La
striscia di luce, che uscì d'improvviso per quella apertura, e si disegnò sul
pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta.
Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l'uscio: gli sposi rimasero immobili
nelle tenebre, con l'orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era
il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.
Don
Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una
vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice
intorno alla faccia, al lume scarso d'una piccola lucerna. Due folte ciocche di
capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due
folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e
rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un
dirupo, al chiaro di luna.
- Ah!
ah! - fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel
libricciolo.
- Dirà
il signor curato, che son venuto tardi, - disse Tonio, inchinandosi, come pure
fece, ma più goffamente, Gervaso.
-
Sicuro ch'è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?
- Oh!
mi dispiace.
-
L'avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere...
Ma perché vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo?
- Così
per compagnia, signor curato.
-
Basta, vediamo.
- Son
venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant'Ambrogio a cavallo, - disse
Tonio, levandosi un involtino di tasca.
-
Vediamo, - replicò don Abbondio: e, preso l'involtino, si rimesse gli occhiali,
l'aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza
difetto.
- Ora,
signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.
- È
giusto, - rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di
tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una
parte di sportello, riempì l'apertura con la persona, mise dentro la testa, per
guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l'armadio,
la consegnò a Tonio, dicendo: - va bene?
- Ora,
- disse Tonio, - si contenti di mettere un po' di nero sul bianco.
- Anche
questa! - disse don Abbondio: - le sanno tutte. Ih! com'è divenuto sospettoso
il mondo! Non vi fidate di me?
- Come,
signor curato! s'io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo
libraccio, dalla parte del debito... dunque, giacché ha già avuto l'incomodo di
scrivere una volta, così... dalla vita alla morte...
- Bene
bene, - interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta del
tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a
viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto
Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in
maniera d'impedire allo scrivente la vista dell'uscio; e, come per ozio,
andavano stropicciando, co' piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch'erano
fuori, d'entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro
pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo
stropiccìo de' quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per
darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi
sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il
respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di
scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in
quattro, dicendo: - ora, sarete contento? - e, levatosi con una mano gli
occhiali dal naso, la porse con l'altra a Tonio, alzando il viso. Tonio,
allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un
suo cenno, dall'altra; e, nel mezzo, come al dividersi d'una scena, apparvero
Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò,
si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che
Renzo mise a proferire le parole: - signor curato, in presenza di questi
testimoni, quest'è mia moglie -. Le sue labbra non erano ancora tornate al
posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e
alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del
tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio
e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s'era avvicinato a
Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva
appena potuto proferire: - e questo... - che don Abbondio le aveva buttato
sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare
intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell'altra
mano, s'aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la
soffogava; e intanto gridava quanto n'aveva in canna: - Perpetua! Perpetua!
tradimento! aiuto! - Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce
languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava
neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale
l'artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la
poveretta, e andò cercando a tastoni l'uscio che metteva a una stanza più
interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: -
Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa! -
Nell'altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato,
e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all'uscio, e
picchiava, gridando: - apra, apra; non faccia schiamazzo -. Lucia chiamava
Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: - andiamo, andiamo, per l'amor di
Dio -. Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di
raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava,
cercando l'uscio di scala, per uscire a salvamento.
In
mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare
una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era
introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha
tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure, alla fin de' fatti, era l'oppresso.
Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva
tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui
che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel
secolo decimo settimo.
L'assediato,
vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che
guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: - aiuto! aiuto! - Era
il più bel chiaro di luna; l'ombra della chiesa, e più in fuori l'ombra lunga
ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente
della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin
dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo
però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la
casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il
sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese
il letto in furia, aprì l'impannata d'una sua finestrina, mise fuori la testa,
con gli occhi tra' peli, e disse: - cosa c'è?
-
Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa, - gridò verso lui don Abbondio. -
Vengo subito, - rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua
impannata, e, quantunque mezzo tra 'l sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò
su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva,
senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache,
che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala,
e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la
corda della più grossa di due campanette che c'erano, e suona a martello.
Ton,
ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati
sul fenile, tendon l'orecchio, si rizzano. - Cos'è? Cos'è? Campana a martello!
fuoco? ladri? banditi? - Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non
moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s'alzano, e vanno alla finestra:
i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più
curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi, per correre al
rumore: altri stanno a vedere.
Ma,
prima che quelli fossero all'ordine, prima anzi che fosser ben desti, il rumore
era giunto agli orecchi d'altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e
vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima
brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli abbiamo lasciati,
parte nel casolare e parte all'osteria. Questi tre, quando videro tutti gli
usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti
d'aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una
giravolta per il paese, per venire in chiaro se tutti eran ritirati- e in
fatti, non incontrarono anima vivente, né sentirono il più piccolo strepito.
Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra povera casetta: la più quieta
di tutte, giacché non c'era più nessuno. Andarono allora diviato al casolare, e
fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un
cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di
conchiglie; prese un bordone da pellegrino, disse: - andiamo da bravi: zitti, e
attenti agli ordini -, s'incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un
momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se
n'era allontanata la nostra brigatella, andando anch'essa alla sua spedizione.
Il Griso trattenne la truppa, alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad
esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori fece venire avanti due
di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il
cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico,
sul quale aveva messo l'occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con
intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a
giorno. Nessun risponde: ripicchia un po' più forte; nemmeno uno zitto. Allora,
va a chiamare un terzo malandrino, lo fa scendere nel cortiletto, come gli
altri due, con l'ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver libero
l'ingresso e la ritirata. Tutto s'eseguisce con gran cautela, e con prospero
successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sé, li manda a nascondersi
accanto ai primi; accosta adagio adagio l'uscio di strada, vi posta due
sentinelle di dentro; e va diritto all'uscio del terreno. Picchia anche lì, e
aspetta: e' poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quell'uscio:
nessuno di dentro dice: chi va là?; nessuno si fa sentire: meglio non può
andare. Avanti dunque : - st -, chiama quei del fico, entra con loro nella
stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato quel pezzo di
pane. Cava fuori esca, pietra, acciarino e zolfanelli, accende un suo
lanternino, entra nell'altra stanza più interna, per accertarsi che nessun ci
sia: non c'è nessuno. Torna indietro, va all'uscio di scala, guarda, porge
l'orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle a terreno, si fa
venir dietro il Grignapoco, ch'era un bravo del contado di Bergamo, il quale
solo doveva minacciare, acchetare, comandare, essere in somma il dicitore, affinché
il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da
quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio
adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di
que' mascalzoni che facesse rumore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre.
Spinge mollemente l'uscio che mette alla prima stanza; l'uscio cede, si fa
spiraglio: vi mette l'occhio; è buio: vi mette l'orecchio, per sentire se
qualcheduno russa, fiata, brulica là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la
lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l'uscio,
vede un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, con la rimboccatura
arrovesciata, e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volta alla
compagnia, accenna loro che va a vedere nell'altra stanza, e che gli vengan
dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. - Che
diavolo è questo? - dice allora: - che qualche cane traditore abbia fatto la
spia? - Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto,
buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan
la guardia all'uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolosi, che
s'avvicinano in fretta; s'immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan
quieti, e, a buon conto, si mettono all'erta. In fatti, il calpestìo si ferma
appunto all'uscio. Era Menico che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo
ad avvisar le due donne che, per l'amor del cielo, scappassero subito di casa,
e si rifugiassero al convento, perché... il perché lo sapete. Prende la
maniglia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano,
schiodato e sconficcato. "Che è questo?" pensa; e spinge l'uscio con
paura: quello s'apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si
sente a un punto acchiappar per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a
sinistra, che dicono, in tono minaccioso: - zitto! o sei morto -. Lui in vece
caccia un urlo: uno di que' malandrini gli mette una mano alla bocca; l'altro
tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello trema come una
foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt'a un tratto, in vece di lui, e
con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e
dietro una tempesta di rintocchi in fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice
il proverbio milanese: all'uno e all'altro furfante parve di sentire in que'
tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico,
ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e
corrono alla casa, dov'era il grosso della compagnia. Menico, via a gambe per
la strada, alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno ci doveva
essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall'alto al basso, il
terribile tocco fece la stessa impressione: si confondono, si scompigliano,
s'urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più corta, per arrivare all'uscio.
Eppure era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso; ma non poterono
star saldi contro un pericolo indeterminato, e che non s'era fatto vedere un
po' da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del
Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che
scorta una mandra di porci, corre or qua or là a quei che si sbandano; ne
addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera; ne spinge un altro col
muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel momento; così il pellegrino
acciuffa un di coloro, che già toccava la soglia, e lo strappa indietro; caccia
indietro col bordone uno e un altro che s'avviavan da quella parte: grida agli
altri che corron qua e là, senza saper dove; tanto che li raccozzò tutti nel
mezzo del cortiletto. - Presto, presto! pistole in mano, coltelli in pronto,
tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiam
ben insieme, sciocconi? Ma, se ci lasciamo acchiappare a uno a uno, anche i
villani ce ne daranno. Vergogna! Dietro a me, e uniti -. Dopo questa breve
aringa, si mise alla fronte, e uscì il primo. La casa, come abbiam detto, era
in fondo al villaggio; il Griso prese la strada che metteva fuori, e tutti gli
andaron dietro in buon ordine.
Lasciamoli
andare, e torniamo un passo indietro a prendere Agnese e Perpetua, che abbiam
lasciate in una certa stradetta. Agnese aveva procurato d'allontanar l'altra
dalla casa di don Abbondio, il più che fosse possibile; e, fino a un certo
punto, la cosa era andata bene. Ma tutt'a un tratto, la serva s'era ricordata
dell'uscio rimasto aperto, e aveva voluto tornare indietro. Non c'era che
ridire: Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto voltar con
lei, e andarle dietro, cercando di trattenerla, ogni volta che la vedesse
riscaldata ben bene nel racconto di que' tali matrimoni andati a monte.
Mostrava di darle molta udienza, e, ogni tanto, per far vedere che stava
attenta, o per ravviare il cicalìo, diceva: - sicuro: adesso capisco: va
benissimo: è chiara: e poi? e lui? e voi? - Ma intanto, faceva un altro discorso
con sé stessa. "Saranno usciti a quest'ora? o saranno ancor dentro? Che
sciocchi che siamo stati tutt'e tre, a non concertar qualche segnale, per
avvisarmi, quando la cosa fosse riuscita! È stata proprio grossa! Ma è fatta:
ora non c'è altro che tener costei a bada, più che posso: alla peggio, sarà un
po' di tempo perduto". Così, a corserelle e a fermatine, eran tornate poco
distante dalla casa di don Abbondio, la quale però non vedevano, per ragione di
quella cantonata: e Perpetua, trovandosi a un punto importante del racconto,
s'era lasciata fermare senza far resistenza, anzi senza avvedersene; quando,
tutt'a un tratto, si sentì venir rimbombando dall'alto, nel vano immoto
dell'aria, per l'ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don
Abbondio: - aiuto! aiuto!
-
Misericordia! cos'è stato? - gridò Perpetua, e volle correre.
- Cosa
c'è? cosa c'è? - disse Agnese, tenendola per la sottana.
-
Misericordia! non avete sentito? - replicò quella, svincolandosi.
- Cosa
c'è? cosa c'è? - ripeté Agnese, afferrandola per un braccio.
-
Diavolo d'una donna! - esclamò Perpetua, rispingendola, per mettersi in
libertà; e prese la rincorsa. Quando, più lontano, più acuto, più istantaneo,
si sente l'urlo di Menico.
-
Misericordia! - grida anche Agnese; e di galoppo dietro l'altra. Avevan quasi
appena alzati i calcagni, quando scoccò la campana: un tocco, e due, e tre, e
seguita: sarebbero stati sproni, se quelle ne avessero avuto bisogno. Perpetua
arriva, un momento prima dell'altra; mentre vuole spinger l'uscio, l'uscio si
spalanca di dentro, e sulla soglia compariscono Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia,
che, trovata la scala, eran venuti giù saltelloni; e, sentendo poi quel
terribile scampanìo, correvano in furia, a mettersi in salvo.
- Cosa
c'è? cosa c'è? - domandò Perpetua ansante ai fratelli, che le risposero con un
urtone, e scantonarono. - E voi! come! che fate qui voi? - domandò poscia
all'altra coppia, quando l'ebbe raffigurata. Ma quelli pure usciron senza
rispondere. Perpetua, per accorrere dove il bisogno era maggiore, non domandò
altro, entrò in fretta nell'andito, e corse, come poteva al buio, verso la
scala. I due sposi rimasti promessi si trovarono in faccia Agnese, che arrivava
tutt'affannata. - Ah siete qui! - disse questa, cavando fuori la parola a
stento: - com'è andata? cos'è la campana? mi par d'aver sentito...
- A
casa, a casa, - diceva Renzo, - prima che venga gente -. E s avviavano; ma
arriva Menico di corsa, li riconosce, li ferma, e, ancor tutto tremante, con
voce mezza fioca, dice: - dove andate? indietro, indietro! per di qua, al
convento!
- Sei
tu che...? - cominciava Agnese.
- Cosa
c'è d'altro? - domandava Renzo. Lucia, tutta smarrita, taceva e tremava.
- C'è
il diavolo in casa, - riprese Menico ansante. - Gli ho visti io: m'hanno voluto
ammazzare: l'ha detto il padre Cristoforo: e anche voi, Renzo, ha detto che
veniate subito: e poi gli ho visti io: provvidenza che vi trovo qui tutti! vi
dirò poi, quando saremo fuori.
Renzo,
ch'era il più in sé di tutti, pensò che, di qua o di là, conveniva andar
subito, prima che la gente accorresse; e che la più sicura era di far ciò che
Menico consigliava, anzi comandava, con la forza d'uno spaventato. Per istrada
poi, e fuor del pericolo, si potrebbe domandare al ragazzo una spiegazione più
chiara. - Cammina avanti, - gli disse. - Andiam con lui, - disse alle donne.
Voltarono, s'incamminarono in fretta verso la chiesa, attraversaron la piazza,
dove per grazia del eielo, non c'era ancora anima vivente; entrarono in una
stradetta che era tra la chiesa e la casa di don Abbondio; al primo buco che
videro in una siepe, dentro, e via per i campi.
Non
s'eran forse allontanati un cinquanta passi, quando la gente cominciò ad
accorrere sulla piazza, e ingrossava ogni momento. Si guardavano in viso gli
uni con gli altri: ognuno aveva una domanda da fare, nessuno una risposta da
dare. I primi arrivati corsero alla porta della chiesa: era serrata. Corsero al
campanile di fuori; e uno di quelli, messa la bocca a un finestrino, una specie
di feritoia, cacciò dentro un: - che diavolo c'è? - Quando Ambrogio sentì una
voce conosciuta, lasciò andar la corda; e assicurato dal ronzìo, ch'era accorso
molto popolo, rispose: - vengo ad aprire -. Si mise in fretta l'arnese che
aveva portato sotto il braccio, venne, dalla parte di dentro, alla porta della
chiesa, e l'aprì.
- Cos'è
tutto questo fracasso? - Cos'è? - Dov'è? - Chi è?
- Come,
chi è? - disse Ambrogio, tenendo con una mano un battente della porta, e, con
l'altra, il lembo di quel tale arnese, che s'era messo così in fretta: - come!
non lo sapete? gente in casa del signor curato. Animo, figliuoli: aiuto -. Si
voltan tutti a quella casa, vi s'avvicinano in folla, guardano in su, stanno in
orecchi: tutto quieto. Altri corrono dalla parte dove c'era l'uscio: è chiuso,
e non par che sia stato toccato. Guardano in su anche loro: non c'è una
finestra aperta: non si sente uno zitto.
- Chi è
là dentro? - Ohe, ohe! - Signor curato! - Signor curato!
Don
Abbondio, il quale, appena accortosi della fuga degl'invasori, s'era ritirato
dalla finestra, e l'aveva richiusa, e che in questo momento stava a bisticciar
sottovoce con Perpetua, che l'aveva lasciato solo in quell'imbroglio, dovette,
quando si sentì chiamare a voce di popolo, venir di nuovo alla finestra; e
visto quel gran soccorso, si pentì d'averlo chiesto.
- Cos'è
stato? - Che le hanno fatto? - Chi sono costoro? - Dove sono? - gli veniva
gridato da cinquanta voci a un tratto.
- Non
c'è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa.
- Ma
chi è stato? - Dove sono andati? - Che è accaduto?
-
Cattiva gente, gente che gira di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa; non
c'è più niente: un'altra volta, figliuoli: vi ringrazio del vostro buon cuore
-. E, detto questo, si ritirò, e chiuse la finestra. Qui alcuni cominciarono a
brontolare, altri a canzonare, altri a sagrare; altri si stringevan nelle
spalle, e se n'andavano: quando arriva uno tutto trafelato, che stentava a
formar le parole. Stava costui di casa quasi dirimpetto alle nostre donne, ed
essendosi, al rumore, affacciato alla finestra, aveva veduto nel cortiletto
quello scompiglio de' bravi, quando il Griso s'affannava a raccoglierli.
Quand'ebbe ripreso fiato, gridò: - che fate qui, figliuoli? non è qui il
diavolo; è giù in fondo alla strada, alla casa d'Agnese Mondella: gente armata;
son dentro; par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c'è!
- Che?
- Che? - Che? - E comincia una consulta tumultuosa. - Bisogna andare. - Bisogna
vedere. - Quanti sono? - Quanti siamo? - Chi sono? - Il console! il console!
- Son
qui, - risponde il console, di mezzo alla folla: - son qui; ma bisogna
aiutarmi, bisogna ubbidire. Presto: dov'è il sagrestano? Alla campana, alla
campana. Presto: uno che corra a Lecco a cercar soccorso: venite qui tutti...
Chi
accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande,
quando arriva un altro, che gli aveva veduti partire in fretta, e grida: -
correte, figliuoli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già
fuori del paese: addosso! addosso! - A quest'avviso, senza aspettar gli ordini
del capitano, si movono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in
mano che l'esercito s'avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta il
passo, si lascia sopravanzare, e si ficca nel corpo della battaglia: gli ultimi
spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le
tracce dell'invasione eran fresche e manifeste: l'uscio spalancato, la
serratura sconficcata; ma gl'invasori erano spariti. S'entra nel cortile; si va
all'uscio del terreno: aperto e sconficcato anche quello: si chiama: - Agnese!
Lucia! Il pellegrino! Dov'è il pellegrino? L'avrà sognato Stefano, il
pellegrino. - No, no: l'ha visto anche Carlandrea. Ohe, pellegrino! - Agnese!
Lucia! - Nessuno risponde. - Le hanno portate via! Le hanno portate via! - Ci
fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d'inseguire i rapitori: che
era un'infamità; e sarebbe una vergogna per il paese, se ogni birbone potesse a
man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulcini da un'aia deserta.
Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse
stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s'eran messe in salvo
in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza; non si parlò più di
dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa
sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir d'usci, un
apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un
rispondere dalla strada. Tornata questa deserta e silenziosa, i discorsi
continuaron nelle case, e moriron negli sbadigli, per ricominciar poi la
mattina. Fatti però, non ce ne fu altri; se non che, quella medesima mattina,
il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato
sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangile;
stando, dico, a speculare tra sé sui misteri della notte passata, e sulla
ragion composta di ciò che gli toccase a fare, e di ciò che gli convenisse
fare, vide venirsi incontro due uomini d'assai gagliarda presenza, chiomati
come due re de' Franchi della prima razza, e somigliantissimi nel resto a que'
due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non eran
que' medesimi. Costoro, con un fare ancor men cerimonioso, intimarono al
console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell'accaduto, di
non rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di non ciarlare, di
non fomentar le ciarle de' villani, per quanto aveva cara la speranza di morir
di malattia.
I
nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, voltandosi,
ora l'uno ora l'altro, a guardare se nessuno gl'inseguiva, tutti in affanno per
la fatica della fuga, per il batticuore e per la sospensione in cui erano
stati, per il dolore della cattiva riuscita, per l'apprensione confusa del
nuovo oscuro pericolo. E ancor più in affanno li teneva l'incalzare continuo di
que' rintocchi, i quali, quanto, per l'allontanarsi, venivan più fiochi e
ottusi, tanto pareva che prendessero un non so che di più lugubre e sinistro.
Finalmente cessarono. I fuggiaschi allora, trovandosi in un campo disabitato, e
non sentendo un alito all'intorno, rallentarono il passo; e fu la prima Agnese
che, ripreso fiato, ruppe il silenzio, domandando a Renzo com'era andata,
domandando a Menico cosa fosse quel diavolo in casa. Renzo raccontò brevemente
la sua trista storia; e tutt'e tre si voltarono al fanciullo, il quale riferì
più espressamente l'avviso del padre, e raccontò quello ch'egli stesso aveva veduto
e rischiato, e che pur troppo confermava l'avviso. Gli ascoltatori compresero
più di quel che Menico avesse saputo dire: a quella scoperta, si sentiron
rabbrividire; si fermaron tutt'e tre a un tratto, si guardarono in viso l'un
con l'altro, spaventati; e subito, con un movimento unanime, tutt'e tre posero
una mano, chi sul capo, chi sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo,
per ringraziarlo tacitamente che fosse stato per loro un angelo tutelare, per
dimostrargli la compassione che sentivano dell'angoscia da lui sofferta, e del
pericolo corso per la loro salvezza; e quasi per chiedergliene scusa. - Ora
torna a casa, perché i tuoi non abbiano a star più in pena per te, - gli disse
Agnese; e rammentandosi delle due parpagliole promesse, se ne levò quattro di
tasca, e gliele diede, aggiungendo: - basta; prega il Signore che ci rivediamo
presto: e allora... - Renzo gli diede una berlinga nuova, e gli raccomandò
molto di non dir nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l'accarezzò di
nuovo, lo salutò con voce accorata; il ragazzo li salutò tutti, intenerito; e
tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, tutti pensierosi; le donne
innanzi, e Renzo dietro, come per guardia. Lucia stava stretta al braccio della
madre, e scansava dolcemente, e con destrezza, l'aiuto che il giovine le
offriva ne' passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sé,
anche in un tale turbamento, d'esser già stata tanto sola con lui, e tanto
famigliarmente, quando s'aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti.
Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d'essere andata troppo
avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non
nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso,
somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di
che.
- E la
casa? - disse a un tratto Agnese. Ma, per quanto la domanda fosse importante,
nessuno rispose, perché nessuno poteva darle una risposta soddisfacente.
Continuarono in silenzio la loro strada, e poco dopo, sboccarono finalmente
sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento.
Renzo
s'affacciò alla porta, e la sospinse bel bello. La porta di fatto s'aprì; e la
luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba
d'argento del padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa. Visto che
non ci mancava nessuno, - Dio sia benedetto! - disse, e fece lor cenno
ch'entrassero. Accanto a lui, stava un altro cappuccino; ed era il laico
sagrestano, ch'egli, con preghiere e con ragioni, aveva persuaso a vegliar con
lui, a lasciar socchiusa la porta, e a starci in sentinella, per accogliere
que' poveri minacciati: e non si richiedeva meno dell'autorità del padre, della
sua fama di santo, per ottener dal laico una condiscendenza incomoda,
pericolosa e irregolare. Entrati che furono, il padre Cristoforo riaccostò la
porta adagio adagio. Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il
padre da una parte, gli andava susurrando all'orecchio: - ma padre, padre! di
notte... in chiesa... con donne... chiudere... la regola... ma padre! - E
tentennava la testa. Mentre diceva stentatamente quelle parole, "vedete un
poco!" pensava il padre Cristoforo, "se fosse un masnadiero
inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera
innocente, che scappa dagli artigli del lupo..." - Omnia munda mundis,
- disse poi, voltandosi tutt'a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo
non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece
l'effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio
non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la
cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso,
e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la
soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e disse: - basta! lei ne sa più di
me.
-
Fidatevi pure, - rispose il padre Cristoforo; e, all'incerto chiarore della
lampada che ardeva davanti all'altare, s'accostò ai ricoverati, i quali stavano
sospesi aspettando, e disse loro: - figliuoli! ringraziate il Signore, che v'ha
scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento...! - E qui si mise a
spiegare ciò che aveva fatto accennare dal piccol messo: giacché non sospettava
ch'essi ne sapesser più di lui, e supponeva che Menico gli avesse trovati
tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini. Nessuno lo disingannò,
nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d'una tale dissimulazione,
con un tal uomo; ma era la notte degl'imbrogli e de' sotterfugi.
- Dopo
di ciò, - continuò egli, - vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è
sicuro per voi. ' il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma
Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia,
senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di
ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi
momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo,
Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare
alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi
poveri cari tribolati. Voi, - continuò volgendosi alle due donne, - potrete
fermarvi a ***. Là sarete abbastanza fuori d'ogni pericolo, e, nello stesso
tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate
chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra
Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo
dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre
Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti
farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa
tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo
sbocco del Bione -. È un torrente a pochi passi da Pescarenico. - Lì vedrete un
battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san
Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all'altra riva, dove troverete
un baroccio che vi condurrà addirittura fino a ***.
Chi
domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que' mezzi
di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse
il potere d'un cappuccino tenuto in concetto di santo.
Restava
da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi,
incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl'indicarono. Quest'ultima,
levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento,
la casa era aperta, che c'era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da
custodire!
- Prima
che partiate, - disse il padre, - preghiamo tutti insieme il Signore, perché
sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia
amore di volere ciò ch'Egli ha voluto -. Così dicendo s'inginocchiò nel mezzo
della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Dopo ch'ebbero pregato, alcuni momenti,
in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole:
- noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo.
Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di
cuore per lui; ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo
questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo
offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!... è vostro nemico. Oh
disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il
cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo
desiderare a noi stessi.
Alzatosi
poi, come in fretta, disse: - via, figliuoli, non c'è tempo da perdere: Dio vi
guardi, il suo angelo v'accompagni: andate -. E mentre s'avviavano, con quella
commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre
soggiunse, con voce alterata: - il cuor mi dice che ci rivedremo presto.
Certo,
il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà.
Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.
Senza
aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori
usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la
voce alterata anche lui. Essi s'avviarono zitti zitti alla rivá ch'era stata
loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola,
c'entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato
poi l'altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia
opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e
sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l'ondeggiar leggiero
della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S'udiva soltanto il fiotto
morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano
dell'acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que' due remi,
che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e
si rituffavano. L'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava
una striscia increspata, che s'andava allontanando dal lido. I passeggieri
silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese
rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand'ombre. Si distinguevano i
villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre
piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva
un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d'addormentati, vegliasse,
meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l'occhio giù giù
per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all'estremità, scoprì la sua
casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile,
scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com'era, nel fondo della barca,
posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e
pianse segretamente.
Addio,
monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è
cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto
de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il
suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come
branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto
tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte
volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si
disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia
d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che,
un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si
ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa
e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte
a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e
davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto,
al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi
addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti.
Ma chi
non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi
aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire, e n'è sbalzato lontano,
da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e
disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti, per avviarsi in traccia
di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con
l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa
natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal
rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso
timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla
sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un
soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò
tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato
un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente
benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi
tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non
per prepararne loro una più certa e più grande.
Di tal
genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i
pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando
alla riva destra dell'Adda.
L'urtar
che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate
in segreto le lacrime, alzò la testa, come se si svegliasse. Renzo uscì il
primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia;
e tutt'e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. - Di che cosa? - rispose
quello: - siam quaggiù per aiutarci l'uno con l'altro, - e ritirò la mano,
quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorché Renzo cercò
di farvi sdrucciolare una parte de' quattrinelli che si trovava indosso, e che
aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio,
quando questo l'avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era lì pronto; il
conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia,
una frustata, e via.
Il nostro
autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra
Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi protesta espressamente di non
lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione di queste
reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in
un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto
potente, al tempo che l'autore scriveva. Per render ragione della strana
condotta di quella persona, nel caso particolare, egli ha poi anche dovuto
raccontarne in succinto la vita antecedente; e la famiglia ci fa quella figura
che vedrà chi vorrà leggere. Ma ciò che la circospezione del pover'uomo ci ha
voluto sottrarre, le nostre diligenze ce l'hanno fatto trovare in altra parte.
Uno storico milanese (Josephi Ripamontii, Historiae Patriae, Decadis V, Lib.
VI, Cap. III, pag. 358 et seq.) che ha avuto a far menzione di quella persona
medesima, non nomina, è vero, né lei, né il paese; ma di questo dice ch'era un
borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice
altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c'è un arciprete. Dal riscontro
di questi dati noi deduciamo che fosse Monza senz'altro. Nel vasto tesoro
dell'induzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più
sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture molto fondate, dire il
nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta da un pezzo, ci par meglio
lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio di far torto neppure ai morti,
e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca.
I
nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza, poco dopo il levar del sole: il
conduttore entrò in un'osteria, e lì, come pratico del luogo, e conoscente del
padrone, fece assegnar loro una stanza, e ve gli accompagnò. Tra i
ringraziamenti, Renzo tentò pure di fargli ricevere qualche danaro; ma quello,
al pari del barcaiolo, aveva in mira un'altra ricompensa, più lontana, ma più
abbondante: ritirò le mani, anche lui, e, come fuggendo, corse a governare la
sua bestia.
Dopo
una sera quale l'abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela,
passata in compagnia di que' pensieri, col sospetto incessante di qualche
incontro spiacevole, al soffio di una brezzolina più che autunnale, e tra le continue
scosse della disagiata vettura, che ridestavano sgarbatamente chi di loro
cominciasse appena a velar l'occhio, non parve vero a tutt'e tre di sedersi sur
una panca che stava ferma, in una stanza, qualunque fosse. Fecero colazione,
come permetteva la penuria de' tempi, e i mezzi scarsi in proporzione de'
contingenti bisogni d'un avvenire incerto, e il poco appetito. A tutt'e tre
passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, s'aspettavan di fare; e
ciascuno mise un gran sospiro. Renzo avrebbe voluto fermarsi lì, almeno tutto
quel giorno, veder le donne allogate, render loro i primi servizi; ma il padre
aveva raccomandato a queste di mandarlo subito per la sua strada. Addussero
quindi esse e quegli ordini, e cento altre ragioni; che la gente ciarlerebbe,
che la separazione più ritardata sarebbe più dolorosa, ch'egli potrebbe venir
presto a dar nuove e a sentirne; tanto che si risolvette di partire. Si
concertaron, come poterono, sulla maniera di rivedersi, più presto che fosse
possibile. Lucia non nascose le lacrime; Renzo trattenne a stento le sue, e,
stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: - a
rivederci, - e partì.
Le
donne si sarebber trovate ben impicciate, se non fosse stato quel buon
barocciaio, che aveva ordine di guidarle al convento de' cappuccini, e di dar
loro ogn'altro aiuto che potesse bisognare. S'avviaron dunque con lui a quel
convento; il quale, come ognun sa, era pochi passi distante da Monza. Arrivati
alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano;
questo venne subito, e ricevette la lettera, sulla soglia.
- Oh!
fra Cristoforo! - disse, riconoscendo il carattere. Il tono della voce e i
movimenti del volto indicavano manifestamente che proferiva il nome d'un
grand'amico. Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse, in quella
lettera, raccomandate le donne con molto calore, e riferito il loro caso con
molto sentimento, perché il guardiano, faceva, di tanto in tanto, atti di
sorpresa e d'indegnazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle
donne con una certa espressione di pietà e d'interesse. Finito ch'ebbe di
leggere, stette lì alquanto a pensare; poi disse: - non c'è che la signora: se
la signora vuol prendersi quest'impegno...
Tirata
quindi Agnese in disparte, sulla piazza davanti al convento, le fece alcune
interrogazioni, alle quali essa soddisfece; e, tornato verso Lucia, disse a
tutt'e due: - donne mie, io tenterò; e spero di potervi trovare un ricovero più
che sicuro, più che onorato, fin che Dio non v'abbia provvedute in miglior
maniera. Volete venir con me?
Le
donne accennarono rispettosamente di sì; e il frate riprese: - bene; io vi
conduco subito al monastero della signora. State però discoste da me alcuni
passi, perché la gente si diletta di dir male; e Dio sa quante belle
chiacchiere si farebbero, se si vedesse il padre guardiano per la strada, con
una bella giovine... con donne voglio dire.
Così
dicendo, andò avanti. Lucia arrossì; il barocciaio sorrise, guardando Agnese,
la quale non poté tenersi di non fare altrettanto; e tutt'e tre si mossero,
quando il frate si fu avviato; e gli andaron dietro, dieci passi discosto. Le
donne allora domandarono al barocciaio, ciò che non avevano osato al padre
guardiano, chi fosse la signora.
- La
signora, - rispose quello, - è una monaca; ma non è una monaca come l'altre.
Non è che sia la badessa, né la priorache anzi, a quel che dicono, è una delle
più giovani: ma è della costola d'Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente
grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la
chiamano la signora, per dire ch'è una gran signora; e tutto il paese la chiama
con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una
persona simile; e i suoi d'adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di
quelli che hanno sempre ragione, e in Monza anche di più, perché suo padre,
quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e
basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e
quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon
religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v'accetti, vi posso
dire che sarete sicure come sull'altare.
Quando
fu vicino alla porta del borgo, fiancheggiata allora da un antico torracchione
mezzo rovinato, e da un pezzo di castellaccio, diroccato anch'esso, che forse
dieci de' miei lettori possono ancor rammentarsi d'aver veduto in piedi, il
guardiano si fermò, e si voltò a guardar se gli altri venivano; quindi entrò, e
s'avviò al monastero, dove arrivato, si fermò di nuovo sulla soglia, aspettando
la piccola brigata. Pregò il barocciaio che, tra un par d'ore, tornasse da lui,
a prender la risposta: questo lo promise, e si licenziò dalle donne, che lo
caricaron di ringraziamenti, e di commissioni per il padre Cristoforo. Il
guardiano fece entrare la madre e la figlia nel primo cortile del monastero, le
introdusse nelle camere della fattoressa; e andò solo a chieder la grazia. Dopo
qualche tempo, ricomparve giulivo, a dir loro che venissero avanti con lui; ed
era ora, perché la figlia e la madre non sapevan più come fare a distrigarsi
dall'interrogazioni pressanti della fattoressa. Attraversando un secondo
cortile, diede qualche avvertimento alle donne, sul modo di portarsi con la
signora. - E ben disposta per voi altre, - disse, - e vi può far del bene
quanto vuole. Siate umili e rispettose, rispondete con sincerità alle domande
che le piacerà di farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me -.
Entrarono in una stanza terrena, dalla quale si passava nel parlatorio: prima
di mettervi il piede, il guardiano, accennando l'uscio, disse sottovoce alle
donne: - è qui, - come per rammentar loro tutti quegli avvertimenti. Lucia, che
non aveva mai visto un monastero, quando fu nel parlatorio, guardò in giro dove
fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo persona, stava
come incantata; quando, visto il padre e Agnese andar verso un angolo, guardò
da quella parte, e vide una finestra d'una forma singolare, con due grosse e
fitte grate di ferro, distanti l'una dall'altra un palmo; e dietro quelle una
monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a
prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e,
direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla
testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una
bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma
non d'inferiore bianchezza; un'altra benda a pieghe circondava il viso, e
terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a
coprire lo scollo d'un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come
per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano,
con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch'essi, si fissavano talora in
viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano in
fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore
avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte
avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio inveterato e
compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e
fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa,
chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d'un pensiero nascosto, d'una
preoccupazione familiare all'animo, e più forte su quello che gli oggetti
circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e
grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra,
quantunque appena tinte d'un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore:
i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d'espressione
e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo
abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine,
irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire
stesso c'era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una
monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla
benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che
dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli
sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del
vestimento.
Queste
cose non facevano specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da
monaca: e il padre guardiano, che non vedeva la signora per la prima volta, era
già avvezzo, come tant'altri, a quel non so che di strano, che appariva nella
sua persona, come nelle sue maniere.
Era
essa, in quel momento, come abbiam detto, ritta vicino alla grata, con una mano
appoggiata languidamente a quella, e le bianchissime dita intrecciate ne' vòti;
e guardava fisso Lucia, che veniva avanti esitando. - Reverenda madre, e
signora illustrissima, - disse il guardiano, a capo basso, e con la mano al
petto: - questa è quella povera giovine, per la quale m'ha fatto sperare la sua
valida protezione; e questa è la madre.
Le due
presentate facevano grand'inchini: la signora accennò loro con la mano, che
bastava, e disse, voltandosi, al padre: - è una fortuna per me il poter fare un
piacere a' nostri buoni amici i padri cappuccini. Ma, - continuò; - mi dica un
po' più particolarmente il caso di questa giovine, per veder meglio cosa si
possa fare per lei.
Lucia
diventò rossa, e abbassò la testa.
- Deve
sapere, reverenda madre... - incominciava Agnese; ma il guardiano le troncò,
con un'occhiata, le parole in bocca, e rispose: - questa giovine, signora
illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello.
Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de' gravi
pericoli; e ha bisogno, per qualche tempo, d'un asilo nel quale possa vivere
sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand'anche...
- Quali
pericoli? - interruppe la signora. - Di grazia, padre guardiano, non mi dica la
cosa così in enimma. Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie
per minuto.
- Sono
pericoli, - rispose il guardiano, - che all'orecchie purissime della reverenda
madre devon essere appena leggermente accennati...
- Oh
certamente, - disse in fretta la signora, arrossendo alquanto. Era verecondia?
Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel
rossore, avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se l'avesse paragonato con
quello che di tanto in tanto si spandeva sulle gote di Lucia.
-
Basterà dire, - riprese il guardiano, - che un cavalier prepotente... non tutti
i grandi del mondo si servono dei doni di Dio, a gloria sua, e in vantaggio del
prossimo, come vossignoria illustrissima: un cavalier prepotente, dopo aver
perseguitata qualche tempo questa creatura con indegne lusinghe, vedendo
ch'erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo
che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua.
-
Accostatevi, quella giovine, - disse la signora a Lucia, facendole cenno col
dito. - So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser
meglio informato di voi, in quest'affare. Tocca a voi a dirci se questo
cavaliere era un persecutore odioso -. In quanto all'accostarsi, Lucia ubbidì
subito; ma rispondere era un'altra faccenda. Una domanda su quella materia,
quand'anche le fosse stata fatta da una persona sua pari, l'avrebbe imbrogliata
non poco: proferita da quella signora, e con una cert'aria di dubbio maligno,
le levò ogni coraggio a rispondere. - Signora... madre... reverenda... -
balbettò, e non dava segno d'aver altro a dire. Qui Agnese, come quella che,
dopo di lei, era certamente la meglio informata, si credé autorizzata a venirle
in aiuto. - Illustrissima signora, - disse, - io posso far testimonianza che
questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l'acqua santa:
voglio dire, il diavolo era lui; ma mi perdonerà se parlo male, perché noi siam
gente alla buona. Il fatto sta che questa povera ragazza era promessa a un
giovine nostro pari, timorato di Dio, e ben avviato; e se il signor curato
fosse stato un po' più un uomo di quelli che m'intendo io... so che parlo d'un
religioso, ma il padre Cristoforo, amico qui del padre guardiano, è religioso
al par di lui, e quello è un uomo pieno di carità, e, se fosse qui, potrebbe
attestare...
- Siete
ben pronta a parlare senz'essere interrogata, - interruppe la signora, con un
atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta. - State zitta voi: già
lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de' loro
figliuoli!
Agnese
mortificata diede a Lucia una occhiata che voleva dire: vedi quel che mi tocca,
per esser tu tanto impicciata. Anche il guardiano accennava alla giovine,
dandole d'occhio e tentennando il capo, che quello era il momento di
sgranchirsi, e di non lasciare in secco la povera mamma.
-
Reverenda signora, - disse Lucia, - quanto le ha detto mia madre è la pura
verità. Il giovine che mi discorreva, - e qui diventò rossa rossa, - lo
prendevo io di mia volontà. Mi scusi se parlo da sfacciata, ma è per non
lasciar pensar male di mia madre. E in quanto a quel signore (Dio gli perdoni!)
vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani. E se lei fa questa carità di
metterci al sicuro, giacché siam ridotte a far questa faccia di chieder
ricovero, e ad incomodare le persone dabbene; ma sia fatta la volontà di Dio;
sia certa, signora, che nessuno potrà pregare per lei più di cuore che noi
povere donne.
- A voi
credo, - disse la signora con voce raddolcita. - Ma avrò piacere di sentirvi da
solo a solo. Non che abbia bisogno d'altri schiarimenti, né d'altri motivi, per
servire alle premure del padre guardiano, - aggiunse subito, rivolgendosi a
lui, con una compitezza studiata. - Anzi, - continuò, - ci ho già pensato; ed
ecco ciò che mi pare di poter far di meglio, per ora. La fattoressa del
monastero ha maritata, pochi giorni sono, l'ultima sua figliuola. Queste donne
potranno occupar la camera lasciata in libertà da quella, e supplire a que'
pochi servizi che faceva lei. Veramente... - e qui accennò al guardiano che
s'avvicinasse alla grata, e continuò sottovoce: - veramente, attesa la
scarsezza dell'annate, non si pensava di sostituir nessuno a quella giovine; ma
parlerò io alla madre badessa, e una mia parola... e per una premura del padre
guardiano... In somma do la cosa per fatta.
Il
guardiano cominciava a ringraziare, ma la signora l'interruppe: - non occorron
cerimonie: anch'io, in un caso, in un bisogno, saprei far capitale
dell'assistenza de' padri cappuccini. Alla fine, - continuò, con un sorriso,
nel quale traspariva un non so che d'ironico e d'amaro, - alla fine, non siam
noi fratelli e sorelle?
Così
detto, chiamò una conversa (due di queste erano, per una distinzione singolare,
assegnate al suo servizio privato), e le ordinò che avvertisse di ciò la
badessa, e prendesse poi i concerti opportuni, con la fattoressa e con Agnese.
Licenziò questa, accommiatò il guardiano, e ritenne Lucia. Il guardiano
accompagnò Agnese alla porta, dandole nuove istruzioni, e se n'andò a scriver
la lettera di ragguaglio all'amico Cristoforo. "Gran cervellino che è
questa signora!" pensava tra sé, per la strada: "curiosa davvero! Ma
chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole. Il mio Cristoforo
non s'aspetterà certamente ch'io l'abbia servito così presto e bene. Quel
brav'uomo! non c'è rimedio: bisogna che si prenda sempre qualche impegno; ma lo
fa per bene. Buon per lui questa volta, che ha trovato un amico, il quale,
senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza tante faccende, ha condotto
l'aflare a buon porto, in un batter d'occhio. Sarà contento quel buon
Cristoforo, e s'accorgerà che, anche noi qui, siam buoni a qualche cosa".
La
signora, che, alla presenza d'un provetto cappuccino, aveva studiati gli atti e
le parole, rimasta poi sola con una giovine contadina inesperta, non pensava
più tanto a contenersi; e i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani,
che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la
storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render
ragione dell'insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far
comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo.
Era
essa l'ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi
tra i più doviziosi ddla città. Ma l'alta opinione che aveva del suo titolo gli
faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il
decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite
in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia
non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al
chiostro tutti i cadetti dell'uno e dell'altro sesso, per lasciare intatta la
sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de'
figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra
infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era
già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un
monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo
consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre,
volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l'idea del chiostro, e
che fosse stato portato da una santa d'alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole
vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi
santini che rappresentavan monache; e que' regali eran sempre accompagnati con
gran raccomandazioni di tenerli ben di conto; come cosa preziosa, e con
quell'interrogare affermativo: - bello eh? - Quando il principe, o la
principessa o il principino, che solo de' maschi veniva allevato in casa,
volevano lodar l'aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser
modo d'esprimer bene la loro idea, se non con le parole: - che madre badessa! -
Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un'idea
sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi
destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un
po' arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, -
tu sei una ragazzina, - le si diceva: - queste maniere non ti convengono:
quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso
-. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert'altre maniere troppo
libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, - ehi!
ehi! - le diceva; - non è questo il fare d'una par tua: se vuoi che un giorno ti
si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d'ora a star sopra di te:
ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perché il
sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte
le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l'idea che
già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre,
facevan più effetto di tutte l'altre insieme. Il contegno del principe era
abitualmente quello d'un padrone austero; ma quando si trattava dello stato futuro
de' suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un'immobilità di
risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d'una
necessità fatale.
A sei
anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla
vocazione impostale, nel monastero dove l'abbiamo veduta: e la scelta del luogo
non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre
ddla signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia
testimonianza con alcune altre indicazioni che l'anonimo lascia scappare
sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di
quel paese. Comunque sia, vi godeva d'una grandissima autorità; e pensò che lì,
meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con
quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua
perpetua dimora. Né s'ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere,
che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano, esultarono nel vedersi
offerto il pegno d'una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto
gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di
riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero
pienamente all'intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul
collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d'accordo con
le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la
signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta
all'altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella
famigliarità un po' rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano
in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di
superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina
nel laccio; ce n'eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle
quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto
ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non
s'accorgevan bene di tutti que' maneggi, parte non distinguevano quanto vi
fosse di cattivo, parte s'astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano
zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d'essere
stata, con simili arti, condotta a quello di cui s'era pentita poi, sentiva
compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e
malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto
mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine,
se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma, tra le sue
compagne d'educazione, ce n'erano alcune che sapevano d'esser destinate al
matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava
magnificamente de' suoi destini futuri di badessa, di principessa del
monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d'invidia; e
vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano
punto. All'immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare
il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti,
di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di
villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel
cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran
paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e
l'educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per
farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee
tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e
più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per
condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin
de' conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che
anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di
tutte loro; che lo poteva, pur che l'avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo
voleva; e lo voleva in fatti. L'idea della necessità del suo consenso, idea
che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo
della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua
importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più
tranquillamente l'immagini d'un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne
compariva sempre infallibilmente un'altra: che quel consenso si trattava di
negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per
dato; e, a questa idea, l'animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza
che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch'erano
ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l'invidia che, da
principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta
l'odio s'esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta
l'uniformità dell'inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere
un'intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi
intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che
le venivano accordate, e faceva sentire all'altre quella sua superiorità;
talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de' suoi timori e de' suoi
desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar
benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sé e
con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s'inoltrava in quell'età così
critica, nella quale par che entri nell'animo quasi una potenza misteriosa, che
solleva, adorna, rinvigorisce tutte l'inclinazioni, tutte l'idee, e qualche
volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva
fino allora più distintamente vagheggiato in que' sogni dell'avvenire, era lo
splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d'affettuoso, che da
prima v'era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e
a primeggiare nelle sue fantasie. S'era fatto, nella parte più riposta della
mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi
accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della
puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva
imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e
si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d'ogni genere.
Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle
feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l'avevano insegnata alla
nostra poveretta, e come essa l'aveva ricevuta, non bandiva l'orgoglio, anzi lo
santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena.
Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come
l'altre. Negl'intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e
grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l'infelice, sopraffatta da terrori
confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s'immaginava che la sua
ripugnanza al chiostro, e la resistenza all'insinuazioni de' suoi maggiori,
nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo
d'espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.
Era
legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d'essere stata
esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache, o da qualche
altro deputato a ciò, affinché fosse certo che ci andava di sua libera scelta:
e questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch'ella avesse
esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto. Quelle
monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s'obbligasse
per sempre, con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de'
momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una tal
supplica. E a fine d'indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di
ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero)
non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero
dalla sua volontà. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo
destino, che Gertrude s'era già pentita d'averla sottoscritta. Si pentiva poi
d'essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un'incessante vicenda di
sentimenti contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora
per timore d'esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per
vergogna di palesare uno sproposito. Vinse finalmente il desiderio di sfogar
l'animo, e d'accattar consiglio e coraggio. C'era un'altra legge, che una
giovine non fosse ammessa a quell'esame della vocazione, se non dopo aver
dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. Era
già scorso l'anno da che la supplica era stata mandata; e Gertrude fu avvertita
che tra poco verrebbe levata dal monastero, e condotta nella casa paterna, per
rimanervi quel mese, e far tutti i passi necessari al compimento dell'opera che
aveva di fatto cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto
ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt'altro in
testa: in vece di far gli altri passi pensava alla maniera di tirare indietro
il primo. In tali angustie, si risolvette d'aprirsi con una delle sue compagne,
la più franca, e pronta sempre a dar consigli risoluti. Questa suggerì a
Gertrude d'informar con una lettera il padre della sua nuova risoluzione;
giacché non le bastava l'animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio.
E perché i pareri gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera
fece pagar questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine. La
lettera fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e
fatta ricapitare per via d'artifizi molto studiati. Gertrude stava con
grand'ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che, alcuni
giorni dopo, la badessa, la fece venir nella sua cella, è, con un contegno di
mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno oscuro d'una gran
collera del principe, e d'un fallo ch'ella doveva aver commesso, lasciandole
però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe
dimenticato. La giovinetta intese, e non osò domandar più in là.
Venne
finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude sapesse che
andava a un combattimento, pure l'uscir di monastero, il lasciar quelle mura
nelle quali era stata ott'anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l'aperta
campagna, il riveder la città, la casa, furon sensazioni piene d'una gioia
tumultuosa. In quanto al combattimento, la poveretta, con la direzione di
quelle confidenti, aveva già prese le sue misure, e fatto, com'ora si direbbe,
il suo piano. "O mi vorranno forzare", pensava, "e io starò dura;
sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un
altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più
buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non
pretendo altro che di non esser sacrificata". Ma, come accade spesso di
simili previdenze, non avvenne né una cosa né l'altra. I giorni passavano,
senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione,
senza che le venisse fatta proposta nessuna, né con carezze, né con minacce. I
parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perché. Si
vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un'indegna: un anatema
misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia,
lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la sua
suggezione. Di rado, e solo a certe ore stabilite, era ammessa alla compagnia
de' parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran
confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l'abbandono in cui
era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa
arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o
non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o
severo. Che se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante
distinzione, insisteva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po'
d'amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto
della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c'era un mezzo
di riacquistar l'affetto della famiglia. Allora Gertrude, che non l'avrebbe
voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar
quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da
sé al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa
apparenza del torto.
Tali
sensazioni d'oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con quelle ridenti
visioni delle quali Gertrude s'era già tanto occupata, e s'occupava tuttavia,
nel segreto della sua mente. Aveva sperato che, nella splendida e frequentata
casa paterna, avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose
immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera,
come nel monastero; d'andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che,
dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l'unica necessità
che ci sarebbe stata d'uscire. La compagnia era più trista, più scarsa, meno
variata che nel monastero. A ogni annunzio d'una visita, Gertrude doveva salire
all'ultimo piano, per chiudersi con alcune vecchie donne di servizio: e lì
anche desinava, quando c'era invito. I servitori s'uniformavano, nelle maniere
e ne' discorsi, all'esempio e all'intenzioni de' padroni: e Gertrude, che, per
sua inclinazione, avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e
che, nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero
qualche dimostrazione d'affetto, come a una loro pari, e scendeva anche a mendicarne,
rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una
noncuranza manifesta, benché accompagnata da un leggiero ossequio di formalità.
Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un
rispetto, e sentiva per lei una compassione d'un genere particolare. Il
contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più
somigliante a quell'ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al
contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che
di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un'inquietudine
diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che
vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon
tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa
da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta,
sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira,
la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del
principe.
Il
terrore di Gertrude, al rumor de' passi di lui, non si può descrivere né
immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando
lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto
esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon
molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d'esser rinchiusa in
quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma
questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si
lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più
spaventoso.
Il
paggio fu subito sfrattato, com'era naturale; e fu minacciato anche a lui
qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla
dell'avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due
solenni schiaffi, per associare a quell'avventura un ricordo, che togliesse al
ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare
la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla
figlia, si disse ch'era incomodata.
Rimase
essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore
dell'avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il
testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi
a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto
tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d'un
segreto pericoloso.
Il
primo confuso tumulto di que' sentimenti s'acquietò a poco a poco; ma tornando
essi poi a uno per volta nell'animo, vi s'ingrandivano, e si fermavano a
tormentarlo più distintamente e a bell'agio. Che poteva mai esser quella
punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla
fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era
di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la
signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a
quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta
piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l'apprensione della
vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano
e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore
tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava
che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di
chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un
nulla. L'immagine di colui ch'era stato la prima origine di tutto lo scandolo,
non lasciava di venire spesso anch'essa ad infestar la povera rinchiusa: e
pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così
diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perché non poteva
separarlo da essi, né tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza
che subito non le s'affacciassero i dolori presenti che n'erano la conseguenza,
cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a rispingerne la rimembranza, a
divezzarsene. Né più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e
brillanti fantasie d'una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a
ogni probabilità dell'avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse
immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il
monastero, quando si risolvesse d'entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non
poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata
in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i
pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell'abisso in cui
Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti,
la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno
zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli
a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una
tenerezza fantastica di divozione; talvolta l'orgoglio amareggiato e irritato
dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da
lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora
svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono
di protezione, più odioso ancora dell'insulto. In tali diverse occasioni, il
desiderio che Gertrude sentiva d'uscir dall'unghie di colei, e di comparirle in
uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio
abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che
potesse condurre ad appagarlo.
In capo
a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata
ed invelenita all'eccesso, per un di que' dispetti della sua guardiana, andò a
cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani,
stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno
prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d'esser trattata
diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava
spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli
amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un
pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d'espiarlo. Non
già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c'era
entrata con tanto ardore. S'alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella
penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d'entusiasmo e
d'abbattimento, d'afflizione e di speranza, implorando il perdono, e
mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi
doveva accordarlo.
Vi son
de' momenti in cui l'animo, particolarmente de' giovani, è disposto in maniera
che ogni poco d'istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un'apparenza di
bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s'abbandona mollemente sul
suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim'aria che gli
aliti punto d'intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare
con timido rispetto, son quelli appunto che l'astuzia interessata spia
attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.
Al
legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue
antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e
aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo. Gertrude
comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in
ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: - perdono! - Egli le fece
cenno che s'alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il
perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch'era cosa troppo agevole e
troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in
somma bisognava meritarlo. Gertrude domando, sommessamente e tremando, che cosa
dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il
titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del
fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull'animo della poveretta, come
lo scorrere d'una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che,
quand'anche... caso mai... che avesse avuto prima qualche intenzione di
collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile;
giacché a un cavalier d'onore, com'era lui, non sarebbe mai bastato l'animo di
regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La
misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a
grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c'era rimedio
e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più
chiaramente indicato: ch'essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come
un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei...
- Ah
sì! - esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in
quel punto da una tenerezza istantanea.
- Ah!
lo capite anche voi, - riprese incontanente il principe. - Ebbene, non si parli
più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole,
conveniente, che vi rimanesse; ma perché l'avete preso di buona voglia, e con
buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca
a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne
prendo io la cura -. Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino,
e al servitore che entrò, disse: - la principessa e il principino subito -. E
seguitò poi con Gertrude: - voglio metterli subito a parte della mia
consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene.
Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto
il padre amoroso.
A
queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel
sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse
maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del
principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così
condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle
menomamente.
Dopo
pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in
viso, incerti e maravigliati. Ma il principe, con un contegno lieto e
amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, - ecco, - disse, - la pecora
smarrita: e sia questa l'ultima parola che richiami triste memorie. Ecco la
consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che
noi desideravamo per suo bene, l'ha voluto lei spontaneamente. È risoluta, m'ha
fatto intendere che è risoluta... - A questo passo, alzò essa verso il padre uno
sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma
egli proseguì francamente: - che è risoluta di prendere il velo.
-
Brava! bene! - esclamarono, a una voce, la madre e il figlio, e l'uno dopo
l'altra abbracciaron Gertrude; la quale ricevette queste accoglienze con
lacrime, che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il
principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la
sorte della figlia. Parlò delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e
nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della
famiglia; che, appena l'età l'avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima
dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il
principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi:
Gertrude era come dominata da un sogno.
-
Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla
badessa, - disse il principe. - Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il
monastero saprà valutar l'onore che Gertrude gli fa. Anzi... perché non ci
andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po' d'aria.
-
Andiamo pure, - disse la principessa.
- Vo a
dar gli ordini, - disse il principino.
- Ma...
- proferì sommessamente Gertrude.
-
Piano, piano, - riprese il principe: - lasciam decidere a lei: forse oggi non
si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite:
volete che andiamo oggi o domani?
-
Domani, - rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora di far
qualche cosa, prendendo un po' di tempo.
-
Domani, - disse solennemente il principe: - ha stabilito che si vada domani.
Intanto io vo dal vicario delle monache, a fissare un giorno per l'esame -.
Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione)
dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni.
In
tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe un minuto di bene. Avrebbe
desiderato riposar l'animo da tante commozioni, lasciar, per dir così, chiarire
i suoi pensieri, render conto a se stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che le
rimaneva da fare, sapere ciò che volesse, rallentare un momento quella macchina
che, appena avviata, andava così precipitosamente; ma non ci fu verso.
L'occupazioni si succedevano senza interruzione, s'incastravano l'una con
l'altra. Subito dopo partito il principe, fu condotta nel gabinetto della
principessa, per essere, sotto la sua direzione, pettinata e rivestita dalla
sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l'ultima mano, che furon
avvertite ch'era in tavola. Gertrude passò in mezzo agl'inchini della servitù,
che accennava di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più
prossimi, ch'erano stati invitati in fretta, per farle onore, e per rallegrarsi
con lei de' due felici avvenimenti, la ricuperata salute, e la spiegata
vocazione.
La
sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire,
fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere
a' complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna
delle sue risposte era come un'accettazione e una conferma; ma come rispondere
diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l'ora della trottata. Gertrude
entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch'erano stati al pranzo. Dopo un
solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio
occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in
carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a
Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual
pareva che, più dell'altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni
livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora
tal altra, si voltò a lei tutt'a un tratto, e le disse: - ah furbetta! voi date
un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate
negl'impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in
paradiso in carrozza.
Sul
tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce,
avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti
e gli amici venivano a fare il loro dovere. S'entrò nella sala della
conversazione. La sposina ne fu l'idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la
voleva per sé: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi
parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente,
chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapore, della gran
figura ch'essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora
avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano spiando l'occasione di farsi
innanzi, e sentivano un certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro
dovere. A poco a poco, la compagnia s'andò dileguando; tutti se n'andarono
senza rimorso, e Gertrude rimase sola co' genitori e il fratello.
-
Finalmente, - disse il principe, - ho avuto la consolazione di veder mia figlia
trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s'è portata benone,
e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura, e a sostenere
il decoro della famiglia.
Si cenò
in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina seguente.
Gertrude
contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po' gonfiata da tutti que'
complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua
carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che
in una cosa, volle approfittare dell'auge in cui si trovava, per acquietare
almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran
ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere.
- Come!
- disse il principe: - v'ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò
il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi
siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve
vedersi intorno una persona che le dispiaccia -. Così detto, fece chiamare
un'altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e
assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così
poco sugo, in paragone del desiderio che n'aveva avuto. Ciò che, anche suo
malgrado, s'impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de' gran
progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il
pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di
quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s'era sentita d'avere.
La
donna che andò ad accompagnarla in camera, era una vecchia di casa, stata già
governante del principino, che aveva ricevuto appena uscito dalle fasce, e
tirato su fino all'adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue
compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione
fatta in quel giorno, come d'una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo
divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della
vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s'eran trovate
ben contente d'esser monache, perché, essendo di quella casa, avevan sempre
goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal
loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale,
non c'eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un
giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva
esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto
il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude,
quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La
giovinezza e la fatica erano state più forti de' pensieri. Il sonno fu
affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce
strillante della vecchia, che venne a svegliarla, perché si preparasse per la
gita di Monza.
-
Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e
pettinata, ci vorrà un'ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e
l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito. Il signor principino è già sceso
alle scuderie, poi è tornato su, ed è all'ordine per partire quando si sia.
Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io
posso dirlo, che l'ho portato in collo. Ma quand'è pronto, non bisogna farlo
aspettare, perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora
s'impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e
poi questa volta avrebbe anche un po' di ragione, perché s'incomoda per lei.
Guai chi lo tocca in que' momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorché per il
signor principe. Ma finalmente non ha sopra di sé che il signor principe, e un
giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però. Lesta,
lesta, signorina! Perché mi guarda così incantata? A quest'ora dovrebbe esser
fuor della cuccia.
All'immagine
del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s'erano affollati alla
mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere
all'apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e
comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta
sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata:
il che, a que' tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile.
Quando
vennero a avvertir ch'era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte, e
le disse: - orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi
medesima. Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero e nel paese dove
siete destinata a far la prima figura. V'aspettano... - È inutile dire che il
principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. - V'aspettano,
e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi
domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d'essere
ammessa a vestir l'abito in quel monastero, dove siete stata educata così
amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite
quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s'avesse a dire che v'hanno
imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla
dell'accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò
non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate
vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che, in quel
luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi.
Senza
aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il
principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza.
Gl'impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente
per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione,
durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l'istruzioni
alla figlia, e le ripeté più volte la formola della risposta. All'entrare in
Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata
per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza,
recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s'andò quasi di passo
al monastero, tra gli sguardi de' curiosi, che accorrevano da tutte le parti
sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a
quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale
di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso
alla poveretta l'obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di
tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a' quali essa,
quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi,
ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per
mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s'entrò in un altro,
e lì si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da
monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre
monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte
sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz'aria alcuni
occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più
coraggiose tra l'educande, che, ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca,
eran riuscite a farsi un po' di pertugio, per vedere anch'esse qualche cosa. Da
quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in
segno d'accoglienza e di gioia. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a
viso con la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera
tra il giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove
non c'era chi le potesse negar nulla.
- Son
qui..., - cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano
decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con
gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di
quelle sue note compagne, che la guardava con un'aria di compassione e di malizia
insieme, e pareva che dicesse: ah! la c'è cascata la brava. Quella vista,
risvegliando più vivi nell'animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì
anche un po' di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta
qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo
sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su
quella un'inquietudine così cupa, un'impazienza così minaccevole, che, risoluta
per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto
terribile, proseguì: - son qui a chiedere d'esser ammessa a vestir l'abito
religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente -.
La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che
le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale
doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la
licenza de' superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s'avevan
per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa
risposta; e che intanto nessuna regola proibiva alla badessa e alle suore di
manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S'alzò allora un
frastono confuso di congratulazioni e d'acclamazioni. Vennero subito gran
guantiere colme di dolci, che furon presentati, prima alla sposina, e dopo ai
parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre complimentavan la
madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse
venire alla grata del parlatorio, dove l'attendeva. Era accompagnata da due
anziane; e quando lo vide comparire, - signor principe, - disse: - per ubbidire
alle regole... per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo
caso... pure devo dirle... che, ogni volta che una figlia chiede d'essere
ammessa a vestir l'abito,... la superiora, quale io sono indegnamente,... è
obbligata d'avvertire i genitori... che se, per caso... forzassero la volontà
della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà...
-
Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo
giusto... Ma lei non può dubitare... - Oh! pensi, signor principe,... ho
parlato per obbligo preciso,... del resto...
-
Certo, certo, madre badessa.
Barattate
queste poche parole, i due interlocutori s'inchinarono vicendevolmente, e si
separarono, come se a tutt'e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono
a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l'uno fuori, l'altra dentro la soglia
claustrale. Dato luogo a un po' d'altre ciarle, - Oh via, - disse il principe:
- Gertrude potrà presto godersi a suo bell'agio la compagnia di queste madri.
Per ora le abbiamo incomodate abbastanza -. Così detto, fece un inchino; la
famiglia si mosse con lui; si rinnovarono i complimenti, e si partì.
Gertrude,
nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata del passo che
aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e
contro sé stessa, faceva tristamente il conto dell'occasioni, che le rimanevano
ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sé stessa che, in
questa, o in quella, o in quell'altra, sarebbe più destra e più forte. Con
tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel
cipiglio del padre; talché, quando, con un'occhiata datagli alla sfuggita, poté
chiarirsi che sul volto di lui non c'era più alcun vestigio di collera, quando
anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e
fu, per un istante, tutta contenta.
Appena
arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite,
poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa, il
principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina. Così si
chiamava una dama, la quale, pregata da' genitori, diventava custode e scorta
della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l'entratura nel
monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le
conversazioni, le ville, i santuari: tutte le cose in somma più notabili della
città e de' contorni; affinché le giovani, prima di proferire un voto
irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un calcio. - Bisognerà pensare a una
madrina, - disse il principe: - perché domani verrà il vicario delle monache, per
la formalità dell'esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo,
per esser accettata dalle madri -. Nel dir questo, s'era voltato verso la
principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: -
ci sarebbe... - Ma il principe interruppe: - No, no, signora principessa: la
madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benché l'uso universale dia
la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che
merita bene che si faccia un'eccezione per lei -. E qui, voltandosi a Gertrude,
in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: - ognuna delle dame che
si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per
esser madrina d'una figlia della nostra casa; non ce n'è nessuna, crederei, che
non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi.
Gertrude
vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso; ma la proposta
veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile, poteva
parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel
passo; e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella
cioè che le aveva fatto più carezze, che l'aveva più lodata, che l'aveva
trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne' primi
momenti d'una conoscenza, contraffanno una antica amicizia. - Ottima scelta, -
disse il principe, che desiderava e aspettava appunto quella. Fosse arte o
caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti facendovi scorrere
davanti agli occhi le carte d'un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi
ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che ne vediate una sola.
Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l'aveva tanto
occupata di sé, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per
pensarne un'altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da
molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero:
quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale
che s'interessasse per quella cara Gertrude, niente meno de' suoi parenti più
prossimi.
Il
giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell'esaminatore che doveva
venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quella occasione così
decisiva, per tornare indietro, e in qual maniera, il principe la fece
chiamare. - Orsù, figliuola, - le disse: - finora vi siete portata
egregiamente: oggi si tratta di coronar l'opera. Tutto quel che s'è fatto
finora, s'è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche
dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi;
ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate.
Quell'uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla
vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perché e il per
come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa
quanto. Sarebbe un'uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un
altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte,
ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il
mio onore, potrebbe far credere ch'io avessi presa una vostra leggerezza per
una ferma risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi... che so io?
In questo caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partiti
dolorosi: o lasciar che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta:
partito che non può stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. O svelare
il vero motivo della vostra risoluzione e... - Ma qui, vedendo che Gertrude era
diventata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contraeva,
come le foglie d'un fiore, nell'afa che precede la burrasca, troncò quel
discorso, e, con aria serena, riprese: - via, via, tutto dipende da voi, dal
vostro buon giudizio. So che n'avete molto, e non siete ragazza da guastar
sulla fine una cosa fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne
parli più; e restiam d'accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera
di non far nascer dubbi nella testa di quell'uomo dabbene. Così anche voi ne
sarete fuori più presto -. E qui, dopo aver suggerita qualche risposta
all'interrogazioni più probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e
de' godimenti ch'eran preparati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in
quello, fin che venne un servitore ad annunziare il vicario. Il principe
rinnovò in fretta gli avvertimenti più importanti, e lasciò la figlia sola con
lui, com'era prescritto.
L'uomo
dabbene veniva con un po' d'opinione già fatta che Gertrude avesse una gran
vocazione al chiostro: perché così gli aveva detto il principe, quando era
stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che la diffidenza
era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d'andar
adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le
preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d'una
persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la
mente di chi le ascolta.
Dopo i
primi complimenti, - signorina, - le disse, - io vengo a far la parte del
diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per
certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se le
ha ben considerate. Si contenti ch'io le faccia qualche interrogazione.
- Dica
pure, - rispose Gertrude.
Il buon
prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle regole. -
Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non
sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s'è fatto uso di nessuna
autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un
uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le
venga usata violenza in nessun modo.
La vera
risposta a una tale domanda s'affacciò subito alla mente di Gertrude, con
un'evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una
spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia...
L'infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un'altra
risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel
supplizio, la più contraria al vero. - Mi fo monaca, - disse, nascondendo il
suo turbamento, - mi fo monaca, di mio genio, liberamente.
- Da
quanto tempo le è nato codesto pensiero? - domandò ancora il buon prete.
- L'ho
sempre avuto, - rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a
mentire contro se stessa.
- Ma
quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?
Il buon
prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran
forza per non lasciar trasparire sul viso l'effetto che quelle parole le
producevano nell'animo. - Il motivo, - disse, - è di servire a Dio, e di
fuggire i pericoli del mondo.
- Non
sarebbe mai qualche disgusto? qualche... mi scusi... capriccio? Alle volte, una
cagione momentanea può fare un'impressione che par che deva durar sempre; e
quando poi la cagione cessa, e l'animo si muta, allora...
- No,
no, - rispose precipitosamente Gertrude: - la cagione è quella che le ho detto.
Il
vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione
che ce ne fosse bisogno, insistette con le domande; ma Gertrude era determinata
d'ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render
consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così
lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch'egli
poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra
di lei, e la sua protezione. Partito che fosse, essa rimarrebbe sola col
principe. E qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete
non n'avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non
avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione
tranquilla e misurata, che, in generale, s'accorda, come per cortesia, a chi
abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno. L'esaminatore fu prima
stanco d'interrogare, che la sventurata di mentire: e, sentendo quelle risposte
sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza,
mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo,
scusa d'aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva
più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò.
Attraversando
le sale per uscire, s'abbatté nel principe, il quale pareva che passasse di là
a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva
trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione
molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità
consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di
promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera:
così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano.
Noi non
seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E
neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell'animo suo
in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni, troppo
monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L'amenità de' luoghi, la
varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in
là all'aria aperta, le rendevan più odiosa l'idea del luogo dove alla fine si
smonterebbe per l'ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora eran
l'impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle
spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato, le
cagionava un'invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l'aspetto di
qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo,
dovesse trovarsi il colmo d'ogni felicità. Talvolta la pompa de' palazzi, lo
splendore degli addobbi, il brulichìo e il fracasso giulivo delle feste, le
comunicavano un'ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a se
stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piuttosto che tornare all'ombra fredda e
morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione
più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe.
Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que' godimenti,
gliene rendeva arnaro e penoso quel piccol saggio; come l'infermo assetato
guarda con rabbia, e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d'acqua che il
medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata
l'attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per
l'accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com'era da
aspettarsi, i due terzi de' voti segreti ch'eran richiesti da' regolamenti; e
Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese
allora d'entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c'era
sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua
volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l'abito. Dopo dodici mesi
di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della
professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più
inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo
ripeté, e fu monaca per sempre.
È una
delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter
indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia
termine, ricorra ad essa. Se al passato c'è rimedio, essa lo prescrive, lo
somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non
c'è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in
proverbio, di necessita virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch'è stato
intrapreso per leggerezza; piega l'animo ad abbracciar con propensione ciò che
è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è
irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente,
tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque
laberinto, da qualunque precipizio, l'uomo capiti ad essa, e vi faccia un
passo, può d'allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar
lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere
una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l'infelice si
dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le
scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l'abborrimento dello
stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai
soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell'animo suo. Rimasticava
quell'amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le
quali si trovava lì; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che
aveva fatto con l'opera; accusava sé di dappocaggine, altri di tirannia e di
perfidia; e si rodeva. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava
una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava, in certi
momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza,
potesse liberamente godersi nel mondo que' doni.
La
vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era
odiosa. Si ricordava l'arti e i raggiri che avevan messi in opera, e le pagava
con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti. A
quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perché il principe aveva ben
voluto tiranneggiar la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro;
ma ottenuto l'intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri
pretendesse d'aver ragione contro il suo sangue: e ogni po' di rumore che
avesser fatto, poteva esser cagione di far loro perdere quella gran protezione,
o cambiar per avventura il protettore in nemico. Pare che Gertrude avrebbe
dovuto sentire una certa propensione per l'altre suore, che non avevano avuto
parte in quegl'intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l'amavano
come tale; e pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esempio come anche
là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene. Ma queste pure le erano
odiose, per un altro verso. La loro aria di pietà e di contentezza le riusciva
come un rimprovero della sua inquietudine, e della sua condotta bisbetica; e non
lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come pinzochere, o
di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse
saputo o indovinato che le poche palle nere, trovate nel bossolo che decise
della sua accettazione, c'erano appunto state messe da quelle.
Qualche
consolazione le pareva talvolta di trovar nel comandare, nell'esser corteggiata
in monastero, nel ricever visite di complimento da persone di fuori, nello
spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar
la signora; ma quali consolazioni! Il cuore, trovandosene così poco appagato,
avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi, e goder con esse le
consolazioni della religione; ma queste non vengono se non a chi trascura
quell'altre: come il naufrago, se vuole afferrar la tavola che può condurlo in
salvo sulla riva, deve pure allargare il pugno, e abbandonar l'alghe, che aveva
prese, per una rabbia d'istinto.
Poco
dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell'educande; ora
pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue
antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di
quel tempo; e, in un modo o in un altro, l'allieve dovevan portarne il peso.
Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel
mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un
astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava,
faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno.
Chi avesse sentito, in que' momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per
ogni piccola scappatella, l'avrebbe creduta una donna d'una spiritualità
salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per
la regola, per l'ubbidienza, scoppiava in accessi d'umore tutto opposto.
Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma
l'eccitava; si mischiava ne' loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a
parte de' loro discorsi, e li spingeva più in là dell'intenzioni con le quali
esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo
della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di
commedia; contraffaceva il volto d'una monaca, l'andatura d'un'altra: rideva
allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di
prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, né occasione di far di
più; quando la sua disgrazia volle che un'occasione si presentasse.
Tra
l'altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di
non poter esser badessa, c'era anche quello di stare in un quartiere a parte.
Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine,
scellerato di professione, uno de' tanti, che, in que' tempi, e co' loro
sgherri, e con l'alleanze d'altri scellerati, potevano, fino a un certo segno,
ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina
Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un
cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o
girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e
dall'empietà dell'impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata
rispose.
In que'
primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vòto
uggioso dell'animo suo s'era venuta a infondere un'occupazione forte, continua
e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda
ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per
dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran
novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt'a un tratto, più regolare, più
tranquilla, smesse gli scherni e il brontolìo, si mostrò anzi carezzevole e
manierosa, dimodoché le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice;
lontane com'erano dall'immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella
nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all'antiche magagne.
Quell'apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò
gran tempo, almeno con quella continuità e uguaglianza: ben presto tornarono in
campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l'imprecazioni
e gli scherni contro la prigione claustrale, e talvolta espressi in un
linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di
queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle
dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio
tutti questi alt'e bassi, e gli attribuivano all'indole bisbetica e leggiera
della signora.
Per
qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la
signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pettegolezzo, si
lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa,
dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente
la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e, che, a tempo
e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace.
Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina,
a' suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è
chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira,
dalla cima al fondo; non c'è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si
sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel
muro dell'orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là.
Si fecero gran ricerche in Monza e ne' contorni, e principalmente a Meda, di
dov'era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n'ebbe mai la più
piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar
lontano, si fosse scavato vicino. Dopo molte maraviglie, perché nessuno
l'avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva
essere andata lontano, lontano. E perché scappò detto a una suora: - s'è
rifugiata in Olanda di sicuro, - si disse subito, e si ritenne per un pezzo,
nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. Non pare però che la
signora fosse di questo parere. Non già che mostrasse di non credere, o
combattesse l'opinion comune, con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo,
ragioni non furono mai così ben dissimulate; né c'era cosa da cui s'astenesse
più volentieri che da rimestar quella storia, cosa di cui si curasse meno che
di toccare il fondo di quel mistero. Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci
pensava. Quante volte al giorno l'immagine di quella donna veniva a cacciarsi
d'improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva moversi! Quante
volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che
averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte,
in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe
voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto
minacciare, piuttosto che aver sempre nell'intimo dell'orecchio mentale il
susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una
pertinacia, con un'insistenza infaticabile, che nessuna persona vivente non
ebbe mai!
Era
scorso circa un anno dopo quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora,
ed ebbe con lei quel colloquio al quale siam rimasti col racconto. La signora
moltiplicava le domande intorno alla persecuzione di don Rodrigo, e entrava in
certi particolari, con una intrepidezza, che riuscì e doveva riuscire più che
nuova a Lucia, la quale non aveva mai pensato che la curiosità delle monache
potesse esercitarsi intorno a simili argomenti. I giudizi poi che quella
frammischiava all'interrogazioni, o che lasciava trasparire, non eran meno
strani. Pareva quasi che ridesse del gran ribrezzo che Lucia aveva sempre avuto
di quel signore, e domandava se era un mostro, da far tanta paura: pareva quasi
che avrebbe trovato irragionevole e sciocca la ritrosia della giovine, se non
avesse avuto per ragione la preferenza data a Renzo. E su questo pure
s'avanzava a domande, che facevano stupire e arrossire l'interrogata.
Avvedendosi poi d'aver troppo lasciata correr la lingua dietro agli svagamenti
del cervello, cercò di correggere e d'interpretare in meglio quelle sue ciarle;
ma non poté fare che a Lucia non ne rimanesse uno stupore dispiacevole, e come
un confuso spavento. E appena poté trovarsi sola con la madre, se n'aprì con
lei; ma Agnese, come più esperta, sciolse, con poche parole, tutti que' dubbi,
e spiegò tutto il mistero. - Non te ne far maraviglia, - disse: - quando avrai
conosciuto il mondo quanto me, vedrai che non son cose da farsene maraviglia. I
signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han tutti un
po' del matto. Convien lasciarli dire, principalmente quando s'ha bisogno di
loro; far vista d'ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste.
Hai sentito come m'ha dato sulla voce, come se avessi detto qualche gran
sproposito? Io non me ne son fatta caso punto. Son tutti così. E con tutto ciò,
sia ringraziato il cielo, che pare che questa signora t'abbia preso a ben
volere, e voglia proteggerci davvero. Del resto, se camperai, figliuola mia, e
se t'accaderà ancora d'aver che fare con de' signori, ne sentirai, ne sentirai,
ne sentirai.
Il
desiderio d'obbligare il padre guardiano, la compiacenza di proteggere, il
pensiero del buon concetto che poteva fruttare la protezione impiegata così
santamente, una certa inclinazione per Lucia, e anche un certo sollievo nel far
del bene a una creatura innocente, nel soccorrere e consolare oppressi, avevan
realmente disposta la signora a prendersi a petto la sorte delle due povere
fuggitive. A sua richiesta, e a suo riguardo, furono alloggiate nel quartiere
della fattoressa attiguo al chiostro, e trattate come se fossero addette al
servizio del monastero. La madre e la figlia si rallegravano insieme d'aver
trovato così presto un asilo sicuro e onorato. Avrebber anche avuto molto
piacere di rimanervi ignorate da ogni persona; ma la cosa non era facile in un
monastero: tanto più che c'era un uomo troppo premuroso d'aver notizie d'una di
loro, e nell'animo del quale, alla passione e alla picca di prima s'era
aggiunta anche la stizza d'essere stato prevenuto e deluso. E noi, lasciando le
donne nel loro ricovero, torneremo al palazzotto di costui, nell'ora in cui
stava attendendo l'esito della sua scellerata spedizione.
Come un
branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati
verso il padrone, co' musi bassi, e con le code ciondoloni, così, in quella
scompigliata notte, tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli
camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata
dell'ultimo piano, che rispondeva sulla spianata. Ogni tanto si fermava,
tendeva l'orecchio, guardava dalle fessure dell'imposte intarlate, pieno
d'impazienza e non privo d'inquietudine, non solo per l'incertezza della
riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perché era la più grossa e la
più arrischiata a cui il brav'uomo avesse ancor messo mano. S'andava però
rassicurando col pensiero delle precauzioni prese per distrugger gl'indizi, se
non i sospetti. "In quanto ai sospetti", pensava, "me ne rido.
Vorrei un po' sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c'è o
non c'è una ragazza. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga
il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la
giustizia! Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di
costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente
perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno. Via, via,
niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà s'io fo ciarle o
fatti. E poi... se mai nascesse qualche imbroglio... che so io? qualche nemico
che volesse cogliere quest'occasione,... anche Attilio saprà consigliarmi: c'è
impegnato l'onore di tutto il parentado". Ma il pensiero sul quale si
fermava di più, perché in esso trovava insieme un acquietamento de' dubbi, e un
pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse
che adoprerebbe per abbonire Lucia. "Avrà tanta paura di trovarsi qui
sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che... il viso più umano qui son io,
per bacco... che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei a pregare; e se
prega".
Mentre
fa questi bei conti, sente un calpestìo, va alla finestra, apre un poco, fa
capolino; son loro. "E la bussola? Diavolo! dov'è la bussola? Tre, cinque,
otto: ci son tutti; c'è anche il Griso; la bussola non c'è: diavolo! diavolo!
il Griso me ne renderà conto".
Entrati
che furono, il Griso posò in un angolo d'una stanza terrena il suo bordone,
posò il cappellaccio e il sanrocchino, e, come richiedeva la sua carica, che in
quel momento nessuno gl'invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo.
Questo l'aspettava in cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e
sguaiata presenza del birbone deluso, - ebbene, - gli disse, o gli gridò: -
signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame?
- L'è
dura, - rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, - l'è dura
di ricever de' rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il
proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.
- Com'è
andata? Sentiremo, sentiremo, - disse don Rodrigo, e s'avviò verso la sua
camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva
disposto, fatto, veduto e non veduto, sentito, temuto, riparato; e la fece con
quell'ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello
sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee.
- Tu
non hai torto, e ti sei portato bene, - disse don Rodrigo: - hai fatto quello
che si poteva; ma... ma, che sotto questo tetto ci fosse una spia! Se c'è, se
lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c'è, te l'accomodo io; ti so dir io,
Griso, che lo concio per il dì delle feste.
- Anche
a me, signore, - disse il Griso, - è passato per la mente un tal sospetto: e se
fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor
padrone lo deve metter nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento
di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me a pagarlo. Però, da
varie cose m'è parso di poter rilevare che ci dev'essere qualche altro intrigo,
che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne verrà in chiaro.
- Non
siete stati riconosciuti almeno?
Il
Griso rispose che sperava di no; e la conclusione del discorso fu che don
Rodrigo gli ordinò, per il giorno dopo, tre cose che colui avrebbe sapute ben
pensare anche da sé. Spedire la mattina presto due uomini a fare al console
quella tale intimazione, che fu poi fatta, come abbiam veduto; due altri al
casolare a far la ronda, per tenerne lontano ogni ozioso che vi capitasse, e
sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla notte prossima, in cui si
manderebbe a prenderla; giacché per allora non conveniva fare altri movimenti
da dar sospetto; andar poi lui, e mandare anche altri, de' più disinvolti e di
buona testa, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno
all'imbroglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n'andò a
dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle
quali traspariva evidentemente l'intenzione di risarcirlo degl'improperi
precipitati coi quali lo aveva accolto.
Va a
dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende
tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader
sotto l'unghie de' villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna
honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in
quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere,
in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla
prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora:
che un giorno avrai forse a somministrarcene un'altra prova, e più notabile di
questa.
La
mattina seguente, il Griso era fuori di nuovo in faccende, quando don Rodrigo
s'alzò. Questo cercò subito del conte Attilio, il quale, vedendolo spuntare,
fece un viso e un atto canzonatorio, e gli gridò: - san Martino!
- Non
so cosa vi dire, - rispose don Rodrigo, arrivandogli accanto: - pagherò la
scommessa; ma non è questo quel che più mi scotta. Non v'avevo detto nulla,
perche, lo confesso, pensavo di farvi rimanere stamattina. Ma... basta, ora vi
racconterò tutto.
- Ci ha
messo uno zampino quel frate in quest'affare, - disse il cugino, dopo aver
sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così
balzano. - Quel frate, - continuò, - con quel suo fare di gatta morta, e con
quelle sue proposizioni sciocche, io l'ho per un dirittone, e per un
impiccione. E voi non vi siete fidato di me, non m'avete mai detto chiaro cosa
sia venuto qui a impastocchiarvi l'altro giorno -. Don Rodrigo riferì il
dialogo. - E voi avete avuto tanta sofferenza? - esclamò il conte Attilio: - e
l'avete lasciato andare com'era venuto?
- Che
volevate ch'io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d'Italia?
- Non
so, - disse il conte Attilio, - se, in quel momento, mi sarei ricordato che ci
fossero al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, anche
nelle regole della prudenza, manca la maniera di prendersi soddisfazione anche
d'un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il
corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro.
Basta; ha scansato la punizione che gli stava più bene; ma lo prendo io sotto
la mia protezione, e voglio aver la consolazione d'insegnargli come si parla
co' pari nostri.
- Non
mi fate peggio.
-
Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.
- Cosa
pensate di fare?
- Non
lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e... il signor
conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Caro signor
conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un
politicone di quel calibro! Doman l'altro sarò a Milano, e, in una maniera o in
un'altra, il frate sarà servito.
Venne
intanto la colazione, la quale non interruppe il discorso d'un affare di
quell'importanza. Il conte Attilio ne parlava con disinvoltura; e, sebbene ci
prendesse quella parte che richiedeva la sua amicizia per il cugino, e l'onore
del nome comune, secondo le idee che aveva d'amicizia e d'onore, pure ogni
tanto non poteva tenersi di non rider sotto i baffi, di quella bella riuscita.
Ma don Rodrigo, ch'era in causa propria, e che, credendo di far quietamente un
gran colpo, gli era andato fallito con fracasso, era agitato da passioni più
gravi, e distratto da pensieri più fastidiosi. - Di belle ciarle, - diceva, -
faranno questi mascalzoni, in tutto il contorno. Ma che m'importa? In quanto
alla giustizia, me ne rido: prove non ce n'è; quando ce ne fosse, me ne riderei
ugualmente: a buon conto, ho fatto stamattina avvertire il console che guardi
bene di non far deposizione dell'avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le
ciarle, quando vanno in lungo, mi seccano. È anche troppo ch'io sia stato
burlato così barbaramente.
- Avete
fatto benissimo, - rispondeva il conte Attilio. - Codesto vostro podestà...
gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d'un podestà... è poi un
galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s'ha che fare con
persone tali, bisogna aver più riguardo di non metterle in impicci. Se un
mascalzone di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben
intenzionato, bisogna pure che...
- Ma
voi, - interruppe, con un po' di stizza, don Rodrigo, - voi guastate le mie faccende,
con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo
anche, all'occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e
ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo!
-
Sapete, cugino, - disse guardandolo, maravigliato, il conte Attilio, - sapete,
che comincio a credere che abbiate un po' di paura? Mi prendete sul serio anche
il podestà...
- Via
via, non avete detto voi stesso che bisogna tenerlo di conto?
- L'ho
detto: e quando si tratta d'un affare serio, vi farò vedere che non sono un
ragazzo. Sapete cosa mi basta l'animo di far per voi? Son uomo da andare in
persona a far visita al signor podestà. Ah! sarà contento dell'onore? E son
uomo da lasciarlo parlare per mezz'ora del conte duca, e del nostro signor
castellano spagnolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di
quelle così massicce. Butterò poi là qualche parolina sul conte zio del
Consiglio segreto: e sapete che efletto fanno quelle paroline nell'orecchio del
signor podestà. Alla fin de' conti, ha più bisogno lui della nostra protezione,
che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e ci anderò, e ve lo lascerò
meglio disposto che mai.
Dopo
queste e altre simili parole, il conte Attilio uscì, per andare a caccia; e don
Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno del Griso. Venne costui
finalmente, sull'ora del desinare, a far la sua relazione.
Lo
scompiglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre
persone da un paesello era un tal avvenimento, che le ricerche, e per premura e
per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e
dall'altra parte, gl'informati di qualche cosa eran troppi, per andar tutti
d'accordo a tacer tutto. Perpetua non poteva farsi veder sull'uscio, che non
fosse tempestata da quello e da quell'altro, perché dicesse chi era stato a far
quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, ripensando a tutte le circostanze
del fatto, e raccapezzandosi finalmente ch'era stata infinocchiata da Agnese,
sentiva tanta rabbia di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d'un po' di
sfogo. Non già che andasse lamentandosi col terzo e col quarto della maniera
tenuta per infinocchiar lei: su questo non fiatava; ma il tiro fatto al suo
povero padrone non lo poteva passare affatto sotto silenzio; e sopra tutto, che
un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quel giovine dabbene, da
quella buona vedova, da quella madonnina infilzata. Don Abbondio poteva ben
comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che stesse zitta; lei poteva
bene ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e
tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera
donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che
grilla e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme
all'intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di
qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è.
Gervaso, a cui non pareva vero d'essere una volta più informato degli altri, a
cui non pareva piccola gloria l'avere avuta una gran paura, a cui, per aver
tenuto dl mano a una cosa che puzzava di criminale, pareva d'esser diventato un
uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava
seriamente all'inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli
comandasse, co' pugni sul viso, di non dir nulla a nessuno, pure non ci fu
verso di soffogargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio, anche lui, dopo
essere stato quella notte fuor di casa in ora insolita, tornandovi, con un
passo e con un sembiante insolito, e con un'agitazion d'animo che lo disponeva
alla sincerità, non poté dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era
muta. Chi parlò meno, fu Menico; perché, appena ebbe raccontata ai genitori la
storia e il motivo della sua spedizione, parve a questi una cosa così terribile
che un loro figliuolo avesse avuto parte a buttare all'aria un'impresa di don
Rodrigo, che quasi quasi non lasciaron finire al ragazzo il suo racconto. Gli
fecero poi subito i più forti e minacciosi comandi che guardasse bene di non
far neppure un cenno di nulla: e la mattina seguente, non parendo loro
d'essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa, per
quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? essi medesimi poi,
chiacchierando con la gente del paese, e senza voler mostrar di saperne più di
loro, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de' nostri tre poveretti,
e del come, e del perché, e del dove, aggiungevano, come cosa conosciuta, che
s'eran rifugiati a Pescarenico. Così anche questa circostanza entrò ne'
discorsi comuni.
Con
tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e cuciti come s'usa, e con la
frangia che ci s'attacca naturalmente nel cucire, c'era da fare una storia
d'una certezza e d'una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più
critico. Ma quella invasion de' bravi, accidente troppo grave e troppo rumoroso
per esser lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po' positiva,
quell'accidente era ciò che imbrogliava tutta la storia. Si mormorava il nome
di don Rodrigo: in questo andavan tutti d'accordo; nel resto tutto era oscurità
e congetture diverse. Si parlava molto de' due bravacci ch'erano stati veduti
nella strada, sul far della sera, e dell'altro che stava sull'uscio
dell'osteria; ma che lume si poteva ricavare da questo fatto così asciutto? Si
domandava bene all'oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l'oste, a
dargli retta, non sl rammentava neppure se avesse veduto gente quella sera; e
badava a dire che l'osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le
teste, e disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da
Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che se n'era
andato con loro, o che essi avevan portato via. Cos'era venuto a fare? Era
un'anima del purgatorio, comparsa per aiutar le donne; era un'anima dannata
d'un pellegrino birbante e impostore, che veniva sempre di notte a unirsi con
chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e
vero, che coloro avevan voluto ammazzare, per timor che gridasse, e destasse il
paese; era (vedete un po' cosa si va a pensare!) uno di quegli stessi
malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che
tutta la sagacità e l'esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi
fosse, se il Griso avesse dovuto rilevar questa parte della storia da' discorsi
altrui. Ma, come il lettore sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era
appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre
notizie raccolte da lui immediatamente, o col mezzo degli esploratori
subordinati, poté di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente
distinta. Si chiuse subito con lui, e l'informò del colpo tentato dai poveri
sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vota e il sonare a
martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse qualche
traditore, come dicevano que' due galantuomini. L'informò della fuga; e anche a
questa era facile trovarci le sue ragioni: il timore degli sposi colti in
fallo, o qualche avviso dell'invasione, dato loro quand'era scoperta, e il
paese tutto a soqquadro. Disse finalmente che s'eran ricoverati a Pescarenico;
più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l'esser certo che
nessuno l'aveva tradito, e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto;
ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. - Fuggiti insieme! - gridò: -
insieme! E quel frate birbante! Quel frate! - la parola gli usciva arrantolata
dalla gola, e smozzicata tra' denti, che mordevano il dito: il suo aspetto era
brutto come le sue passioni. - Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi
sono... voglio sapere, voglio trovare... questa sera, voglio saper dove sono.
Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare... Quattro
scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E
quel birbone...! quel frate...!
Il
Griso di nuovo in campo; e, la sera di quel giorno medesimo, poté riportare al
suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco in qual maniera.
Una
delle più gran consolazioni di questa vita è l'amicizia; e una delle
consolazioni dell'amicizia è quell'avere a cui confidare un segreto. Ora, gli
amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne
ha più d'uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine.
Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel
seno d'un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione
anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione,
chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente
il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi
soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente
fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d'amico fidato in amico
fidato, il segreto gira e gira per quell'immensa catena, tanto che arriva
all'orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva
appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un
gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice,
e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati
che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi
uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di
seguirne la traccia. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante
bocche fosse passato il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: il fatto
sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando,
verso le ventitre, col suo baroccio, a Pescarenico, s'abbatté, prima d'arrivare
a casa, in un amico fidato, al quale raccontò, in gran confidenza, l'opera
buona che aveva fatta, e il rimanente; e il fatto sta che il Griso poté, due
ore dopo, correre al palazzotto, a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre
s'eran ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua
strada fino a Milano.
Don
Rodrigo provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì
rinascere un po' di quella scellerata speranza d'arrivare al suo intento. Pensò
alla maniera, gran parte della notte; e s'alzò presto, con due disegni, l'uno
stabilito, l'altro abbozzato. Il primo era di spedire immantinente il Griso a
Monza, per aver più chiare notizie di Lucia, e sapere se ci fosse da tentar
qualche cosa. Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i
quattro scudi, lo lodò di nuovo dell'abilità con cui gli aveva guadagnati, e
gli diede l'ordine che aveva premeditato.
-
Signore... - disse, tentennando, il Griso.
- Che?
non ho io parlato chiaro?
- Se
potesse mandar qualchedun altro...
- Come?
-
Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone: è
il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo la vita de' suoi
sudditi.
-
Ebbene?
-
Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch'io ho addosso: e...
Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor podestà è amico
di casa; i birri mi portan rispetto; e anch'io... è cosa che fa poco onore, ma
per viver quieto... li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è
conosciuta; ma in Monza... ci sono conosciuto io in vece. E sa vossignoria che,
non fo per dire, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia
testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l'uno sull'altro, e la facoltà di
liberar due banditi.
- Che
diavolo! - disse don Rodrigo: - tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha
cuore appena d'avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi
indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d'allontanarsi!
-
Credo, signor padrone, d'aver date prove...
-
Dunque!
-
Dunque, - ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, - dunque
vossignoria faccia conto ch'io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di
lepre, e son pronto a partire.
- E io
non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de' meglio... lo
Sfregiato, e il Tiradritto; e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo!
Tre figure come le vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuoi che non sia
contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a' birri di Monza fosse ben
venuta a noia la vita, per metterla su contro cento scudi a un gioco così
rischioso. E poi, e poi, non credo d'esser così sconosciuto da quelle parti,
che la qualità di mio servitore non ci si conti per nulla.
Svergognato
così un poco il Griso, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. Il
Griso prese i due compagni, e partì con faccia allegra e baldanzosa, ma
bestemmiando in cuor suo Monza e le taglie e le donne e i capricci de' padroni;
e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con
le costole che gli si potrebber contare, scende da' suoi monti, dove non c'è
che neve, s'avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una
zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata,
Leva il
muso, adorando il vento infido,
se mai
gli porti odore d'uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti, e gira due occhi
sanguigni, da cui traluce insieme l'ardore della preda e il terrore della
caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto
da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più
inedita, e farà un bel rumore; e io l'ho preso, perche mi veniva in taglio; e
dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse
che sia una mia astuzia per far sapere che l'autore di quella diavoleria ed io
siamo come fratelli, e ch'io frugo a piacer mio ne' suoi manoscritti.
L'altra
cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse
più tornar con Lucia, né metter piede in paese; e a questo fine, macchinava di
fare sparger voci di minacce e d'insidie, che, venendogli all'orecchio, per
mezzo di qualche amico, gli facessero passar la voglia di tornar da quelle
parti. Pensava però che la più sicura sarebbe se si potesse farlo sfrattar dallo
stato: e per riuscire in questo, vedeva che più della forza gli avrebbe potuto
servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po' di colore al tentativo
fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come un'aggressione, un atto
sedizioso, e, per mezzo del dottore, fare intendere al podestà ch'era il caso
di spedir contro Renzo una buona cattura. Ma pensò che non conveniva a lui di
rimestar quella brutta faccenda; e senza star altro a lambiccarsi il cervello,
si risolvette d'aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per
fargli comprendere il suo desiderio. "Le gride son tante!" pensava:
"e il dottore non è un'oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare,
qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto
nome". Ma (come vanno alle volte le cose di questo mondo!) intanto che
colui pensava al dottore, come all'uomo più abile a servirlo in questo, un
altr'uomo, l'uomo che nessuno s'immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla,
lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti
quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare.
Ho
visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma
che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l'ho visto,
dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di
porcellini d'India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un
giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica
buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per
cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte.
Dimodoché, dopo essersi un po' impazientito, s'adattava al loro genio, spingeva
prima dentro quelli ch'eran più vicini all'uscio, poi andava a prender gli
altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien fare
co' nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo
dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista.
Dopo la
separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso
Milano, in quello stato d'animo che ognuno può immaginarsi facilmente.
Abbandonar la casa, tralasciare il - mestiere, e quel ch'era più di tutto,
allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a
posarsi; e tutto per causa di quel birbone! Quando si tratteneva col pensiero
sull'una o sull'altra di queste cose, s'ingolfava tutto nella rabbia, e nel
desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che
aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si
ravvedeva: gli si risvegliava ancora la stizza; ma vedendo un'immagine sul
muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto
che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo,
almeno venti volte. La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive,
fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia, divenivan
rigagnoli; e in certe parti più basse, s'allagava tutta, che si sarebbe potuto
andarci in barca. A que' passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva,
indicava che altri passeggieri s'eran fatta una strada ne' campi. Renzo, salito
per un di que' valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del
duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un
deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare
anche da lontano quell'ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin
da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all'orizzonte
quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo
Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar
tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada.
A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese
allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s'accorse d'esser
ben vicino alla città, s'accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel
garbo che seppe, gli disse: - di grazia, quel signore. - Che volete, bravo
giovine?
-
Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de' cappuccini
dove sta il padre Bonaventura?
L'uomo
a cui Renzo s'indirizzava, era un agiato abitante del contorno, che, andato
quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava, senza aver fatto
nulla, in gran fretta, ché non vedeva l'ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto
volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno
d'impazienza, rispose molto gentilmente: - figliuol caro, de' conventi ce n'è
più d'uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi
cercate -. Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la
fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale, gliela rendette
dicendo: - siete fortunato, bravo giovine; il convento che cercate è poco
lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in
pochi minuti arriverete a una cantonata d'una fabbrica lunga e bassa: è il
lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a porta
orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi, vedrete una piazzetta con
de' begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare. Dio v'assista, bravo
giovine -. E, accompagnando l'ultime parole con un gesto grazioso della mano,
se n'andò. Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de'
cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch'era un giorno fuor
dell'ordinario, un giorno in cui le cappe s'inchinavano ai farsetti. Fece la
strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna
però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l'immagini
che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di
fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi
scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due
pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una
casuccia per i gabellini. I bastioni scendevano in pendìo irregolare, e il
terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a
caso. La strada che s'apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si
paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un
fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la
divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango,
secondo la stagione. Al punto dov'era, e dov'è tuttora quella viuzza chiamata
di Borghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c'era una colonna, con
sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti
di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo
entra, passa; nessuno de' gabellini gli bada: cosa che gli parve strana,
giacché, da que' pochi del suo paese che potevan vantarsi d'essere stati a
Milano, aveva sentito raccontar cose grosse de' frugamenti e dell'interrogazioni
a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era
deserta, dimodoché, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un
gran movimento, gli sarebbe parso d'entrare in una città disabitata. Andando
avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e
soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né,
per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e
trovò ch'era farina. "Grand'abbondanza", disse tra sé, "ci
dev'essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan
poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta
la povera gente di campagna". Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco
della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli
scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e
se fossero state sul banco d'un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a
chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a' suoi occhi; perché,
diamine! non era luogo da pani quello. "Vediamo un po' che affare è
questo", disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse
uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era
solito mangiarne che nelle solennità. - È pane davvero! - disse ad alta voce;
tanta era la sua maraviglia: - così lo seminano in questo paese? in quest'anno?
e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di
cuccagna questo? - Dopo dieci miglia di strada, all'aria fresca della mattina,
quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l'appetito. "Lo
piglio?" deliberava tra sé: "poh! l'hanno lasciato qui alla
discrezion de' cani; tant'è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se
comparisce il padrone, glielo pagherò". Così pensando, si mise in una
tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell'altra; un
terzo, e cominciò a mangiare; e si rincamminò, più incerto che mai, e
desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar
gente che veniva dall'interno della città, e guardò attentamente quelli che
apparivano i primi. Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un
ragazzotto; tutt'e tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro
forze, e tutt'e tre in una figura strana. I vestiti o gli stracci infarinati;
infarinati i visi, e di più stravolti e accesi; e andavano, non solo curvi, per
il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l'ossa. L'uomo reggeva
a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne
seminava un poco, a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia
era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da
due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel
pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi
barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la
sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva
stare, e un po' di più; dimodoché, quasi a ogni passo, ne volava via una
ventata. Il ragazzotto teneva con tutt'e due le mani sul capo una paniera colma
di pani; ma, per aver le gambe più corte de' suoi genitori, rimaneva a poco a
poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per raggiungerli, la
paniera perdeva l'equilibrio, e qualche pane cadeva.
-
Buttane via ancor un altro, buono a niente che sei, - disse la madre,
digrignando i denti verso il ragazzo.
- Io non
li butto via; cascan da sé: com'ho a fare? - rispose quello.
- Ih!
buon per te, che ho le mani impicciate, - riprese la donna, dimenando i pugni,
come se desse una buona scossa al povero ragazzo; e, con quel movimento, fece
volar via più farina, di quel che ci sarebbe voluto per farne i due pani
lasciati cadere allora dal ragazzo. - Via, via, - disse l'uomo: - torneremo
indietro a raccoglierli, o qualcheduno li raccoglierà. Si stenta da tanto
tempo: ora che viene un po' d'abbondanza, godiamola in santa pace.
In
tanto arrivava altra gente dalla porta; e uno di questi, accostatosi alla
donna, le domandò: - dove si va a prendere il pane?
- Più
avanti, - rispose quella; e quando furon lontani dieci passi, soggiunse
borbottando: - questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e
tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.
- Un
po' per uno, tormento che sei, - disse il marito: - abbondanza, abbondanza.
Da
queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, Renzo cominciò a
raccapezzarsi ch'era arrivato in una città sollevata, e che quello era un
giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della
voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di
far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci
obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da
lodarsi dell'andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad
approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo
punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell'opinione o in
quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata
dagl'incettatori e da' fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di
strappar loro dalle mani l'alimento che essi, secondo quell'opinione, negavano
crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, si propose di star fuori del
tumulto, e si rallegrò d'esser diretto a un cappuccino, che gli troverebbe
ricovero, e gli farebbe da padre. Così pensando, e guardando intanto i nuovi
conquistatori che venivano carichi di preda, fece quella po' di strada che gli
rimaneva per arrivare al convento.
Dove
ora sorge quel bel palazzo, con quell'alto loggiato, c'era allora, e c'era
ancora non son molt'anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il
convento de' cappuccini, con quattro grand'olmi davanti. Noi ci rallegriamo,
non senza invidia, con que' nostri lettori che non han visto le cose in quello
stato: ciò vuol dire che son molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte
corbellerie. Renzo andò diritto alla porta, si ripose in seno il mezzo pane che
gli rimaneva, levò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il
campanello. S'aprì uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia
del frate portinaio a domandar chi era.
- Uno
di campagna, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre
Cristoforo.
- Date
qui, - disse il portinaio, mettendo una mano alla grata.
- No,
no, - disse Renzo: - gliela devo consegnare in proprie mani.
- Non è
in convento.
- Mi
lasci entrare, che l'aspetterò.
- Fate
a mio modo, - rispose il frate: - andate a aspettare in chiesa, che intanto
potrete fare un po' di bene. In convento, per adesso, non s'entra -. E detto
questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase lì, con la sua lettera in mano.
Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del
portinaio; ma poi pensò di dar prima un'altra occhiata al tumulto. Attraversò
la piazzetta, si portò sull'orlo della strada, e si fermò, con le braccia
incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l'interno della città, dove
il brulichìo era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore.
"Andiamo a vedere", disse tra sé; tirò fuori il suo mezzo pane, e
sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto che s'incammina, noi
racconteremo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di
quello sconvolgimento.
Era
quello il second'anno di raccolta scarsa. Nell'antecedente, le provvisioni
rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto;
e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto
sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora,
questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in
parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese,
ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini.
Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam
fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad
essa, molti poderi più dell'ordinario rimanevano incolti e abbandonati da'
contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli
altri, eran costretti d'andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più
dell'ordinario; perché le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e
con un'insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena
pace, delle truppe alloggiate ne' paesi, condotta che i dolorosi documenti di
que' tempi uguagliano a quella d'un nemico invasore, altre cagioni che non è
qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente
quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora
parliamo, erano come una repentina esacerbazione d'un mal cronico. E quella
qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per
l'esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal
vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo
doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.
Ma
quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata
finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel
tempo!), nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si
dimentica d'averla temuta, predetta; si suppone tutt'a un tratto che ci sia
grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il
consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano
a un tempo la collera e la speranza. Gl'incettatori di grano, reali o
immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i
fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai,
o che avessero il nome d'averne, a questi si dava la colpa della penuria e del
rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l'abbominio della
moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i
granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s'indicava il numero de' sacchi,
spropositato; si parlava con certezza dell'immensa quantità di granaglie che
veniva spedita segretamente in altri paesi; ne' quali probabilmente si gridava,
con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano
a Milano. S'imploravan da' magistrati que' provvedimenti, che alla moltitudine
paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici,
così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come
dicevano, e a far ritornar l'abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano:
come di stabilire il prezzo massimo d'alcune derrate, d'intimar pene a chi
ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i
provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di
diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e
siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d'attirarne da dove ce
ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La
moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de'
rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de' più generosi e decisivi. E per sua
sventura, trovò l'uomo secondo il suo cuore.
Nell'assenza
del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l'assedio di
Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio
Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l'avrebbe veduto? che l'essere il
pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui
fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta
(così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del
pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente
venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una
donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di
battesimo.
Ordini
meno insensati e meno iniqui eran, più d'una volta, per la resistenza delle
cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all'esecuzione di questo vegliava la
moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non
avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane
al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che
dànno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai
strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza
posa; perché il popolo, sentendo in confuso che l'era una cosa violenta,
assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava;
affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede
che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan
pene, dall'altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche
fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava
una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo;
non c'era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però,
a farli continuare in quell'impresa, non bastava che fosse lor comandato, né
che avessero molta paura; bisognava potere: e un po' più che la cosa fosse
durata, non avrebbero più potuto. Facevan vedere ai magistrati l'iniquità e
l'insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la
pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando,
sperando che, una volta o l'altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la
ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di
carattere, rispondeva che i fornai s'erano avvantaggiati molto e poi molto nel
passato, che s'avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell'abbondanza;
che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e
che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste
ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti
l'impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri
l'odiosità di rivocarlo; giacché, chi può ora entrar nel cervello d'Antonio
Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i
decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al
novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello
stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.
Don
Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò
che il lettore s'immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì
l'autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da
poterci campar tanto una parte che l'altra. I deputati si radunarono, o come
qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d'allora, si giuntarono;
e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni,
proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una
deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una
gran carta, ma convinti che non c'era da far altro, conclusero di rincarare il
pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.
La sera
avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze
brulicavano d'uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un
pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi
dati l'intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso
pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori,
come di colui che l'aveva proferito. Tra tanti appassionati, c'eran pure alcuni
più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l'acqua
s'andava intorbidando; e s'ingegnavano d'intorbidarla di più, con que'
ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi
alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell'acqua,
senza farci un po' di pesca. Migliaia d'uomini andarono a letto col sentimento
indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe.
Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne,
uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio
confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo
faceva al più vicino la stessa domanda ch'era allora stata fatta a lui;
quest'altro ripeteva l'esclamazione che s'era sentita risonare agli orecchi;
per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale
di tanti discorsi.
Non
mancava altro che un'occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per
ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno,
dalle botteghe de' fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano
a portarne alle solite case. Il primo comparire d'uno di que' malcapitati
ragazzi dov'era un crocchio di gente, fu come il cadere d'un salterello acceso
in una polveriera. - Ecco se c'è il pane! - gridarono cento voci insieme. - Sì,
per i tiranni, che notano nell'abbondanza, e voglion far morir noi di fame, -
dice uno; s'accosta al ragazzetto, avventa la mano all'orlo della gerla, dà una
stratta, e dice: - lascia vedere -. Il ragazzetto diventa rosso, pallido,
trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca;
allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. - Giù quella
gerla, - si grida intanto. Molte mani l'afferrano a un tempo: è in terra; si
butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde
all'intorno. - Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi, -
dice il primo; prende un pan tondo, l'alza, facendolo vedere alla folla,
l'addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu
sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del
guadagno altrui, e animati dalla facilità dell'impresa, si mossero a branchi,
in cerca d'altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c'era neppur
bisogno di dar l'assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si
trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e
via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza
paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole,
e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c'eran coloro che avevan fatto
disegno sopra un disordine più co' fiocchi. - Al forno! al forno! - si grida.
Nella
strada chiamata la Corsia de' Servi, c'era, e c'è tuttavia un forno, che
conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle
grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche,
così salvatiche, che l'alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il
suono (El prestin di scansc.). A quella parte s'avventò la gente. Quelli della
bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto
sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando
si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s'avvicina; compariscono i
forieri della masnada.
Serra,
serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli
altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente
comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: - pane! pane! aprite! aprite!
Pochi
momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d'alabardieri. -
Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia, -
grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un
po' di luogo; dimodoche quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non
in ordine, davanti alla porta della bottega.
- Ma
figliuoli, - predicava di lì il capitano, - che fate qui? A casa, a casa. Dov'è
il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma
andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati? Niente di
bene, ne per l'anima, né per il corpo. A casa, a casa.
Ma
quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole,
quand'anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber
potuto, spinti com'erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch'essi da
altri, come flutti da flutti, via via fino al l'estremità della folla, che
andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. -
Fateli dare addietro ch'io possa riprender fiato, - diceva agli alabardieri: -
ma non fate male a nessuno. Vediamo d'entrare in bottega: picchiate; fateli
stare indietro.
-
Indietro! indietro! - gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso
ai primi, e respingendoli con l'aste dell'alabarde. Quelli urlano, si tirano
indietro, come possono; dànno con le schiene ne' petti, co' gomiti nelle pance,
co' calcagni sulle punte de' piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un
pigìo, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato
qualcosa a essere altrove. Intanto un po' di vòto s'è fatto davanti alla porta:
il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono
dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli
alabardieri, che si ficcan dentro anch'essi l'un dopo l'altro, gli ultimi
rattenendo la folla con l'alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto
di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e s'affaccia a una
finestra. Uh, che formicolaio!
-
Figliuoli, - grida: molti si voltano in su; - figliuoli, andate a casa. Perdono
generale a chi torna subito a casa.
- Pane!
pane! aprite! aprite! - eran le parole più distinte nell'urlìo orrendo, che la
folla mandava in risposta.
-
Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a
casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!... eh! che fate laggiu!
Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto
grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que' ferri; giu quelle mani.
Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il
mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi... Ah canaglia!
Questa
rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani
d'uno di que' buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla
protuberanza sinistra della profondità metafisica. - Canaglia! canaglia! -
continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma
quantunque avesse gridato quanto n'aveva in canna, le sue parole, buone e
cattive, s'eran tutte dileguate e disfatte a mezz'aria, nella tempesta delle
grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare
di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la
strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere
l'inferriate: e già l'opera era molto avanzata.
Intanto,
padroni e garzoni della bottega, ch'erano alle finestre de' piani di sopra, con
una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile),
urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere
le pietre, accennavano di volerle buttare. Visto ch'era tempo perso, cominciarono
a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacché la calca era tale,
che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe andato in terra.
- Ah
birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi!
Ahimè! Ohi! Ora, ora! - s'urlava di giù. Più d'uno fu conciato male; due
ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la
porta fu sfondata, l'inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i
varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il
capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne'
cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe' tetti, come i gatti.
La
vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette
sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in
vece corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia a
manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se
ne rimarrà. La folla si sparge ne' magazzini. Metton mano ai sacchi, li
strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la
bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della
farina: chi, gridando: - aspetta, aspetta, - si china a parare il grembiule, un
fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una
madia, e prende un pezzo di pasta, che s'allunga, e gli scappa da ogni parte;
un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria: chi va, chi
viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo
che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori,
una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s'intralciano a
vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne.
Mentre
quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e
senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere
intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari, e
stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a
patti: distribuivan pane a quelli che s'eran cominciati a affollare davanti
alle botteghe, con questo che se n'andassero. E quelli se n'andavano, non tanto
perché fosser soddisfatti, quanto perché gli alabardieri e la sbirraglia,
stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere
altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una
folla. Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato
forno; perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche
bell'impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l'impunità
sicura.
A
questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo
pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s'avviava, senza
saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora
ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da
quel ronzìo confuso di discorsi qualche notizia più positiva dello stato delle
cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscì di rilevare in tutta la
strada che fece.
- Ora è
scoperta, - gridava uno, - l'impostura infame di que' birboni, che dicevano che
non c'era né pane, né farina, né grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante;
e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l'abbondanza!
- Vi
dico io che tutto questo non serve a nulla, - diceva un altro: - è un buco
nell'acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a
buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come
mosche. Già lo dicono che siam troppi; l'hanno detto nella giunta; e lo so di
certo, per averlo sentito dir io, con quest'orecchi, da una mia comare, che è
amica d'un parente d'uno sguattero d'uno di que' signori.
Parole
da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con
una mano un cencio di fazzoletto su' capelli arruffati e insanguinati. E
qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco.
-
Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un povero padre di famiglia,
che porta da mangiare a cinque figliuoli -. Così diceva uno che veniva
barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s'ingegnava di ritirarsi,
per fargli largo.
- Io? -
diceva un altro, quasi sottovoce, a un suo compagno: - io me la batto. Son uomo
di mondo, e so come vanno queste cose. Questi merlotti che fanno ora tanto
fracasso, domani o doman l'altro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura.
Ho già visto certi visi, certi galantuomini che giran, facendo l'indiano, e
notano chi c'è e chi non c'è: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti,
e a chi tocca, tocca.
-
Quello che protegge i fornai, - gridava una voce sonora, che attirò
l'attenzione di Renzo, - è il vicario di provvisione.
- Son
tutti birboni, - diceva un vicino.
- Sì;
ma il capo è lui, - replicava il primo.
Il
vicario di provvisione, eletto ogn'anno dal governatore tra sei nobili proposti
dal Consiglio de' decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di
provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con
altre attribuzioni, quella principalmente dell'annona. Chi occupava un tal
posto doveva necessariamente, in tempi di fame e d'ignoranza, esser detto
l'autore de' mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non
era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee.
-
Scellerati! - esclamava un altro: - si può far di peggio? sono arrivati a dire
che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e
comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver
di vecce e di loglio, come volevano trattar noi.
- Pane
eh? - diceva uno che cercava d'andar in fretta: - sassate di libbra: pietre di
questa fatta, che venivan giù come la grandine. E che schiacciata di costole!
Non vedo l'ora d'essere a casa mia.
Tra
questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito,
e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era
già molto diradata, dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro.
Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate,
diroccata la porta.
"Questa
poi non è una bella cosa", disse Renzo tra sé: "se concian così tutti
i forni, dove voglion fare il pane? Ne' pozzi?"
Ogni
tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di
madia, o di frullone, la stanga d'una gramola, una panca, una paniera, un libro
di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: - largo,
largo, - passava tra la gente. Tutti questi s'incamminavano dalla stessa parte,
e a un luogo convenuto, si vedeva. "Cos'è quest'altra storia?" pensò
di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d'asse spezzate e di
schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che
costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che
c'erano, e da poco in qua non ci son più. La voglia d'osservar gli avvenimenti
non poté fare che il montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non
si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo, per
raggiunger colui che aveva preso come per guida; voltò il canto, diede un'occhiata
anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal
compimento; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La
gente era più fitta quanto più s'andava avanti, ma al portatore gli si faceva
largo: egli fendeva l'onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato,
arrivò con lui al centro della folla. Lì c'era uno spazio vòto, e in mezzo, un
mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All'intorno era un
batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e
d'imprecazione.
L'uomo
del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo
abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e s'addensa; la fiamma si
ridesta; con essa le grida sorgon più forti. - Viva l'abbondanza! Moiano gli
affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il
pane!
Veramente,
la distruzion de' frulloni e delle madie, la devastazion de' forni, e lo
scompiglio de' fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma
questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci
arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla
prima, finch'è nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne
parlare, diventerà inabile anche a intenderle. A Renzo in fatti quel pensiero
gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli tornava ogni momento. Lo
tenne per altro in sé; perché, di tanti visi, non ce n'era uno che sembrasse
dire: fratello, se fallo, correggimi, che l'avrò caro.
Già era
di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e
la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio
(una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s'era messo l'assedio
a un forno. Spesso, in simili circostanze, l'annunzio d'una cosa la fa essere.
Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là:
- io vo; tu, vai? vengo; andiamo, - si sentiva per tutto: la calca si rompe, e
diventa una processione. Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non
quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se
dovesse uscir dal baccano, e ritornare al convento, in cerca del padre
Bonaventura, o andare a vedere anche quest'altra. Prevalse di nuovo la
curiosità. Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi
ammaccar l'ossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche
distanza, a osservare. E trovandosi già un poco al largo, si levò di tasca il
secondo pane, e attaccandoci un morso, s'avviò alla coda dell'esercito
tumultuoso.
Questo,
dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria
vecchia, e di là, per quell'arco a sbieco, nella piazza de' Mercanti. E lì eran
ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della
loggia dell'edifizio chiamato allora il collegio de' dottori, non dessero
un'occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio,
burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal
marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che
fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.
Quella
statua non c'è più, per un caso singolare. Circa cento settant'anni dopo quello
che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano
lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco
Bruto. Così accomodata stette forse un par d'anni; ma, una mattina, certuni che
non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine
segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero
cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con
gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon
stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l'avesse detto a Andrea Biffi,
quando la scolpiva!
Dalla
piazza de' Mercanti, la marmaglia insaccò, per quell'altr'arco, nella via de'
fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi,
guardava subito verso il forno ch'era stato indicato. Ma in vece della
moltitudine d'amici che s'aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro
soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la
quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a
difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva; chi
si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi
voleva tornare indietro, chi diceva: - avanti, avanti -. C'era un incalzare e
un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti
e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: - c'è
qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a
dare il sacco -. Parve il rammentarsi comune d'un concerto preso, piuttosto che
l'accettazione d'una proposta. - Dal vicario! dal vicario! - è il solo grido
che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov'era
la casa nominata in un così cattivo punto.
Lo
sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato
d'un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco, e attendeva, con
gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal
sospettar che dovesse cader così spaventosamente addosso a lui. Qualche
galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che gli
sovrastava. I servitori, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano
sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi.
Mentre ascoltan l'avviso, vedon comparire la vanguardia: in fretta e in furia,
si porta l'avviso al padrone: mentre questo pensa a fuggire, e come fuggire, un
altro viene a dirgli che non è più a tempo. I servitori ne hanno appena tanto
che basti per chiuder la porta. Metton la stanga, metton puntelli, corrono a
chiuder le finestre, come quando si vede venire avanti un tempo nero, e
s'aspetta la grandine, da un momento all'altro. L'urlìo crescente, scendendo
dall'alto come un tuono, rimbomba nel vòto cortile; ogni buco della casa ne
rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi
di pietre alla porta.
- Il
vicario! Il tiranno! L'affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!
Il
meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a
palma, raccomandandosi a Dio, e a' suoi servitori, che tenessero fermo, che
trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta;
da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di
furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito che mai, si
ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato,
stava attento, attento, se mai il funesto rumore s'affievolisse, se il tumulto
s'acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più
rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si
turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e
raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse
tener ferma la porta... Del resto, quel che facesse precisamente non si può
sapere, giacché era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c'è
avvezza.
Renzo,
questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena,
ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva
sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo
dire se fosse bene o male in quel caso; ma l'idea dell'omicidio gli cagionò un
orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli
animi appassionati all'affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che
il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de' poveri, pure,
avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che
indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s'era subito proposto
d'aiutare anche lui un'opera tale; e, con quest'intenzione, s'era cacciato,
quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con
ciottoli picchiava su' chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con
pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con
pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l'unghie, non
avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s'ingegnavano di levare i
mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio
con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di
più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de' lavoranti: giacché, per
grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente
nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento.
I
magistrati ch'ebbero i primi l'avviso di quel che accadeva, spediron subito a
chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta
Giovia; il quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l'avviso, e l'ordine, e il
radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa
era già cinta di vasto assedio; e fecero alto lontano da quella, all'estremità
della folla. L'ufiziale che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì
non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d'età e di
sesso, che stava a vedere. All'intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi,
e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorìo; nessuno si moveva.
Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all'ufiziale cosa non solo crudele, ma
piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritato i
molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima
folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a
chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi
sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece
di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber
trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata. L'irresolutezza del comandante
e l'immobilità de' soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si
trovavan vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un'aria,
come si dice, di me n'impipo; quelli ch'erano un po' più lontani, non se ne
stavano di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi
sapevano o si curavano che ci fossero; i guastatori seguitavano a smurare,
senz'altro pensiero che di riuscir presto nell'impresa; gli spettatori non
cessavano d'animarla con gli urli.
Spiccava
tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che,
spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno
di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa,
agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di
volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.
- Oibò!
vergogna! - scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di
tant'altri visi che davan segno d'approvarle, e incoraggito dal vederne degli
altri, sui quali, benché muti, traspariva lo stesso orrore del quale era
compreso lui. - Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare
un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste
atrocità? Ci manderà de' fulmini, e non del pane!
- Ah
cane! ah traditor della patria! - gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da
indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante
parole. - Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da
contadino: è una spia: dàlli, dàlli! - Cento voci si spargono all'intorno. -
Cos'è? dov'è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito
da contadino, che scappa. Dov'è? dov'è? dàlli, dàlli!
Renzo
ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo
prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci
nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un - largo, largo, - che
si sentì gridar lì vicino: - largo! è qui l'aiuto: largo, ohe!
Cos'era?
Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, e
entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la
cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all'una e
all'altra cima, e di qua e di là della macchina, urtati, scompigliati, divisi
dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi
sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava; un altro veniva
staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle,
braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de' quali erano. Altri
sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono
addosso, gridando: - animo! andiamo! - La macchina fatale s'avanza balzelloni,
e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo,
il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul
principio, poi giocando di gomita a più non posso, s'allontanò da quel luogo,
dove non c'era buon'aria per lui, con l'intenzione anche d'uscire, più presto
che potesse, dal tumulto, e d'andar davvero a trovare o a aspettare il padre
Bonaventura.
Tutt'a
un tratto, un movimento straordinario cominciato a una estremità, si propaga
per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: - Ferrer!
Ferrer! - Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un'inclinazione, una
ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol
soffogarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia.
- È qui
Ferrer! - Non è vero, non è vero! - Sì, sì; viva Ferrer! quello che ha messo il
pane a buon mercato. - No, no! - E qui, è qui in carrozza. - Cosa importa? che
c'entra lui? non vogliamo nessuno! - Ferrer! viva Ferrer! l'amico della povera
gente! viene per condurre in prigione il vicario. - No, no: vogliamo far
giustizia noi: indietro, indietro! - Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione
il vicario!
E
tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde
s'annunziava l'inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che
se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant'è, tutti s'alzavano.
In
fatti, all'estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i
soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il
quale, rimordendogli probabilmente la coscienza d'essere co' suoi spropositi e
con la sua ostinazione, stato causa, o almeno occasione di quella sommossa,
veniva ora a cercar d'acquietarla, e d'impedirne almeno il più terribile e
irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata.
Ne'
tumulti popolari c'è sempre un certo numero d'uomini che, o per un riscaldamento
di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per
un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al
peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni
volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non
vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura. Ma per contrappeso, c'è
sempre anche un certo numero d'altri uomini che, con pari ardore e con
insistenza pari, s'adoprano per produr l'effetto contrario: taluni mossi da
amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz'altro impulso
che d'un pio e spontaneo orrore del sangue e de' fatti atroci. Il cielo li
benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano
concerti antecedenti, l'uniformità de' voleri crea un concerto istantaneo
nell'operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un
miscuglio accidentale d'uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite,
tengono dell'uno e dell'altro estremo: un po' riscaldati, un po' furbi, un po'
inclinati a una certa giustizia, come l'intendon loro, un po' vogliosi di
vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a
detestare e ad adorare, secondo che si presenti l'occasione di provar con
pienezza l'uno o l'altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere
qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d'applaudire a qualcheduno, o
d'urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri;
e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d'essere squartato, non
ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d'esser portato
in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti
anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando
manchino gl'istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non
contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l'uno
con l'altro: cos'è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza,
la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per
tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che
combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà
sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore
dell'uno o dell'altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che
riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i
terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte,
esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l'una o
per l'altra parte.
Tutta
questa chiacchierata s'è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due
parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario,
l'apparizione d'Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio
alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po' più
che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più, né forza, né motivo di
combattere. L'uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua
invenzione così favorevole a' compratori, e per quel suo eroico star duro
contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor
più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza
apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e
procellosa. Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in
prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato
peggio, chi l'avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder
nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell'osso in bocca,
s'acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano
in una gran parte degli animi.
I
partigiani della pace, ripreso fiato, secondavano Ferrer in cento maniere:
quelli che si trovavan vicini a lui, eccitando e rieccitando col loro il
pubblico applauso, e cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il
passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le sue
parole, o quelle che a lor parevano le migliori che potesse dire, dando sulla
voce ai furiosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della
mobile adunanza. - Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non
vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una
giustizia da cristiani: e c'è di quelli che schiamazzano più degli altri, per
fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer!
- E crescendo sempre più quelli che parlavan così, s'andava a proporzione
abbassando la baldanza della parte contraria; di maniera che i primi dal
predicare vennero anche a dar sulle mani a quelli che diroccavano ancora, a
cacciarli indietro, a levar loro dall'unghie gli ordigni. Questi fremevano,
minacciavano anche, cercavan di rifarsi; ma la causa del sangue era perduta: il
grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po' di
dibattimento, coloro furon respinti: gli altri s'impadroniron della porta, e
per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l'adito a Ferrer; e
alcuno di essi, mandando dentro una voce a quelli di casa (fessure non ne
mancava), gli avvisò che arrivava soccorso, e che facessero star pronto il
vicario, - per andar subito... in prigione: ehm, avete inteso?
- È
quel Ferrer che aiuta a far le gride? - domandò a un nuovo vicino il nostro
Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottore gli aveva gridato
all'orecchio, facendoglielo vedere in fondo di quella tale.
- Già:
il gran cancelliere - gli fu risposto.
- È un
galantuomo, n'è vero?
-
Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e
gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che
non ha fatto le cose giuste.
Non fa
bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer. Volle andargli incontro
addirittura: la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e gomitate da
alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di
fianco alla carrozza.
Era
questa già un po' inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno
di quegl'incagli inevitabili e frequenti, in un'andata di quella sorte. Il
vecchio Ferrer presentava ora all'uno, ora all'altro sportello, un viso tutto
umile, tutto ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre in serbo
per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV; ma fu costretto a
spenderlo anche in quest'occasione. Parlava anche; ma il chiasso e il ronzlo di
tante voci, gli evviva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a
ben pochi sentir le sue parole. S'aiutava dunque co' gesti, ora mettendo la
punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi
subito, distribuivano a destra e a sinistra in ringraziamento alla pubblica
benevolenza; ora stendendole e movendole lentamente fuori d'uno sportello, per
chiedere un po' di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po' di
silenzio. Quando n'aveva ottenuto un poco, i più vicini sentivano e ripetevano
le sue parole: - pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po' di luogo di
grazia -. Sopraffatto poi e come soffogato dal fracasso di tante voci, dalla
vista di tanti visi fitti, di tant'occhi addosso a lui, si tirava indietro un
momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sé: "por
mi vida' que de gente!" - Viva Ferrer! Non abbia paura. Lei è un
galantuomo. Pane, pane!
- Sì;
pane, pane, - rispondeva Ferrer: - abbondanza; lo prometto io, - e metteva la
mano al petto.
- Un
po' di luogo, - aggiungeva subito: - vengo per condurlo in prigione, per dargli
il giusto gastigo che si merita: - e soggiungeva sottovoce: - si es culpable-.
Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: - adelante'
Pedro' si puedes.
Il
cocchiere sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come
se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio
adagio la frusta, a destra e a sinistra, per chiedere agl'incomodi vicini che
si ristringessero e si ritirassero un poco. - Di grazia, - diceva anche lui, -
signori miei, un po' di luogo, un pochino; appena appena da poter passare.
Intanto
i benevoli più attivi s'adopravano a far fare il luogo chiesto così
gentilmente. Alcuni davanti ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone
parole, con un mettere le mani sui petti, con certe spinte soavi: - in là, via,
un po' di luogo, signori -; alcuni facevan lo stesso dalle due parti della
carrozza, perché potesse passare senza arrotar piedi, né ammaccar mostacci;
che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio
l'auge d'Antonio Ferrer.
Renzo,
dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza,
conturbata un po' dall'angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla
sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di togliere un uomo
all'angosce mortali, Renzo, dico, mise da parte ogni pensiero d'andarsene; e si
risolvette d'aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto
l'intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non era certo
de' meno attivi. Il largo si fece; - venite pure avanti, - diceva più d'uno al
cocchiere, ritirandosi o andando a fargli un po' di strada più innanzi. - Adelante,
presto, con juicio, - gli disse anche il padrone; e la carrozza si mosse.
Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava al pubblico in massa, ne faceva
certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d'intelligenza, a quelli
che vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d'uno a Renzo,
il quale per verità se li meritava, e serviva in quel giorno il gran
cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de' suoi segretari.
Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d'aver
fatto amicizia con Antonio Ferrer.
La
carrozza, una volta incamminata, seguitò poi, più o meno adagio, e non senza
qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un tiro di schioppo;
ma riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto, anche a
chi non avesse avuto la santa fretta di Ferrer. La gente si moveva, davanti e
di dietro, a destra e a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno a
una nave che avanza nel forte della tempesta. Più acuto, più scordato, più
assordante di quello della tempesta era il frastono. Ferrer, guardando ora da
una parte, ora dall'altra; atteggiandosi e gestendo insieme, cercava d'intender
qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva far alla meglio un
po' di dialogo con quella brigata d'amici; ma la cosa era difficile, la più
difficile forse che gli fosse ancora capitata, in tant'anni di
gran-cancellierato. Ogni tanto però, qualche parola, anche qualche frase,
ripetuta da un crocchio nel suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo
scoppio d'un razzo più forte si fa sentire nell'immenso scoppiettìo d'un fuoco
artifiziale. E lui, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a
queste grida, ora dicendo a buon conto le parole che sapeva dover esser più accette,
o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anche lui per tutta
la strada. - Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà
gastigato... si es culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon
mercato. Asi es... così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole
che codesti fedelissimi vassalli patiscan la fame. Ox! ox! guardaos: non
si facciano male, signori. Pedro' adelante con juicio. Abbondanza,
abbondanza. Un po' di luogo, per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione.
Cosa? - domandava poi a uno che s'era buttato mezzo dentro lo sportello, a
urlargli qualche suo consiglio o preghiera o applauso che fosse. Ma costui,
senza poter neppure ricevere il "cosa?" era stato tirato indietro da
uno che lo vedeva lì lì per essere schiacciato da una rota. Con queste botte e
risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche
d'opposizione, che si faceva sentire qua e là, ma era subito soffogato, ecco
alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di que' buoni
ausiliari.
Gli
altri che, come abbiam detto, eran già lì con le medesime buone intenzioni,
avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po' di piazza. Prega, esorta,
minaccia; pigia, ripigia, incalza di qua e di là, con quel raddoppiare di
voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder vicino il fine
desiderato; gli era finalmente riuscito di divider la calca in due, e poi di
spingere indietro le due calche; tanto che, tra la porta e la carrozza, che vi
si fermò davanti, v'era un piccolo spazio voto. Renzo, che, facendo un po' da
battistrada, un po' da scorta, era arrivato con la carrozza, poté collocarsi in
una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano, nello stesso tempo, ala
alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a
rattenerne una con le poderose sue spalle, si trovò anche in un bel posto per
poter vedere.
Ferrer
mise un gran respiro, quando vide quella piazzetta libera, e la porta ancor
chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri eran quasi
sconficcati fuor de' pilastri: i battenti scheggiati, ammaccati, sforzati e
scombaciati nel mezzo lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di
catenaccio storto, allentato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, li teneva
insieme. Un galantuomo s'era affacciato a quel fesso, a gridar che aprissero;
un altro spalancò in fretta lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori
la testa, s'alzò, e afferrando con la destra il braccio di quel galantuomo,
uscì, e scese sul predellino.
La
folla, da una parte e dall'altra, stava tutta in punta di piedi per vedere:
mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l'attenzione generale creò un
momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino,
diede un'occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un
pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: - pane e giustizia -; e
franco, diritto, togato, scese in terra, tra l'acclamazioni che andavano alle
stelle. Intanto quelli di dentro avevano aperto, ossia avevan finito d'aprire,
tirando via il catenaccio insieme con gli anelli già mezzi sconficcati, e
allargando lo spiraglio, appena quanto bastava per fare entrare il
desideratissimo ospite. - Presto, presto, - diceva lui: - aprite bene, ch'io
possa entrare: e voi, da bravi, tenete indietro la gente; non mi lasciate
venire addosso... per l'amor del cielo! Serbate un po' di largo per tra poco.
Ehi! ehi! signori, un momento, - diceva poi ancora a quelli di dentro: - adagio
con quel battente, lasciatemi passare: eh! le mie costole; vi raccomando le mie
costole. Chiudete ora: no; eh! eh! la toga! la toga! - Sarebbe in fatti rimasta
presa tra i battenti, se Ferrer non n'avesse ritirato con molta disinvoltura lo
strascico, che disparve come la coda d'una serpe, che si rimbuca inseguita.
Riaccostati
i battenti, furono anche riappuntellati alla meglio. Di fuori, quelli che
s'eran costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia
e di grida, a mantener la piazza vota, pregando in cuor loro il Signore che lo
facesse far presto.
-
Presto, presto, - diceva anche Ferrer di dentro, sotto il portico, ai
servitori, che gli si eran messi d'intorno ansanti, gridando: - sia benedetto!
ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza!
-
Presto, presto, - ripeteva Ferrer: - dov'è questo benedett'uomo?
Il
vicario scendeva le scale, mezzo strascicato e mezzo portato da altri suoi
servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise un gran
respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po' di vita nelle gambe, un po' di
colore sulle gote; e corse, come poté, verso Ferrer, dicendo: - sono nelle mani
di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscir di qui? Per tutto c'è gente che mi
vuol morto.
- Venga
usted con migo, e si faccia coraggio: qui fuori c'è la mia carrozza;
presto, presto -. Lo prese per la mano, e lo condusse verso la porta,
facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto tra sé: "aqui està el
busilis; Dios nos valga!"
La
porta s'apre; Ferrer esce il primo; l'altro dietro, rannicchiato, attaccato,
incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma.
Quelli che avevan mantenuta la piazza vota, fanno ora, con un alzar di mani, di
cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della
moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si
rimpiatta in un angolo. Ferrer sale dopo; lo sportello vien chiuso. La
moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch'era accaduto; e mandò un
urlo d'applausi e d'imprecazioni.
La parte
della strada che rimaneva da farsi, poteva parer la più difficile e la più
pericolosa. Ma il voto pubblico era abbastanza spiegato per lasciar andare in
prigione il vicario; e nel tempo della fermata, molti di quelli che avevano
agevolato l'arrivo di Ferrer, s'eran tanto ingegnati a preparare e a mantener
come una corsìa nel mezzo della folla, che la carrozza poté, questa seconda
volta, andare un po' più lesta, e di seguito. Di mano in mano che s'avanzava,
le due folle rattenute dalle parti, si ricadevano addosso e si rimischiavano,
dietro a quella.
Ferrer,
appena seduto, s'era chinato per avvertire il vicario, che stesse ben
rincantucciato nel fondo, e non si facesse vedere, per l'amor del cielo; ma
l'avvertimento era superfluo. Lui, in vece, bisognava che si facesse vedere,
per occupare e attirare a sé tutta l'attenzione del pubblico. E per tutta
questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più
continuo nel tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai;
interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina spagnola, che in fretta in
fretta si voltava a bisbigliar nell'orecchio del suo acquattato compagno. - Sì,
signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia.
Grazie, grazie, grazie tante. No, no: non iscapperà. Por ablandarlos. E
troppo giusto; s'esaminerà, si vedrà. Anch'io voglio bene a lor signori. Un
gastigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta
onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io
sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante,
uno scellerato. Perdone, usted. La passerà male, la passerà male... si
es culpable. Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i
buoni milanesi, suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo;
estamos ya quasi fuera.
Avevano
in fatti attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscir al largo, del
tutto. Lì Ferrer, mentre cominciava a dare un po' di riposo a' suoi polmoni,
vide il soccorso di Pisa, que' soldati spagnoli, che però sulla fine non erano
stati affatto inutili, giacché sostenuti e diretti da qualche cittadino,
avevano cooperato a mandare in pace un po' di gente, e a tenere il passo libero
all'ultima uscita. All'arrivar della carrozza, fecero ala, e presentaron l'arme
al gran cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a
sinistra; e all'ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse,
accompagnando le parole con un cenno della destra: - beso a usted las manos-:
parole che l'ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m'avete
dato un bell'aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si ristrinse nelle
spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non
aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole
buttate via, perché l'ufiziale non intendeva il latino.
A
Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, tra que' moschetti così
rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo
sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: - ohe! ohe! -
senz'aggiunta d'altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter
esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso
il castello.
- Levantese'
levantese; estàmos ya fuera, - disse Ferrer al vicario; il quale,
rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto della carrozza, e da
quelle parole, si svolse, si sgruppò, s'alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a
render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questi, dopo essersi
condoluto con lui del pericolo e rallegrato della salvezza: - ah! - esclamò,
battendo la mano sulla sua zucca monda, - que dirà de esto su excelencia,
che ha già tanto la luna a rovescio, per quel maledetto Casale, che non vuole
arrendersi? Que dirà el conde duque, che piglia ombra se una foglia fa
più rumore del solito? Que dirà el rey nuestro señor, che pur qualche
cosa bisognerà che venga a risapere d'un fracasso così? E sarà poi finito? Dios
lo sabe. - Ah! per me, non voglio più impicciarmene, - diceva il vicario: -
me ne chiamo fuori; rassegno la mia carica nelle mani di vostra eccellenza, e
vo a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l'eremita, lontano, lontano
da questa gente bestiale.
- Usted
farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad, -
rispose gravemente il gran cancelliere.
- Sua
maestà non vorrà la mia morte, - replicava il vicario: - in una grotta, in una
grotta; lontano da costoro.
Che
avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il
quale, dopo avere accompagnato il pover'uomo in castello, non fa più menzione
de' fatti suoi.
La
folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra,
per questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue
faccende; chi s'allontanava, per respirare un po' al largo, dopo tante ore di
stretta; chi, in cerca d'amici, per ciarlare de' gran fatti della giornata. Lo
stesso sgombero s'andava facendo dall'altro sbocco della strada, nella quale la
gente restò abbastanza rada perché quel drappello di spagnoli potesse, senza
trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario. Accosto a
quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, del tumulto; un
branco di birboni, che malcontenti d'una fine così fredda e così imperfetta
d'un così grand'apparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte
tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere;
e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta,
ch'era stata di nuovo appuntellata alla meglio. All'arrivar del drappello,
tutti coloro, chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se
n'andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a' soldati, che lo
presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le
strade del contorno erano seminate di crocchi: dove c'eran due o tre persone
ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava;
là tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta
rimane sparsa, e gira per l'azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a
chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di
discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi
raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse
finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi,
sghignazzando, diceva: - non abbiate paura, che non l'ammazzeranno: il lupo non
mangia la carne del lupo -; chi più stizzosamente mormorava che non s'eran
fatte le cose a dovere, ch'era un inganno, e ch'era stata una pazzia il far
tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.
Intanto
il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte d'un colore; e molti,
stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il
nostro giovine, dopo avere aiutato il passaggio della carrozza, finché c'era
stato bisogno d'aiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le file
de' soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, e
fuor di pericolo; fece un po' di strada con la folla, e n'uscì, alla prima
cantonata, per respirare anche lui un po' liberamente. Fatto ch'ebbe pochi
passi al largo, in mezzo all'agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini,
recenti e confuse, sentì un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò
a guardare in su, da una parte e dall'altra, cercando un'insegna d'osteria;
giacché, per andare al convento de' cappuccini, era troppo tardi. Camminando
così con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e fermatosi,
sentì che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato
un momento a sentire, non poté tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli
che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E
persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormal, per mandare
a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per
le strade, - signori miei! - gridò, in tono d'esordio: - devo dire anch'io il
mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell'affare
del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s'è visto chiaro che, a
farsi sentire, s'ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che
non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo
vada un po' più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c'è una mano di
tiranni, che fanno proprio al rovescio de' dieci comandamenti, e vanno a cercar
la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre
ragione? anzi quando n'hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la
testa più alta, che par che gli s'abbia a rifare il resto? Già anche in Milano
ce ne dev'essere la sua parte.
- Pur
troppo, - disse una voce.
- Lo
dicevo io, - riprese Renzo: - già le storie si raccontano anche da noi. E poi
la cosa parla da sé. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che
voglio dir io stia un po' in campagna, un po' in Milano: se è un diavolo là,
non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un poco, signori
miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all'inferriata. E quel
che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono,
stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che
noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie
chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice:
sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori,
scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi
dànno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a
qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che
comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla,
perché c'è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da
Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s'è potuto
vedere com'era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di
sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna
andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene
posso raccontar delle belle; che ho visto io, co' miei occhi, una grida con
tanto d'arme in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che
d'ognuno c'era sotto il suo nome bell'e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer,
visto da me, co' miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste
per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render
giustizia, com'era l'intenzione di que' tre signori, tra i quali c'era anche
Ferrer, questo signor dottore, che m'aveva fatto veder la grida lui medesimo,
che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro
che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può
saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada
così, e ci metterà un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride,
devono aver piacere che s'ubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col
loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa,
e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s'è fatto oggi. Non dico che
deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti
e tiranni: sì; ci vorrebbe l'arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca,
e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le
gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di
quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e
dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de'
meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a'
dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico
bene, signori miei?
Renzo
aveva parlato tanto di cuore, che, fin dall'esordio, una gran parte de'
radunati, sospeso ogni altro discorso, s'eran rivoltati a lui; e, a un certo
punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso d'applausi, di -
bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo, - fu come la risposta
dell'udienza. Non mancaron però i critici. - Eh sì, - diceva uno: - dar retta
a' montanari: son tutti avvocati -; e se ne andava. - Ora, - mormorava un
altro, - ogni scalzacane vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco,
non s'avrà il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi -. Renzo
però non sentì che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva
l'altra. - A rivederci a domani. - Dove? - Sulla piazza del duomo. - Va bene. -
Va bene. - E qualcosa si farà. - E qualcosa si farà.
- Chi è
di questi bravi signori che voglia insegnarmi un'osteria, per mangiare un
boccone, e dormire da povero figliuolo? - disse Renzo.
- Son
qui io a servirvi, quel bravo giovine, - disse uno, che aveva ascoltata
attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. - Conosco appunto
un'osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio
amico, e galantuomo.
- Qui
vicino? - domandò Renzo. - Poco distante, - rispose colui.
La
radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s'avviò
con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia.
- Di
che cosa? - diceva colui: - una mano lava l'altra, e tutt'e due lavano il viso.
Non siamo obbligati a far servizio al prossimo? - E camminando, faceva a Renzo,
in aria di discorso, ora una, ora un'altra domanda. - Non per sapere i fatti
vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite?
-
Vengo, - rispose Renzo, - fino, fino da Lecco.
- Fin
da Lecco? Di Lecco siete?
- Di
Lecco... cioè del territorio.
- Povero
giovine! per quanto ho potuto intendere da' vostri discorsi, ve n'hanno fatte
delle grosse.
- Eh!
caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po' di politica, per non dire
in pubblico i fatti miei; ma... basta, qualche giorno si saprà; e allora... Ma
qui vedo un'insegna d'osteria; e, in fede mia, non ho voglia d'andar più
lontano.
- No,
no! venite dov'ho detto io, che c'è poco, - disse la guida: - qui non istareste
bene.
- Eh,
sì; - rispose il giovine: - non sono un signorino avvezzo a star nel cotone:
qualcosa alla buona da mettere in castello, e un saccone, mi basta: quel che mi
preme è di trovar presto l'uno e l'altro. Alla provvidenza! - Ed entrò in un
usciaccio, sopra il quale pendeva l'insegna della luna piena. - Bene; vi
condurrò qui, giacché vi piace così, - disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.
- Non
occorre che v'incomodiate di più, - rispose Renzo. - Però, - soggiunse, - se
venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere.
-
Accetterò le vostre grazie, - rispose colui; e andò, come più pratico del
luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s'accostò all'uscio che metteva in
cucina, alzò il saliscendi, aprì, e v'entrò col suo compagno. Due lumi a mano,
pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una
mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e
di là d'una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della
stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e
rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano
anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto
parlare, avrebbero detto probabilmente: "noi eravamo stamattina nella
ciotola d'un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt'intento
a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue
faccendole private". Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e
indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e
tavoliere: l'oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del
cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella
cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a
lui. S'alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista
ch'ebbe la guida, "maledetto!" disse tra sé: "che tu m'abbia a
venir sempre tra' piedi, quando meno ti vorrei!" Data poi un'occhiata in
fretta a Renzo, disse, ancora tra sé: "non ti conosco; ma venendo con un
tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti
conoscerò". Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia
dell'oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e
lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.
- Cosa
comandan questi signori? - disse ad alta voce.
- Prima
di tutto, un buon fiasco di vino sincero, - disse Renzo: - e poi un boccone -.
Così dicendo, si buttò a sedere sur una panca, verso la cima della tavola, e
mandò un - ah! - sonoro, come se volesse dire: fa bene un po' di panca, dopo
essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli venne subito in mente
quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto l'ultima volta, con Lucia
e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel
pensiero: e vide venir l'oste col vino. Il compagno s'era messo a sedere in
faccia a Renzo. Questo gli mescé subito da bere, dicendo: per bagnar le labbra
-. E riempito l'altro bicchiere, lo tracannò in un sorso.
- Cosa
mi darete da mangiare? - disse poi all'oste.
- Ho
dello stufato: vi piace? - disse questo.
- Sì,
bravo; dello stufato.
-
Sarete servito, - disse l'oste a Renzo; e al garzone: - servite questo
forestiero -. E s'avviò verso il cammino. - Ma... - riprese poi, tornando verso
Renzo: - ma pane, non ce n'ho in questa giornata.
- Al
pane, - disse Renzo, ad alta voce e ridendo, - ci ha pensato la provvidenza -.
E tirato fuori il terzo e ultimo di que' pani raccolti sotto la croce di san
Dionigi, l'alzò per aria, gridando: - ecco il pane della provvidenza!
All'esclamazione,
molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: - viva il pane a
buon mercato!
- A
buon mercato? - disse Renzo: - gratis et amore.
-
Meglio, meglio.
- Ma, -
soggiunse subito Renzo, - non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è
ch'io l'abbia, come si suol dire, sgraffignato. L'ho trovato in terra; e se
potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo.
-
Bravo! bravo! - gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de'
quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero.
-
Credono ch'io canzoni; ma l'è proprio così, - disse Renzo alla sua guida; e,
girando in mano quel pane, soggiunse: - vedete come l'hanno accomodato; pare
una schiacciata: ma ce n'era del prossimo! Se ci si trovavan di quelli che han
l'ossa un po' tenere, saranno stati freschi -. E subito, divorati tre o quattro
bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e
soggiunse: - da sé non vuol andar giù questo pane. Non ho avuto mai la gola
tanto secca. S'è fatto un gran gridare!
-
Preparate un buon letto a questo bravo giovine, - disse la guida: - perché ha
intenzione di dormir qui.
-
Volete dormir qui? - domandò l'oste a Renzo, avvicinandosi alla tavola.
-
Sicuro, - rispose Renzo: - un letto alla buona; basta che i lenzoli sian di
bucato; perché son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia.
- Oh,
in quanto a questo! - disse l'oste: andò al banco, ch'era in un angolo della
cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e
una penna nell'altra.
- Cosa
vuol dir questo? - esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il
garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: -
è il lenzolo di bucato, codesto?
L'oste,
senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla
tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in
aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: - fatemi il piacere di dirmi il
vostro nome, cognome e patria.
- Cosa?
- disse Renzo: - cosa c'entrano codeste storie col letto?
- Io fo
il mio dovere, - disse l'oste, guardando in viso alla guida: - noi siamo
obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome
e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene, se ha seco armi...
quanto tempo ha di fermarsi in questa città... Son parole della grida.
Prima
di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d'ora in poi ho
paura che non li potremo più contare. Poi disse: - ah ah! avete la grida! E io
fo conto d'esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle
gride.
- Dico
davvero, - disse l'oste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato
di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio, un proprio esemplare
della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di Renzo.
- Ah!
ecco! - esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e
rivotandolo subito, e stendendo poi l'altra mano, con un dito teso, verso la
grida: - ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco
quell'arme; so cosa vuol dire quella faccia d'ariano, con la corda al collo -.
(In cima alle gride si metteva allora l'arme del governatore; e in quella di
don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola).
- Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando
questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don... basta, lo so io;
come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrà fatto in
maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta
di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio
per di più. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh
bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d'altri furfanti:
perché se fosse solo... - e qui finì la frase con un gesto: - se un furfantone
volesse saper dov'io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa
faccia si moverebbe per aiutarmi. Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova.
Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un
padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste.
L'oste
stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione
di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e
proseguì: - ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterà. Se le
gride che parlan bene, in favore de' buoni cristiani, non contano; tanto meno
devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti quest'imbrogli, e porta
in vece un altro fiasco; perché questo è fesso -. Così dicendo, lo percosse
leggermente con le nocca, e soggiunse: - senti, senti, oste, come crocchia.
Anche
questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata l'attenzione di quelli che
gli stavan d'intorno: e anche questa volta, fu applaudito dal suo uditorio.
- Cosa
devo fare? - disse l'oste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per
lui.
- Via,
via, - gridaron molti di que' compagnoni: - ha ragione quel giovine: son tutte
angherie, trappole, impicci: legge nuova Oggi, legge nuova. In mezzo a queste
grida, lo sconosciuto, dando all'oste un'occhiata di rimprovero, per
quell'interrogazione troppo scoperta, disse: - lasciatelo un po' fare a suo
modo: non fate scene.
- Ho
fatto il mio dovere, - disse l'oste, forte; e poi tra se: "ora ho le
spalle al muro". E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e
il fiasco voto, per consegnarlo al garzone.
- Porta
del medesimo, - disse Renzo: - che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto
come l'altro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa
viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa città.
- Del
medesimo, - disse l'oste al garzone, dandogli il fiasco; e ritornò a sedere
sotto la cappa del cammino. "Altro che lepre!" pensava, istoriando di
nuovo la cenere: "e in che mani sei capitato! Pezzo d'asino! se vuoi
affogare, affoga; ma l'oste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le
tue pazzie".
Renzo
ringraziò la guida, e tutti quegli altri che avevan prese le sue parti. - Bravi
amici! - disse: - ora vedo proprio che i galantuomini si dànno la mano, e si
sostengono -. Poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi
di nuovo in attitudine di predicatore, - gran cosa, - esclamò, - che tutti
quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e
calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que' signori
d'adoprar la penna!
- Ehi,
quel galantuomo di campagna! volete saperne la ragione? - disse ridendo uno di
que' giocatori, che vinceva.
-
Sentiamo un poco, - rispose Renzo.
- La
ragione è questa, - disse colui: - che que' signori son loro che mangian
l'oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne
facciano.
Tutti
si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva.
- To',
- disse Renzo: - è un poeta costui. Ce n'è anche qui de' poeti: già ne nasce
per tutto. N'ho una vena anch'io, e qualche volta ne dico delle curiose... ma
quando le cose vanno bene.
Per
capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo
di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i
galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse;
vuol dire un cervello bizzarro e un po' balzano, che, ne' discorsi e ne' fatti,
abbia più dell'arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel
guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le
cose più lontane dal loro legittimo significato! Perché, vi domando io, cosa ci
ha che fare poeta con cervello balzano?
- Ma la
ragione giusta la dirò io, - soggiunse Renzo: - è perché la penna la tengon
loro: e così, le parole che dicon loro, volan via, e spariscono; le parole che
dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzan per
aria, con quella penna, e te le inchiodano sulla carta, per servirsene, a tempo
e luogo. Hanno poi anche un'altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un
povero figliuolo, che non abbia studiato, ma che abbia un po' di... so io quel
che voglio dire... - e, per farsi intendere, andava picchiando, e come
arietando la fronte con la punta dell'indice; - e s'accorgono che comincia a
capir l'imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in
latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa. Basta; se ne
deve smetter dell'usanze! Oggi, a buon conto, s'è fatto tutto in volgare, e
senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprà regolarsi, se ne
farà anche delle meglio: senza torcere un capello a nessuno, però; tutto per
via di giustizia.
Intanto
alcuni di que' compagnoni s'eran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a
gridare; alcuni se n'andavano; altra gente arrivava; l'oste badava agli uni e
agli altri: tutte cose che non hanno che fare con la nostra storia. Anche la
sconosciuta guida non vedeva l'ora d'andarsene; non aveva, a quel che paresse,
nessun affare in quel luogo; eppure non voleva partire prima d'aver
chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si voltò a lui, riattaccò
il discorso del pane; e dopo alcune di quelle frasi che, da qualche tempo,
correvano per tutte le bocche, venne a metter fuori un suo progetto. - Eh! se
comandassi io, - disse, - lo troverei il verso di fare andar le cose bene.
- Come
vorreste fare? - domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti più del
dovere, e storcendo un po' la bocca, come per star più attento.
- Come
vorrei fare? - disse colui: - vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto per i
poveri, come per i ricchi.
- Ah!
così va bene, - disse Renzo.
- Ecco
come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire
il pane in ragione delle bocche: perché c'è degl'ingordi indiscreti, che
vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi
manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco:
dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a
prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un
biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie
e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia
pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle
bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per... il vostro nome?
-
Lorenzo Tramaglino, - disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non
fece attenzione ch'era tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che, per
metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle
persone.
-
Benissimo, - disse lo sconosciuto: - ma avete moglie e figliuoli?
-
Dovrei bene... figliuoli no... troppo presto... ma la moglie... se il mondo
andasse come dovrebbe andare...
- Ah
siete solo! Dunque abbiate pazienza, ma una porzione più piccola.
- È
giusto; ma se presto, come spero... e con l'aiuto di Dio.. Basta; quando avessi
moglie anch'io?
-
Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione. Come v'ho detto; sempre
in ragion delle bocche, - disse lo sconosciuto, alzandosi.
- Così
va bene, - gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo il pugno sulla tavola:
- e perché non la fanno una legge così?
- Cosa
volete che vi dica? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perché penso che
la moglie e i figliuoli m'aspetteranno da un pezzo.
- Un
altro gocciolino, un altro gocciolino, - gridava Renzo, riempiendo in fretta il
bicchiere di colui; e subito alzatosi, e acchiappatolo per una falda del
farsetto, tirava forte, per farlo seder di nuovo. - Un altro gocciolino: non mi
fate quest'affronto.
Ma
l'amico, con una stratta, si liberò, e lasciando Renzo fare un guazzabuglio
d'istanze e di rimproveri, disse di nuovo: - buona notte, - e se n'andò. Renzo
seguitava ancora a predicargli, che quello era già in istrada; e poi ripiombò
sulla panca. Fissò gli occhi su quel bicchiere che aveva riempito; e, vedendo
passar davanti alla tavola il garzone, gli accennò di fermarsi, come se avesse
qualche affare da comunicargli; poi gli accennò il bicchiere, e con una
pronunzia lenta e solenne, spiccando le parole in un certo modo particolare,
disse: - ecco, l'avevo preparato per quel galantuomo: vedete; pieno raso,
proprio da amico; ma non l'ha voluto. Alle volte, la gente ha dell'idee
curiose. Io non ci ho colpa: il mio buon cuore l'ho fatto vedere. Ora, giacché
la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andare a male -. Così detto, lo prese, e
lo votò in un sorso.
- Ho
inteso, - disse il garzone, andandosene.
- Ah!
avete inteso anche voi, - riprese Renzo: - dunque è vero. Quando le ragioni son
giuste...!
Qui è
necessario tutto l'amore, che portiamo alla verità, per farci proseguire
fedelmente un racconto di così poco onore a un personaggio tanto principale, si
potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa
ragione d'imparzialità, dobbiamo però anche avvertire ch'era la prima volta,
che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a
stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Que'
pochi bicchieri che aveva buttati giù da principio, l'uno dietro l'altro,
contro il suo solito, parte per quell'arsione che si sentiva, parte per una
certa alterazione d'animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli
diedero subito alla testa: a un bevitore un po' esercitato non avrebbero fatto
altro che levargli la sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione,
che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudini temperate e
oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e
radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n'allontani, se ne
risente subito; dimodoché se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno
sproposito gli serve di scola.
Comunque
sia, quando que' primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole
continuarono a andare, l'uno in giù e l'altre in su, senza misura né regola: e,
al punto a cui l'abbiam lasciato, stava già come poteva. Si sentiva una gran
voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prender
per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute via
senza farsi pregare, e s'eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a
poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente
difficile. Il pensiero, che s'era presentato vivo e risoluto alla sua mente,
s'annebbiava e svaniva tutt'a un tratto; e la parola, dopo essersi fatta
aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per
uno di que' falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a
quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una
tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica.
Noi
riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata
sera: le molte più che tralasciamo, disdirebbero troppo; perché, non solo non
hanno senso, ma non fanno vista d'averlo: condizione necessaria in un libro
stampato.
- Ah
oste, oste! - ricominciò, accompagnandolo con l'occhio intorno alla tavola, o
sotto la cappa del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre
in mezzo al chiasso della brigata: - oste che tu sei! Non posso mandarla giù...
quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo par mio...! Non ti sei
portato bene. Che soddisfazione, che sugo, che gusto... di mettere in carta un
povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte
de' buoni figliuoli... Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone... per la
ragione... Ridono eh? Ho un po' di brio, sì... ma le ragioni le dico giuste.
Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I poveri figliuoli, n'è
vero? dico bene? Guarda un po' se que' signori delle gride vengono mai da te a
bere un bicchierino.
- Tutta
gente che beve acqua, - disse un vicino di Renzo.
-
Vogliono stare in sé, - soggiunse un altro, - per poter dir le bugie a dovere.
- Ah! -
gridò Renzo: - ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri
le mie ragioni. Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è
mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco d'un quattrino? E quel
cane assassino di don...? Sto zitto, perché sono in cervello anche troppo.
Ferrer e il padre Crrr... so io, son due galantuomini; ma ce n'è pochi de'
galantuomini. I vecchi peggio de' giovani; e i giovani... peggio ancora de'
vecchi. Però, son contento che non si sia fatto sangue: oibò; barbarie, da
lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma...
ne ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!... Eppure, anche Ferrer... qualche
parolina in latino... siés baraòs trapolorum... Maledetto vizio! Viva!
giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!... Là ci volevano que'
galantuomini... quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi ancora
ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, ve', allora. Tenerlo lì quel signor
curato... So io a chi penso!
A
questa parola, abbassò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in un
pensiero: poi mise un gran sospiro, e alzò il viso, con due occhi inumiditi e
lustri, con un certo accoramento così svenevole, così sguaiato, che guai se chi
n'era l'oggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che già
avevan cominciato a prendersi spasso dell'eloquenza appassionata e imbrogliata
di Renzo, tanto più se ne presero della sua aria compunta; i più vicini
dicevano agli altri: guardate; e tutti si voltavano a lui; tanto che divenne lo
zimbello della brigata. Non già che tutti fossero nel loro buon senno, o nel
loro qual si fosse senno ordinario; ma, per dire il vero, nessuno n'era tanto
uscito, quanto il povero Renzo: e per di più era contadino. Si misero, or l'uno
or l'altro, a stuzzicarlo con domande sciocche e grossolane, con cerimonie
canzonatorie. Renzo, ora dava segno d'averselo per male, ora prendeva la cosa
in ischerzo, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tutt'altro, ora
rispondeva, ora interrogava; sempre a salti, e fuor di proposito. Per buona
sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un'attenzione istintiva
a scansare i nomi delle persone; dimodoché anche quello che doveva esser più
altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: ché troppo ci
dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po' d'affetto e
di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto
trastullo di quelle lingue sciagurate.
L'oste,
vedendo che il gioco andava in lungo, s'era accostato a Renzo; e pregando, con
buona grazia, quegli altri che lo lasciassero stare, l'andava scotendo per un
braccio, e cercava di fargli intendere e di persuaderlo che andasse a dormire.
Ma Renzo tornava sempre da capo col nome e cognome, e con le gride, e co' buoni
figliuoli. Però quelle parole: letto e dormire, ripetute al suo orecchio, gli
entraron finalmente in testa; gli fecero sentire un po' più distintamente il
bisogno di ciò che significavano, e produssero un momento di lucido intervallo.
Quel po' di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se
n'era andato: a un di presso come l'ultimo moccolo rimasto acceso
d'un'illuminazione, fa vedere gli altri spenti. Si fece coraggio; stese le
mani, e le appuntellò sulla tavola; tentò, una e due volte, d'alzarsi; sospirò,
barcollò; alla terza, sorretto dall'oste, si rizzò. Quello, reggendolo
tuttavia, lo fece uscire di tra la tavola e la panca; e, preso con una mano un
lume, con l'altra, parte lo condusse, parte lo tirò, alla meglio, verso l'uscio
di scala. Lì Renzo, al chiasso de' saluti che coloro gli urlavan dietro, si
voltò in fretta; e se il suo sostenitore non fosse stato ben lesto a tenerlo
per un braccio, la voltata sarebbe stata un capitombolo; si voltò dunque, e,
con l'altro braccio che gli rimaneva libero, andava trinciando e iscrivendo
nell'aria certi saluti, a guisa d'un nodo di Salomone.
-
Andiamo a letto, a letto, - disse l'oste, strascicandolo; gli fece imboccar
l'uscio; e con più fatica ancora, lo tirò in cima di quella scaletta, e poi
nella camera che gli aveva destinata. Renzo, visto il letto che l'aspettava, si
rallegrò; guardò amorevolmente l'oste, con due occhietti che ora scintillavan
più che mai, ora s'eclissavano, come due lucciole; cercò d'equilibrarsi sulle
gambe; e stese la mano al viso dell'oste, per prendergli il ganascino, in segno
d'amicizia e di riconoscenza; ma non gli riuscì. - Bravo oste! - gli riuscì
però di dire: - ora vedo che sei un galantuomo: questa è un'opera buona, dare
un letto a un buon figliuolo; ma quella figura che m'hai fatta, sul nome e
cognome, quella non era da galantuomo. Per buona sorte che anch'io son furbo la
mia parte...
L'oste,
il quale non pensava che colui potesse ancor tanto connettere; l'oste che, per
lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti
del solito a cambiar di parere, volle approfittare di quel lucido intervallo,
per fare un altro tentativo. - Figliuolo caro, - disse, con una voce e con un
fare tutto gentile: - non l'ho fatto per seccarvi, né per sapere i fatti
vostri. Cosa volete? è legge: anche noi bisogna ubbidire; altrimenti siamo i
primi a portarne la pena. È meglio contentarli, e... Di che si tratta
finalmente? Gran cosa! dir due parole. Non per loro, ma per fare un piacere a
me: via; qui tra noi, a quattr'occhi, facciam le nostre cose; ditemi il vostro
nome, e... e poi andate a letto col cuor quieto.
- Ah
birbone! - esclamò Renzo: - mariolo! tu mi torni ancora in campo con
quell'infamità del nome, cognome e negozio!
- Sta'
zitto, buffone; va' a letto, - diceva l'oste.
Ma
Renzo continuava più forte: - ho inteso: sei della lega anche tu. Aspetta,
aspetta, che t'accomodo io -. E voltando la testa verso la scaletta, cominciava
a urlare più forte ancora: - amici! l'oste è della...
- Ho
detto per celia, - gridò questo sul viso di Renzo, spingendolo verso il letto:
- per celia; non hai inteso che ho detto per celia?
- Ah!
per celia: ora parli bene. Quando hai detto per celia... Son proprio celie -. E
cadde bocconi sul letto.
-
Animo; spogliatevi; presto, - disse l'oste, e al consiglio aggiunse l'aiuto;
che ce n'era bisogno. Quando Renzo si fu levato il farsetto (e ce ne volle),
l'oste l'agguantò subito, e corse con le mani alle tasche, per vedere se c'era
il morto. Lo trovò: e pensando che, il giorno dopo, il suo ospite avrebbe avuto
a fare i conti con tutt'altri
E che
con lui, e che quel morto sarebbe probabilmente caduto in mani di dove un oste
non avrebbe potuto farlo uscire; volle provarsi se almeno gli riusciva di
concluder quest'altro affare.
- Voi
siete un buon figliuolo, un galantuomo; n'è vero? - disse.
- Buon
figliuolo, galantuomo, - rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita co'
bottoni de' panni che non s'era ancor potuto levare.
- Bene,
- replicò l'oste: - saldate ora dunque quel poco conticino, perché domani io
devo uscire per certi miei affari...
-
Quest'è giusto, - disse Renzo. - Son furbo, ma galantuomo... Ma i danari?
Andare a cercare i danari ora!
-
Eccoli qui, - disse l'oste: e, mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la
sua pazienza, tutta la sua destrezza, gli riuscì di fare il conto con Renzo, e
di pagarsi.
- Dammi
una mano, ch'io possa finir di spogliarmi, oste, - disse Renzo. - Lo vedo
anch'io, ve', che ho addosso un gran sonno.
L'oste
gli diede l'aiuto richiesto; gli stese per di più la coperta addosso, e gli
disse sgarbatamente - buona notte, - che già quello russava. Poi, per quella
specie d'attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di
stizza, al pari che un oggetto d'amore, e che forse non è altro che il
desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull'animo nostro, si fermò un
momento a contemplare l'ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul
viso, e facendovi, con la mano stesa, ribatter sopra la luce; in quell'atto a
un di presso che vien dipinta Psiche, quando sta a spiare furtivamente le forme
del consorte sconosciuto. - Pezzo d'asino! - disse nella sua mente al povero
addormentato: - sei andato proprio a cercartela. Domani poi, mi saprai dire che
bel gusto ci avrai. Tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che
parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo.
Così
detto o pensato, ritirò il lume, si mosse, uscì dalla camera, e chiuse l'uscio
a chiave. Sul pianerottolo della scala, chiamò l'ostessa; alla quale disse che
lasciasse i figliuoli in guardia a una loro servetta, e scendesse in cucina, a
far le sue veci. - Bisogna ch'io vada fuori, in grazia d'un forestiero capitato
qui, non so come diavolo, per mia disgrazia, - soggiunse; e le raccontò in
compendio il noioso accidente. Poi soggiunse ancora: - occhio a tutto; e sopra
tutto prudenza, in questa maledetta giornata. Abbiamo laggiù una mano di
scapestrati che, tra il bere, e tra che di natura sono sboccati, ne dicon di
tutti i colori. Basta, se qualche temerario...
- Oh!
non sono una bambina, e so anch'io quel che va fatto. Finora, mi pare che non
si possa dire...
- Bene,
bene; e badar che paghino; e tutti que' discorsi che fanno, sul vicario di
provvisione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri e Spagna e
Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire; perché, se si
contraddice, la può andar male subito; e se si dà ragione, la può andar male in
avvenire: e già sai anche tu che qualche volta quelli che le dicon più
grosse... Basta; quando si senton certe proposizioni, girar la testa, e dire:
vengo; come se qualcheduno chiamasse da un'altra parte. Io cercherò di tornare
più presto che posso.
Ciò
detto, scese con lei in cucina, diede un'occhiata in giro, per veder se c'era
novità di rilievo; staccò da un cavicchio il cappello e la cappa, prese un
randello da un cantuccio, ricapitolò, con un'altra occhiata alla moglie,
l'istruzioni che le aveva date; e uscì. Ma, già nel far quelle operazioni,
aveva ripreso, dentro di sé, il filo dell'apostrofe cominciata al letto del
povero Renzo; e la proseguiva, camminando in istrada.
"Testardo
d'un montanaro!" Ché, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto
l'esser suo, questa qualità si manifestava da sé, nelle parole, nella
pronunzia, nell'aspetto e negli atti. "Una giornata come questa, a forza
di politica, a forza d'aver giudizio, io n'uscivo netto; e dovevi venir tu sulla
fine, a guastarmi l'uova nel paniere. Manca osterie in Milano, che tu dovessi
proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso un
occhio, per questa sera; e domattina t'avrei fatto intender la ragione. Ma no
signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia d'un bargello, per far
meglio!"
A ogni
passo, l'oste incontrava o passeggieri scompagnati, o coppie, o brigate di
gente, che giravano susurrando. A questo punto della sua muta allocuzione, vide
venire una pattuglia di soldati; e tirandosi da parte, per lasciarli passare,
li guardò con la coda dell'occhio, e continuò tra sé: "eccoli i
gastigamatti. E tu, pezzo d'asino, per aver visto un po' di gente in giro a far
baccano, ti sei cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi. E su questo bel
fondamento, ti sei rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non è giusto. Io
facevo di tutto per salvarti; e tu, bestia, in contraccambio, c'è mancato poco
che non m'hai messo sottosopra l'osteria. Ora toccherà a te a levarti
d'impiccio: per me ci penso io. Come se io volessi sapere il tuo nome per una
mia curiosità! Cosa m'importa a me che tu ti chiami Taddeo o Bartolommeo? Ci ho
un bel gusto anch'io a prender la penna in mano! ma non siete voi altri soli a
voler le cose a modo vostro. Lo so anch'io che ci son delle gride che non
contan nulla: bella novità, da venircela a dire un montanaro! Ma tu non sai che
le gride contro gli osti contano. E pretendi girare il mondo, e parlare; e non
sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle gride, la prima cosa è di
parlarne con gran riguardo. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e
non domandasse il nome di chi capita a favorirlo, sai tu, bestia, cosa c'è di
bello? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernai ed altri, come
sopra, di trecento scudi: sì, son lì che covano trecento scudi; e per
ispenderli così bene; da esser applicati, per i due terzi alla regia Camera,
e l'altro all'accusatore o delatore: quel bel cecino! Ed in caso di
inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena, pecuniaria o corporale,
all'arbitrio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie".
A
queste parole, l'oste toccava la soglia del palazzo di giustizia.
Lì,
come a tutti gli altri ufizi, c'era un gran da fare: per tutto s'attendeva a
dar gli ordini che parevan più atti a preoccupare il giorno seguente, a levare
i pretesti e l'ardire agli animi vogliosi di nuovi tumulti, ad assicurare la
forza nelle mani solite a adoprarla. S'accrebbe la soldatesca alla casa del
vicario; gli sbocchi della strada furono sbarrati di travi, trincerati di
carri. S'ordinò a tutti i fornai che facessero pane senza intermissione; si
spedirono staffette a' paesi circonvicini, con ordini di mandar grano alla
città; a ogni forno furono deputati nobili, che vi si portassero di buon
mattino, a invigilare sulla distribuzione e a tenere a freno gl'inquieti, con
l'autorità della presenza, e con le buone parole. Ma per dar, come si dice, un
colpo al cerchio e uno alla botte, e render più efficaci i consigli con un po'
di spavento, si pensò anche a trovar la maniera di metter le mani addosso a
qualche sedizioso: e questa era principalmente la parte del capitano di
giustizia; il quale, ognuno può pensare che sentimenti avesse per le
sollevazioni e per i sollevati, con una pezzetta d'acqua vulneraria sur uno
degli organi della profondità metafisica. I suoi bracchi erano in campo fino
dal principio del tumulto: e quel sedicente Ambrogio Fusella era, come ha detto
l'oste, un bargello travestito, mandato in giro appunto per cogliere sul fatto qualcheduno
da potersi riconoscere, e tenerlo in petto, e appostarlo, e acchiapparlo poi, a
notte affatto quieta, o il giorno dopo. Sentite quattro parole di quella
predica di Renzo, colui gli aveva fatto subito assegnamento sopra; parendogli
quello un reo buon uomo, proprio quel che ci voleva. Trovandolo poi nuovo
affatto del paese, aveva tentato il colpo maestro di condurlo caldo caldo alle
carceri, come alla locanda più sicura della città; ma gli andò fallito, come
avete visto. Poté però portare a casa la notizia sicura del nome, cognome e
patria, oltre cent'altre belle notizie congetturali; dimodoché, quando l'oste
capitò lì, a dir ciò che sapeva intorno a Renzo, ne sapevan già più di lui.
Entrò nella solita stanza, e fece la sua deposizione: come era giunto ad
alloggiar da lui un forestiero, che non aveva mai voluto manifestare il suo
nome.
- Avete
fatto il vostro dovere a informar la giustizia -; disse un notaio criminale,
mettendo giu la penna, - ma già lo sapevamo.
"Bel
segreto!" pensò l'oste: "ci vuole un gran talento!" - E sappiamo
anche, - continuò il notaio, - quel riverito nome.
"Diavolo!
il nome poi, com'hanno fatto?" pensò l'oste questa volta.
- Ma
voi, - riprese l'altro, con volto serio, - voi non dite tutto sinceramente.
- Cosa
devo dire di più?
- Ah!
ah! sappiamo benissimo che colui ha portato nella vostra osteria una quantità
di pane rubato, e rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione.
- Vien
uno con un pane in tasca; so assai dov'è andato a prenderlo. Perché, a parlar
come in punto di morte, posso dire di non avergli visto che un pane solo.
- Già;
sempre scusare, difendere: chi sente voi altri, son tutti galantuomini. Come
potete provare che quel pane fosse di buon acquisto?
- Cosa
ho da provare io? io non c'entro: io fo l'oste.
- Non
potrete però negare che codesto vostro avventore non abbia avuta la temerità di
proferir parole ingiuriose contro le gride, e di fare atti mali e indecenti
contro l'arme di sua eccellenza.
- Mi
faccia grazia, vossignoria: come può mai essere mio avventore, se lo vedo per
la prima volta? È il diavolo, con rispetto parlando, che l'ha mandato a casa
mia: e se lo conoscessi, vossignoria vede bene che non avrei avuto bisogno di
domandargli il suo nome.
- Però,
nella vostra osteria, alla vostra presenza, si son dette cose di fuoco: parole
temerarie, proposizioni sediziose, mormorazioni, strida, clamori.
- Come
vuole vossignoria ch'io badi agli spropositi che posson dire tanti urloni che
parlan tutti insieme? Io devo attendere a' miei interessi, che sono un pover'uomo.
E poi vossignoria sa bene che chi è di lingua sciolta, per il solito è anche
lesto di mano, tanto più quando sono una brigata, e...
- Sì,
sì; lasciateli fare e dire: domani, domani, vedrete se gli sarà passato il
ruzzo. Cosa credete?
- Io
non credo nulla.
- Che
la canaglia sia diventata padrona di Milano?
- Oh
giusto!
-
Vedrete, vedrete.
-
Intendo benissimo: il re sarà sempre il re; ma chi avrà riscosso, avrà
riscosso: e naturalmente un povero padre di famiglia non ha voglia di
riscotere. Lor signori hanno la forza: a lor signori tocca.
- Avete
ancora molta gente in casa?
- Un
visibilio.
- E
quel vostro avventore cosa fa? Continua a schiamazzare, a metter su la gente, a
preparar tumulti per domani?
- Quel
forestiero, vuol dire vossignoria: è andato a letto.
-
Dunque avete molta gente... Basta; badate a non lasciarlo scappare.
"Che
devo fare il birro io?" pensò l'oste; ma non disse né sì né no.
-
Tornate pure a casa; e abbiate giudizio, - riprese il notaio.
- Io ho
sempre avuto giudizio. Vossignoria può dire se ho mai dato da fare alla
giustizia.
- E non
crediate che la giustizia abbia perduta la sua forza.
- Io?
per carità! io non credo nulla: abbado a far l'oste.
- La
solita canzone: non avete mai altro da dire.
- Che
ho da dire altro? La verità è una sola.
-
Basta; per ora riteniamo ciò che avete deposto; se verrà poi il caso,
informerete più minutamente la giustizia, intorno a ciò che vi potrà venir
domandato.
- Cosa
ho da informare? io non so nulla; appena appena ho la testa da attendere ai
fatti miei.
-
Badate a non lasciarlo partire.
- Spero
che l'illustrissimo signor capitano saprà che son venuto subito a fare il mio
dovere. Bacio le mani a vossignoria.
Allo
spuntar del giorno, Renzo russava da circa sett'ore, ed era ancora, poveretto!
sul più bello, quando due forti scosse alle braccia, e una voce che dappiè del
letto gridava : - Lorenzo Tramaglino! - , lo fecero riscotere. Si risentì,
ritirò le braccia, aprì gli occhi a stento; e vide ritto appiè del letto un
uomo vestito di nero, e due armati, uno di qua, uno di là del capezzale. E, tra
la sorpresa, e il non esser desto bene, e la spranghetta di quel vino che
sapete, rimase un momento come incantato; e credendo di sognare, e non
piacendogli quel sogno, si dimenava, come per isvegliarsi affatto.
- Ah!
avete sentito una volta, Lorenzo Tramaglino? - disse l'uomo dalla cappa nera,
quel notaio medesimo della sera avanti. - Animo dunque; levatevi, e venite con
noi.
-
Lorenzo Tramaglino! - disse Renzo Tramaglino: - cosa vuol dir questo? Cosa
volete da me? Chi v'ha detto il mio nome?
- Meno
ciarle, e fate presto, - disse uno de' birri che gli stavano a fianco,
prendendogli di nuovo il braccio.
- Ohe!
che prepotenza è questa? - gridò Renzo, ritirando il braccio. - Oste! o l'oste!
- Lo
portiam via in camicia? - disse ancora quel birro, voltandosi al notaio.
- Avete
inteso? - disse questo a Renzo: - si farà così, se non vi levate subito subito,
per venir con noi.
- E
perché? - domandò Renzo.
- Il
perché lo sentirete dal signor capitano di giustizia.
- Io? Io
sono un galantuomo: non ho fatto nulla; e mi maraviglio...
-
Meglio per voi, meglio per voi; così, in due parole sarete spicciato, e potrete
andarvene per i fatti vostri.
- Mi
lascino andare ora, - disse Renzo: - io non ho che far nulla con la giustizia.
- Orsù,
finiamola! - disse un birro.
- Lo
portiamo via davvero? - disse l'altro.
-
Lorenzo Tramaglino! - disse il notaio.
- Come
sa il mio nome, vossignoria?
- Fate
il vostro dovere, - disse il notaio a' birri; i quali misero subito le mani
addosso a Renzo, per tirarlo fuori del letto.
- Eh!
non toccate la carne d'un galantuomo, che...! Mi so vestir da me.
-
Dunque vestitevi subito, - disse il notaio.
- Mi
vesto, - rispose Renzo; e andava di fatti raccogliendo qua e là i panni sparsi
sul letto, come gli avanzi d'un naufragio sul lido. E cominciando a metterseli,
proseguiva tuttavia dicendo: - ma io non ci voglio andare dal capitano di
giustizia. Non ho che far nulla con lui. Giacché mi si fa quest'affronto
ingiustamente, voglio esser condotto da Ferrer. Quello lo conosco, so che è un
galantuomo; e m'ha dell'obbligazioni.
- Sì,
sì, figliuolo, sarete condotto da Ferrer, - rispose il notaio. In altre
circostanze, avrebbe riso, proprio di gusto, d'una richiesta simile; ma non era
momento da ridere. Già nel venire, aveva visto per le strade un certo
movimento, da non potersi ben definire se fossero rimasugli d'una sollevazione
non del tutto sedata, o princìpi d'una nuova: uno sbucar di persone, un
accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi. E ora, senza farne sembiante,
o cercando almeno di non farlo, stava in orecchi, e gli pareva che il ronzìo
andasse crescendo. Desiderava dunque di spicciarsi; ma avrebbe anche voluto
condur via Renzo d'amore e d'accordo; giacché, se si fosse venuti a guerra
aperta con lui, non poteva esser certo, quando fossero in istrada, di trovarsi
tre contr'uno. Perciò dava d'occhio a' birri, che avessero pazienza, e non
inasprissero il giovine; e dalla parte sua, cercava di persuaderlo con buone
parole. Il giovine intanto, mentre si vestiva adagino adagino, richiamandosi,
come poteva, alla memoria gli avvenimenti del giorno avanti, indovinava bene, a
un di presso, che le gride e il nome e il cognome dovevano esser la causa di
tutto; ma come diamine colui lo sapeva quel nome? E che diamine era accaduto in
quella notte, perché la giustizia avesse preso tant'animo, da venire a colpo
sicuro, a metter le mani addosso a uno de' buoni figliuoli che, il giorno
avanti, avevan tanta voce in capitolo? e che non dovevano esser tutti
addormentati, poiché Renzo s'accorgeva anche lui d'un ronzìo crescente nella
strada. Guardando poi in viso il notaio, vi scorgeva in pelle in pelle la
titubazione che costui si sforzava invano di tener nascosta. Onde, così per
venire in chiaro delle sue congetture, e scoprir paese, come per tirare in
lungo, e anche per tentare un colpo, disse: - vedo bene cos'è l'origine di
tutto questo: gli è per amor del nome e del cognome. Ier sera veramente ero un
po' allegro: questi osti alle volte hanno certi vini traditori; e alle volte,
come dico, si sa, quando il vino è giù, è lui che parla. Ma, se non si tratta
d'altro, ora son pronto a darle ogni soddisfazione. E poi, già lei lo sa il mio
nome. Chi diamine gliel ha detto?
-
Bravo, figliuolo, bravo! - rispose il notaio, tutto manieroso: - vedo che avete
giudizio; e, credete a me che son del mestiere, voi siete più furbo che
tant'altri. È la miglior maniera d'uscirne presto e bene: con codeste buone
disposizioni, in due parole siete spicciato, e lasciato in libertà. Ma io,
vedete figliuolo, ho le mani legate, non posso rilasciarvi qui, come vorrei.
Via, fate presto, e venite pure senza timore; che quando vedranno chi siete; e
poi io dirò... Lasciate fare a me... Basta; sbrigatevi, figliuolo.
- Ah!
lei non può: intendo, - disse Renzo; e continuava a vestirsi, rispingendo con
de' cenni i cenni che i birri facevano di mettergli le mani addosso, per farlo
spicciare.
-
Passeremo dalla piazza del duomo? - domandò poi al notaio.
- Di
dove volete; per la più corta, affine di lasciarvi più presto in libertà, -
disse quello, rodendosi dentro di sé, di dover lasciar cadere in terra quella
domanda misteriosa di Renzo, che poteva divenire un tema di cento
interrogazioni. "Quando uno nasce disgraziato!" pensava. "Ecco;
mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro che cantare; e, un po'
di respiro che s'avesse, così extra formam, accademicamente, in via di
discorso amichevole, gli si farebbe confessar, senza corda, quel che uno
volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell'e esaminato, senza che se ne
fosse accorto: e un uomo di questa sorte mi deve per l'appunto capitare in un
momento così angustiato. Eh! non c'è scampo", continuava a pensare,
tendendo gli orecchi, e piegando la testa all'indietro: "non c'è rimedio;
e' risica d'essere una giornata peggio di ieri". Ciò che lo fece pensar
così, fu un rumore straordinario che si sentì nella strada: e non poté tenersi
di non aprir l'impannata, per dare un'occhiatina. Vide ch'era un crocchio di
cittadini, i quali, all'intimazione di sbandarsi, fatta loro da una pattuglia,
avevan da principio risposto con cattive parole, e finalmente si separavan
continuando a brontolare; e quel che al notaio parve un segno mortale, i
soldati eran pieni di civiltà. Chiuse l'impannata, e stette un momento in forse,
se dovesse condur l'impresa a termine, o lasciar Renzo in guardia de' due
birri, e correr dal capitano di giustizia, a render conto di ciò che accadeva.
"Ma", pensò subito, "mi si dirà che sono un buon a nulla, un
pusillanime, e che dovevo eseguir gli ordini. Siamo in ballo; bisogna ballare.
Malannaggia la furia! Maledetto il mestiere!"
Renzo
era levato; i due satelliti gli stavano a' fianchi. Il notaio accennò a costoro
che non lo sforzasser troppo, e disse a lui: - da bravo, figliuolo; a noi,
spicciatevi.
Anche
Renzo sentiva, vedeva e pensava. Era ormai tutto vestito, salvo il farsetto,
che teneva con una mano, frugando con l'altra nelle tasche. - Ohe! - disse,
guardando il notaio, con un viso molto significante: - qui c'era de' soldi e
una lettera. Signor mio!
- Vi
sarà dato ogni cosa puntualmente, - disse il notaio, dopo adempite quelle poche
formalità. Andiamo, andiamo.
- No,
no, no, - disse Renzo, tentennando il capo: - questa non mi va: voglio la roba
mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia.
-
Voglio farvi vedere che mi fido di voi: tenete, e fate presto, - disse il
notaio, levandosi di seno, e consegnando, con un sospiro, a Renzo le cose
sequestrate. Questo, riponendole al loro posto, mormorava tra' denti: - alla
larga! bazzicate tanto co' ladri, che avete un poco imparato il mestiere -. I
birri non potevan più stare alle mosse; ma il notaio li teneva a freno con gli
occhi, e diceva intanto tra sé: "se tu arrivi a metter piede dentro quella
soglia, l'hai da pagar con usura, l'hai da pagare".
Mentre
Renzo si metteva il farsetto, e prendeva il cappello, il notaio fece cenno a un
de' birri, che s'avviasse per la scala; gli mandò dietro il prigioniero, poi
l'altro amico; poi si mosse anche lui. In cucina che furono, mentre Renzo dice:
- e quest'oste benedetto dove s'è cacciato? - il notaio fa un altro cenno a'
birri; i quali afferrano, l'uno la destra, l'altro la sinistra del giovine, e
in fretta in fretta gli legano i polsi con certi ordigni, per quell'ipocrita
figura d'eufemismo, chiamati manichini. Consistevano questi (ci dispiace di
dover dlscendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza
lo richiede), consistevano in una cordicella lunga un po' più che il giro d'un
polso ordinario, la quale aveva nelle cime due pezzetti di legno, come due
piccole stanghette. La cordicella circondava il polso del paziente; i legnetti,
passati tra il medio e l'anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi in
pugno, di modo che, girandoli, ristringeva la legatura, a volontà; e con ciò
aveva mezzo, non solo d'assicurare la presa, ma anche di martirizzare un
ricalcitrante: e a questo fine, la cordicella era sparsa di nodi.
Renzo
si divincola, grida: - che tradimento è questo? A un galantuomo...! - Ma il
notaio, che per ogni tristo fatto aveva le sue buone parole, - abbiate
pazienza, - diceva: - fanno il loro dovere. Cosa volete? son tutte formalità; e
anche noi non possiamo trattar la gente a seconda del nostro cuore. Se non si
facesse quello che ci vien comandato, staremmo freschi noi altri, peggio di
voi. Abbiate pazienza.
Mentre
parlava, i due a cui toccava a fare, diedero una girata a' legnetti. Renzo
s'acquietò, come un cavallo bizzarro che si sente il labbro stretto tra le
morse, e esclamò: - pazienza!
- Bravo
figliuolo! - disse il notaio: - questa è la vera maniera d'uscirne a bene. Cosa
volete? è una seccatura; lo vedo anch'io; ma, portandovi bene, in un momento ne
siete fuori. E giacché vedo che siete ben disposto, e io mi sento inclinato a
aiutarvi, voglio darvi anche un altro parere, per vostro bene. Credete a me,
che son pratico di queste cose: andate via diritto diritto, senza guardare in
qua e in là, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno s'avvede di
quel che è; e voi conservate il vostro onore. Di qui a un'ora voi siete in
libertà: c'è tanto da fare, che avranno fretta anche loro di sbrigarvi: e poi
parlerò io... Ve n'andate per i fatti vostri; e nessuno saprà che siete stato
nelle mani della giustizia. E voi altri, - continuò poi, voltandosi a' birri,
con un viso severo: - guardate bene di non fargli male, perché lo proteggo io:
il vostro dovere bisogna che lo facciate; ma ricordatevi che è un galantuomo,
un giovine civile, il quale, di qui a poco, sarà in libertà; e che gli deve
premere il suo onore. Andate in maniera che nessuno s'avveda di nulla: come se
foste tre galantuomini che vanno a spasso -. E, con tono imperativo, e con
sopracciglio minaccioso, concluse: - m'avete inteso -. Voltatosi poi a Renzo,
col sopracciglio spianato, e col viso divenuto a un tratto ridente, che pareva
volesse dire: oh noi sì che siamo amici!, gli bisbigliò di nuovo: - giudizio;
fate a mio modo: andate raccolto e quieto; fidatevi di chi vi vuol bene:
andiamo -. E la comitiva s'avviò.
Però,
di tante belle parole Renzo, non ne credette una: né che il notaio volesse più
bene a lui che a' birri, né che prendesse tanto a cuore la sua riputazione, né
che avesse intenzion d'aiutarlo: capì benissimo che il galantuomo, temendo che
si presentasse per la strada qualche buona occasione di scappargli dalle mani,
metteva innanzi que' bei motivi, per istornar lui dallo starci attento e da
approfittarne. Dimodoché tutte quelle esortazioni non servirono ad altro che a
confermarlo nel disegno che già aveva in testa, di far tutto il contrario.
Nessuno
concluda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perché
s'ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il quale pare
che fosse nel numero de' suoi amici: ma, in quel momento, si trovava con
l'animo agitato. A sangue freddo, vi so dir io come si sarebbe fatto beffe di
chi, per indurre un altro a fare una cosa per sé sospetta, fosse andato
suggerendogliela e inculcandogliela caldamente, con quella miserabile finta di
dargli un parere disinteressato, da amico. Ma è una tendenza generale degli
uomini, quando sono agitati e angustiati, e vedono ciò che un altro potrebbe
fare per levarli d'impiccio, di chiederglielo con istanza e ripetutamente e con
ogni sorte di pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono
anche loro sotto questa legge comune. Quindi è che, in simili circostanze,
fanno per lo più una così meschina figura. Que' ritrovati maestri, quelle belle
malizie, con le quali sono avvezzi a vincere, che son diventate per loro quasi
una seconda natura, e che, messe in opera a tempo, e condotte con la pacatezza
d'animo, con la serenità di mente necessarie, fanno il colpo così bene e così
nascostamente, e conosciute anche, dopo la riuscita, riscotono l'applauso
universale; i poverini quando sono alle strette, le adoprano in fretta,
all'impazzata, senza garbo né grazia. Di maniera che a uno che li veda
ingegnarsi e arrabattarsi a quel modo, fanno pietà e movon le risa, e l'uomo
che pretendono allora di mettere in mezzo, quantunque meno accorto di loro,
scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quegli artifizi ricava lume per sé,
contro di loro. Perciò non si può mai abbastanza raccomandare a' furbi di
professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o d'esser sempre i più
forti, che è la più sicura.
Renzo
adunque, appena furono in istrada, cominciò a girar gli occhi in qua e in là, a
sporgersi con la persona, a destra e a sinistra, a tender gli orecchi. Non
c'era però concorso straordinario; e benché sul viso di più d'un passeggiero si
potesse legger facilmente un certo non so che di sedizioso, pure ognuno andava
diritto per la sua strada; e sedizione propriamente detta, non c'era.
-
Giudizio, giudizio! - gli susurrava il notaio dietro le spalle: - il vostro
onore; l'onore, figliuolo -. Ma quando Renzo, badando attentamente a tre che
venivano con visi accesi, sentì che parlavan d'un forno, di farina nascosta, di
giustizia, cominciò anche a far loro de' cenni col viso, e a tossire in quel
modo che indica tutt'altro che un raffreddore. Quelli guardarono più
attentamente la comitiva, e si fermarono; con loro si fermarono altri che
arrivavano; altri, che gli eran passati davanti, voltatisi al bisbiglìo,
tornavano indietro, e facevan coda.
-
Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i fatti
vostri; l'onore, la riputazione, - continuava a susurrare il notaio. Renzo
faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l'occhio, pensando di far
bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini.
- Ahi!
ahi! ahi! - grida il tormentato: al grido, la gente s'affolla intorno;
n'accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. - È un
malvivente, - bisbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: - è un
ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passar la giustizia -. Ma Renzo,
visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi,
"se non m'aiuto ora, pensò, mio danno". E subito alzò la voce: -
figliuoli! mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia. Non
ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m'abbandonate, figliuoli!
Un
mormorìo favorevole, voci più chiare di protezione s'alzano in risposta: i
birri sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano i più vicini
d'andarsene, e di far largo: la folla in vece incalza e pigia sempre più.
Quelli, vista la mala parata, lascian andare i manichini, e non si curan più
d'altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio
desiderava ardentemente di far lo stesso; ma c'era de' guai, per amor della
cappa nera. Il pover'uomo, pallido e sbigottito, cercava di farsi piccino
piccino, s'andava storcendo, per isgusciar fuor della folla; ma non poteva
alzar gli occhi, che non se ne vedesse venti addosso. Studiava tutte le maniere
di comparire un estraneo che, passando di lì a caso, si fosse trovato stretto
nella calca, come una pagliucola nel ghiaccio; e riscontrandosi a viso a viso
con uno che lo guardava fisso, con un cipiglio peggio degli altri, lui,
composta la bocca al sorriso, con un suo fare sciocco, gli domandò: - cos'è
stato?
- Uh
corvaccio! - rispose colui. - Corvaccio! corvaccio! - risonò all'intorno. Alle
grida s'aggiunsero gli urtoni; di maniera che, in poco tempo, parte con le
gambe proprie, parte con le gomita altrui, ottenne ciò che più gli premeva in
quel momento, d'esser fuori di quel serra serra.
-
Scappa, scappa, galantuomo: lì c'è un convento, ecco là una chiesa; di qui, di
là, - si grida a Renzo da ogni parte. In quanto allo scappare, pensate se aveva
bisogno di consigli. Fin dal primo momento che gli era balenato in mente una
speranza d'uscir da quell'unghie, aveva cominciato a fare i suoi conti, e
stabilito, se questo gli riusciva, d'andare senza fermarsi, fin che non fosse
fuori, non solo della città, ma del ducato. "Perché", aveva pensato,
"il mio nome l'hanno su' loro libracci, in qualunque maniera l'abbiano
avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono". E in
quanto a un asilo, non vi si sarebbe cacciato che quando avesse avuto i birri
alle spalle. "Perché, se posso essere uccel di bosco", aveva anche
pensato, "non voglio diventare uccel di gabbia". Aveva dunque
disegnato per suo rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dov'era
accasato quel suo cugino Bortolo, se ve ne rammentate, che più volte l'aveva
invitato a andar là. Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una
parte sconosciuta d'una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure
da che porta s'uscisse per andare a Bergamo; e quando l'avesse saputo, non sapeva
poi andare alla porta. Fu lì lì per farsi insegnar la strada da qualcheduno de'
suoi liberatori; ma siccome nel poco tempo che aveva avuto per meditare su'
casi suoi, gli eran passate per la mente certe idee su quello spadaio così
obbligante, padre di quattro figliuoli, così, a buon conto, non volle
manifestare i suoi disegni a una gran brigata, dove ce ne poteva essere qualche
altro di quel conio; e risolvette subito d'allontanarsi in fretta di lì: che la
strada se la farebbe poi insegnare, in luogo dove nessuno sapesse chi era, né
il perché la domandasse. Disse a' suoi liberatori: - grazie tante, figliuoli:
siate benedetti, - e, uscendo per il largo che gli fu fatto immediatamente,
prese la rincorsa, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò
un pezzo, senza saper dove. Quando gli parve d'essersi allontanato abbastanza,
rallentò il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardare in qua e in là,
per isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse
confidenza. Ma anche qui c'era dell'imbroglio. La domanda per sé era sospetta;
il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan
senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella
fuga poteva essere arrivata fin là; e in tali strette, Renzo dovette fare forse
dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a
proposito. Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a
gambe larghe, con le mani di dietro, con la pancia in fuori, col mento in aria,
dal quale pendeva una gran pappagorgia, e che, non avendo altro che fare,
andava alternativamente sollevando sulla punta de' piedi la sua massa
tremolante, e lasciandola ricadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone
curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle
interrogazioni. Quell'altro che veniva innanzi, con gli occhi fissi, e col
labbro in fuori, non che insegnar presto e bene la strada a un altro, appena
pareva conoscer la sua. Quel ragazzotto, che, a dire il vero, mostrava d'esser
molto sveglio, mostrava però d'essere anche più malizioso; e probabilmente
avrebbe avuto un gusto matto a far andare un povero contadino dalla parte
opposta a quella che desiderava. Tant'è vero che all'uomo impicciato, quasi
ogni cosa è un nuovo impiccio! Visto finalmente uno che veniva in fretta, pensò
che questo, avendo probabilmente qualche affare pressante, gli risponderebbe
subito, senz'altre chiacchiere; e sentendolo parlar da sé, giudicò che dovesse
essere un uomo sincero. Gli s'accostò, e disse: - di grazia, quel signore, da
che parte si va per andare a Bergamo?
- Per
andare a Bergamo? Da porta orientale.
-
Grazie tante; e per andare a porta orientale?
-
Prendete questa strada a mancina; vi troverete sulla piazza del duomo; poi...
- Basta,
signore; il resto lo so. Dio gliene renda merito -. E diviato s'incamminò dalla
parte che gli era stata indicata. L'altro gli guardò dietro un momento, e,
accozzando nel suo pensiero quella maniera di camminare con la domanda, disse
tra sé: "o n'ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare a lui".
Renzo
arriva sulla piazza del duomo; l'attraversa, passa accanto a un mucchio di
cenere e di carboni spenti, e riconosce gli avanzi del falò di cui era stato
spettatore il giorno avanti; costeggia gli scalini del duomo, rivede il forno
delle grucce, mezzo smantellato, e guardato da soldati; e tira diritto per la
strada da cui era venuto insieme con la folla; arriva al convento de'
cappuccini; dà un'occhiata a quella piazza e alla porta della chiesa, e dice
tra sé, sospirando: "m'aveva però dato un buon parere quel frate di ieri:
che stessi in chiesa a aspettare, e a fare un po' di bene".
Qui,
essendosi fermato un momento a guardare attentamente alla porta per cui doveva
passare, e vedendovi, così da lontano, molta gente a guardia, e avendo la
fantasia un po' riscaldata (bisogna compatirlo; aveva i suoi motivi), provò una
certa ripugnanza ad affrontare quel passo. Si trovava così a mano un luogo
d'asilo, e dove, con quella lettera, sarebbe ben raccomandato; fu tentato
fortemente d'entrarvi. Ma, subito ripreso animo, pensò: "uccel di bosco,
fin che si può. Chi mi conosce? Di ragione, i birri non si saran fatti in
pezzi, per andarmi ad aspettare a tutte le porte". Si voltò, per vedere se
mai venissero da quella parte: non vide né quelli, né altri che paressero
occuparsi di lui. Va innanzi; rallenta quelle gambe benedette, che volevan
sempre correre, mentre conveniva soltanto camminare; e adagio adagio,
fischiando in semitono, arriva alla porta.
C'era,
proprio sul passo, un mucchio di gabellini, e, per rinforzo, anche de'
micheletti spagnoli; ma stavan tutti attenti verso il di fuori, per non
lasciare entrar di quelli che, alla notizia d'una sommossa, v'accorrono, come i
corvi al campo dove è stata data battaglia; di maniera che Renzo, con un'aria
indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno
che vada a spasso, uscì, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di
dentro faceva un gran battere. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella,
per evitare la strada maestra; e camminò un pezzo prima di voltarsi neppure
indietro.
Cammina,
cammina; trova cascine, trova villaggi, tira innanzi senza domandarne il nome;
è certo d'allontanarsi da Milano, spera d'andar verso Bergamo; questo gli basta
per ora. Ogni tanto, si voltava indietro; ogni tanto, andava anche guardando e
strofinando or l'uno or l'altro polso, ancora un po' indolenziti, e segnati in
giro d'una striscia rosseggiante, vestigio della cordicella. I suoi pensieri
erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di pentimenti,
d'inquietudini, di rabbie, di tenerezze; era uno studio faticoso di
raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta
della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avean potuto risapere il suo
nome. I suoi sospetti cadevan naturalmente sullo spadaio, al quale si
rammentava bene d'averlo spiattellato. E ripensando alla maniera con cui gliel
aveva cavato di bocca, e a tutto il fare di colui, e a tutte quell'esibizioni
che riuscivan sempre a voler saper qualcosa, il sospetto diveniva quasi
certezza. Se non che si rammentava poi anche, in confuso, d'aver, dopo la
partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo; di
cosa, la memoria, per quanto venisse esaminata, non lo sapeva dire: non sapeva
dir altro che d'essersi in quel tempo trovata fuor di casa. Il poverino si
smarriva in quella ricerca: era come un uomo che ha sottoscritti molti fogli
bianchi, e gli ha affidati a uno che credeva il fior de' galantuomini; e
scoprendolo poi un imbroglione, vorrebbe conoscere lo stato de' suoi affari:
che conoscere? è un caos. Un altro studio penoso era quello di far
sull'avvenire un disegno che gli potesse piacere: quelli che non erano in aria,
eran tutti malinconici.
Ma ben
presto, lo studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato
un pezzo, si può dire, alla ventura, vide che da sé non ne poteva uscire.
Provava bensì una certa ripugnanza a metter fuori quella parola Bergamo, come
se avesse un non so che di sospetto, di sfacciato; ma non si poteva far di
meno. Risolvette dunque di rivolgersi, come aveva fatto in Milano, al primo
viandante la cui fisonomia gli andasse a genio; e così fece.
- Siete
fuor di strada, - gli rispose questo; e, pensatoci un poco, parte con parole,
parte co' cenni, gl'indicò il giro che doveva fare, per rimettersi sulla strada
maestra. Renzo lo ringraziò, fece le viste di far come gli era stato detto,
prese in fatti da quella parte, con intenzione però d'avvicinarsi bensì a quella
benedetta strada maestra, di non perderla di vista, di costeggiarla più che
fosse possibile; ma senza mettervi piede. Il disegno era più facile da
concepirsi che da eseguirsi. La conclusione fu che, andando così da destra a
sinistra, e, come si dice, a zig zag, parte seguendo l'altre indicazioni che si
faceva coraggio a pescar qua e là, parte correggendole secondo i suoi lumi, e
adattandole al suo intento, parte lasciandosi guidar dalle strade in cui si
trovava incamminato, il nostro fuggitivo aveva fatte forse dodici miglia, che
non era distante da Milano più di sei; e in quanto a Bergamo, era molto se non
se n'era allontanato. Cominciò a persuadersi che, anche in quella maniera, non
se n'usciva a bene; e pensò a trovar qualche altro ripiego. Quello che gli
venne in mente, fu di scovar, con qualche astuzia, il nome di qualche paese
vicino al confine, e al quale si potesse andare per istrade comunali: e
domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza seminar qua e là
quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto, di
criminale.
Mentre
cerca la maniera di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto, vede
pendere una frasca da una casuccia solitaria, fuori d'un paesello. Da qualche
tempo, sentiva anche crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì
sarebbe il luogo di fare i due servizi in una volta; entrò. Non c'era che una
vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu
offerto un po' di stracchino e del vin buono: accettò lo stracchino, del vino
la ringraziò (gli era venuto in odio, per quello scherzo che gli aveva fatto la
sera avanti); e si mise a sedere, pregando la donna che facesse presto. Questa,
in un momento, ebbe messo in tavola; e subito dopo cominciò a tempestare il suo
ospite di domande, e sul suo essere, e sui gran fatti di Milano: ché la voce
n'era arrivata fin là. Renzo, non solo seppe schermirsi dalle domande, con
molta disinvoltura; ma, approfittandosi della difficoltà medesima, fece servire
al suo intento la curiosità della vecchia, che gli domandava dove fosse
incamminato.
- Devo
andare in molti luoghi, - rispose: - e, se trovo un ritaglio di tempo, vorrei
anche passare un momento da quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di
Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano... Come si chiama? -
"Qualcheduno ce ne sarà", pensava intanto tra sé.
-
Gorgonzola, volete dire, - rispose la vecchia.
-
Gorgonzola! - ripeté Renzo, quasi per mettersi meglio in mente la parola. - È
molto lontano di qui? - riprese poi.
- Non
lo so precisamente: saranno dieci, saranno dodici miglia. Se ci fosse
qualcheduno de' miei figliuoli, ve lo saprebbe dire.
- E
credete che ci si possa andare per queste belle viottole, senza prender la
strada maestra? dove c'è una polvere, una polvere! Tanto tempo che non piove!
- A me
mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta
-. E glielo nominò.
- Va
bene; - disse Renzo; s'alzò, prese un pezzo di pane che gli era avanzato della
magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno
avanti, appiè della croce di san Dionigi; pagò il conto, uscì, e prese a
diritta. E, per non ve l'allungar più del bisogno, col nome di Gorgonzola in
bocca, di paese in paese, ci arrivò, un'ora circa prima di sera.
Già
cammin facendo, aveva disegnato di far lì un'altra fermatina, per fare un pasto
un po' più sostanzioso. Ilcorpo avrebbe anche gradito un po' di letto; ma prima
che contentarlo in questo, Renzo l'avrebbe lasciato cader rifinito sulla
strada. Il suo proposito era d'informarsi all'osteria, della distanza
dell'Adda, di cavar destramente notizia di qualche traversa che mettesse là, e
di rincamminarsi da quella parte, subito dopo essersi rinfrescato. Nato e
cresciuto alla seconda sorgente, per dir così, di quel fiume, aveva sentito dir
più volte, che, a un certo punto, e per un certo tratto, esso faceva confine
tra lo stato milanese e il veneto: del punto e del tratto non aveva un'idea
precisa; ma, allora come allora, l'affar più urgente era di passarlo, dovunque
si fosse. Se non gli riusciva in quel giorno, era risoluto di camminare fin che
l'ora e la lena glielo permettessero: e d'aspettar poi l'alba, in un campo, in
un deserto; dove piacesse a Dio; pur che non fosse un'osteria.
Fatti
alcuni passi in Gorgonzola, vide un'insegna, entrò; e all'oste, che gli venne
incontro, chiese un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più, e il
tempo gli avevan fatto passare quell'odio così estremo e fanatico. - Vi prego
di far presto, soggiunse: - perché ho bisogno di rimettermi subito in istrada
-. E questo lo disse, non solo perché era vero, ma anche per paura che l'oste,
immaginandosi che volesse dormir lì, non gli uscisse fuori a domandar del nome
e del cognome, e donde veniva, e per che negozio... Alla larga!
L'oste
rispose a Renzo, che sarebbe servito; e questo si mise a sedere in fondo della
tavola, vicino all'uscio: il posto de' vergognosi.
C'erano
in quella stanza alcuni sfaccendati del paese, i quali, dopo aver discusse e
commentate le gran notizie di Milano del giorno avanti, si struggevano di
sapere un poco come fosse andata anche in quel giorno; tanto più che quelle
prime eran più atte a stuzzicar la curiosità, che a soddisfarla: una
sollevazione, né soggiogata né vittoriosa, sospesa più che terminata dalla
notte; una cosa tronca, la fine d'un atto piuttosto che d'un dramma. Un di
coloro si staccò dalla brigata, s'accostò al soprarrivato, e gli domandò se
veniva da Milano.
- Io? -
disse Renzo sorpreso, per prender tempo a rispondere.
- Voi,
se la domanda è lecita.
Renzo,
tentennando il capo, stringendo le labbra, e facendone uscire un suono
inarticolato, disse: - Milano, da quel che ho sentito dire... non dev'essere un
luogo da andarci in questi momenti, meno che per una gran necessità.
-
Continua dunque anche oggi il fracasso? - domandò, con più istanza, il curioso.
-
Bisognerebbe esser là, per saperlo, - disse Renzo.
- Ma
voi, non venite da Milano?
- Vengo
da Liscate, - rispose lesto il giovine, che intanto aveva pensata la sua
risposta. Ne veniva in fatti, a rigor di termini, perché c'era passato; e il
nome l'aveva saputo, a un certo punto della strada, da un viandante che gli
aveva indicato quel paese come il primo che doveva attraversare, per arrivare a
Gorgonzola.
- Oh! -
disse l'amico; come se volesse dire: faresti meglio a venir da Milano, ma
pazienza. - E a Liscate, - soggiunse, - non si sapeva niente di Milano?
-
Potrebb'essere benissimo che qualcheduno là sapesse qualche cosa, - rispose il
montanaro: - ma io non ho sentito dir nulla.
E
queste parole le proferì in quella maniera particolare che par che voglia dire:
ho finito. Il curioso ritornò al suo posto; e, un momento dopo, l'oste venne a
mettere in tavola.
-
Quanto c'è di qui all'Adda? - gli disse Renzo, mezzo tra' denti, con un fare da
addormentato, che gli abbiam visto qualche altra volta.
-
All'Adda, per passare? - disse l'oste.
-
Cioè... sì... all'Adda.
-
Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di Canonica?
- Dove
si sia... Domando così per curiosità.
- Eh,
volevo dire, perché quelli sono i luoghi dove passano i galantuomini, la gente
che può dar conto di sé.
- Va
bene: e quanto c'è?
- Fate
conto che, tanto a un luogo, come all'altro, poco più, poco meno, ci sarà sei
miglia.
- Sei
miglia! non credevo tanto, - disse Renzo. - E già, - e già, chi avesse bisogno
di prendere una scorciatoia, ci saranno altri luoghi da poter passare?
- Ce
n'è sicuro, - rispose l'oste, ficcandogli in viso due occhi pieni d'una
curiosità maliziosa. Bastò questo per far morir tra' denti al giovine l'altre
domande che aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e guardando la mezzetta
che l'oste aveva posata, insieme con quello, sulla tavola, disse: - il vino è
sincero?
Come
l'oro, - disse l'oste: - domandatene pure a tutta la gente del paese e del
contorno, che se n'intende: e poi, lo sentirete -. E così dicendo, tornò verso
la brigata.
"Maledetti
gli osti!" esclamò Renzo tra sé: "più ne conosco, peggio li
trovo". Non ostante, si mise a mangiare con grand'appetito, stando, nello
stesso tempo, in orecchi, senza che paresse suo fatto, per veder di scoprir
paese, di rilevare come si pensasse colà sul grand'avvenimento nel quale egli
aveva avuta non piccola parte, e d'osservare specialmente se, tra que'
parlatori, ci fosse qualche galantuomo, a cui un povero figliuolo potesse
fidarsi di domandar la strada, senza timore d'esser messo alle strette, e
forzato a ciarlare de' fatti suoi.
- Ma! -
diceva uno: - questa volta par proprio che i milanesi abbian voluto far
davvero. Basta; domani al più tardi, si saprà qualcosa.
- Mi
pento di non esser andato a Milano stamattina, - diceva un altro.
- Se
vai domani, vengo anch'io, - disse un terzo; poi un altro, poi un altro.
- Quel
che vorrei sapere, - riprese il primo, - è se que' signori di Milano penseranno
anche alla povera gente di campagna, o se faranno far la legge buona solamente
per loro. Sapete come sono eh? Cittadini superbi, tutto per loro: gli altri,
come se non ci fossero.
- La
bocca l'abbiamo anche noi, sia per mangiare, sia per dir la nostra ragione, -
disse un altro, con voce tanto più modesta, quanto più la proposizione era
avanzata: - e quando la cosa sia incamminata... - Ma credette meglio di non
finir la frase.
- Del
grano nascosto, non ce n'è solamente in Milano, - cominciava un altro, con
un'aria cupa e maliziosa; quando sentono avvicinarsi un cavallo. Corron tutti
all'uscio; e, riconosciuto colui che arrivava, gli vanno incontro. Era un
mercante di Milano, che, andando più volte l'anno a Bergamo, per i suoi
traffichi, era solito passar la notte in quell'osteria; e siccome ci trovava
quasi sempre la stessa compagnia, li conosceva tutti. Gli s'affollano intorno;
uno prende la briglia, un altro la staffa. - Ben arrivato, ben arrivato!
- Ben
trovati.
- Avete
fatto buon viaggio?
-
Bonissimo; e voi altri, come state?
- Bene,
bene. Che nuove ci portate di Milano?
- Ah!
ecco quelli delle novità, - disse il mercante, smontando, e lasciando il
cavallo in mano d'un garzone. - E poi, e poi, continuò, entrando con la
compagnia, - a quest'ora le saprete forse meglio di me.
- Non
sappiamo nulla, davvero, - disse più d'uno, mettendosi la mano al petto.
-
Possibile? - disse il mercante. - Dunque ne sentirete delle belle... o delle
brutte. Ehi, oste, il mio letto solito è in libertà? Bene: un bicchier di vino,
e il mio solito boccone, subito; perché voglio andare a letto presto, per
partir presto domattina, e arrivare a Bergamo per l'ora del desinare. E voi
altri, - continuò, mettendosi a sedere, dalla parte opposta a quella dove stava
Renzo, zitto e attento, - voi altri non sapete di tutte quelle diavolerie di
ieri?
- Di
ieri sì.
-
Vedete dunque, - riprese il mercante, - se le sapete le novità. Lo dicevo io
che, stando qui sempre di guardia, per frugar quelli che passano...
- Ma
oggi, com'è andata oggi?
- Ah
oggi. Non sapete niente d'oggi?
-
Niente affatto: non è passato nessuno.
-
Dunque lasciatemi bagnar le labbra; e poi vi dirò le cose d'oggi. Sentirete -.
Empì il bicchiere, lo prese con una mano, poi con le prime due dita dell'altra
sollevò i baffi, poi si lisciò la barba, bevette, e riprese: - oggi, amici
cari, ci mancò poco, che non fosse una giornata brusca come ieri, o peggio. E
non mi par quasi vero d'esser qui a chiacchierar con voi altri; perché avevo
già messo da parte ogni pensiero di viaggio, per restare a guardar la mia
povera bottega.
- Che
diavolo c'era? - disse uno degli ascoltanti.
-
Proprio il diavolo: sentirete -. E trinciando la pietanza che gli era stata
messa davanti, e poi mangiando, continuò il suo racconto. I compagni, ritti di
qua e di là della tavola, lo stavano a sentire, con la bocca aperta; Renzo, al
suo posto, senza che paresse suo fatto, stava attento, forse più di tutti,
masticando adagio adagio gli ultimi suoi bocconi.
-
Stamattina dunque que' birboni che ieri avevano fatto quel chiasso orrendo, si
trovarono a' posti convenuti (già c'era un'intelligenza: tutte cose preparate);
si riunirono, e ricominciarono quella bella storia di girare di strada in
strada, gridando per tirar altra gente. Sapete che è come quando si spazza, con
riverenza parlando, la casa; il mucchio del sudiciume ingrossa quanto più va
avanti. Quando parve loro d'esser gente abbastanza, s'avviarono verso la casa
del signor vicario di provvisione; come se non bastassero le tirannie che gli
hanno fatte ieri: a un signore di quella sorte! oh che birboni! E la roba che
dicevan contro di lui! Tutte invenzioni: un signor dabbene, puntuale; e io lo
posso dire, che son tutto di casa, e lo servo di panno per le livree della
servitù. S'incamminaron dunque verso quella casa: bisognava veder che canaglia,
che facce: figuratevi che son passati davanti alla mia bottega: facce che... i
giudei della Via Crucis non ci son per nulla. E le cose che uscivan da
quelle bocche! da turarsene gli orecchi, se non fosse stato che non tornava
conto di farsi scorgere. Andavan dunque con la buona intenzione di dare il
sacco; ma... - E qui, alzata in aria, e stesa la mano sinistra, si mise la
punta del pollice alla punta del naso.
- Ma? -
dissero forse tutti gli ascoltatori.
- Ma, -
continuò il mercante, - trovaron la strada chiusa con travi e con carri, e,
dietro quella barricata, una bella fila di micheletti, con gli archibusi
spianati, per riceverli come si meritavano. Quando videro questo
bell'apparato... Cosa avreste fatto voi altri?
-
Tornare indietro.
- Sicuro;
e così fecero. Ma vedete un poco se non era il demonio che li portava. Son lì
sul Cordusio, vedon lì quel forno che fin da ieri, avevan voluto saccheggiare;
e cosa si faceva in quella bottega? si distribuiva il pane agli avventori;
c'era de' cavalieri, e fior di cavalieri, a invigilare che tutto andasse bene;
e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi c'era chi gli aizzava),
costoro, dentro come disperati; piglia tu, che piglio anch'io: in un batter
d'occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse,
sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra.
- E i
micheletti?
- I
micheletti avevan la casa del vicario da guardare: non si può cantare e portar
la croce. Fu in un batter d'occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che c'era
buono a qualcosa, fu preso. E poi torna in campo quel bel ritrovato di ieri, di
portare il resto sulla piazza, e di farne una fiammata. E già cominciavano, i
manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, indovinate
un po' con che bella proposta venne fuori.
- Con
che cosa?
- Di
fare un mucchio di tutto nella bottega, e di dar fuoco al mucchio e alla casa
insieme. Detto fatto...
- Ci
han dato fuoco?
-
Aspettate. Un galantuomo del vicinato ebbe un'ispirazione dal cielo. Corse su
nelle stanze, cercò d'un Crocifisso, lo trovò, l'attaccò all'archetto d'una
finestra, prese da capo d'un letto due candele benedette, le accese, e le mise
sul davanzale, a destra e a sinistra del Crocifisso. La gente guarda in su. In
un Milano, bisogna dirla, c'è ancora del timor di Dio; tutti tornarono in sé.
La più parte, voglio dire; c'era bensì de' diavoli che, per rubare, avrebbero
dato fuoco anche al paradiso; ma visto che la gente non era del loro parere,
dovettero smettere, e star cheti. Indovinate ora chi arrivò all'improvviso.
Tutti i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale;
e monsignor Mazenta, arciprete, comincio a predicare da una parte, e monsignor
Settala, penitenziere, da un'altra, e gli altri anche loro: ma, brava gente! ma
cosa volete fare? ma è questo l'esempio che date a' vostri figliuoli? ma
tornate a casa; ma non sapete che il pane è a buon mercato, più di prima? ma
andate a vedere, che c'è l'avviso sulle cantonate.
- Era
vero?
-
Diavolo! Volete che i monsignori del duomo venissero in cappa magna a dir delle
fandonie?
- E la
gente cosa fece?
- A
poco a poco se n'andarono; corsero alle cantonate; e, chi sapeva leggere, la
c'era proprio la meta. Indovinate un poco: un pane d'ott'once, per un soldo.
- Che
bazza!
- La
vigna è bella; pur che la duri. Sapete quanta farina hanno mandata a male, tra
ieri e stamattina? Da mantenerne il ducato per due mesi.
- E per
fuori di Milano, non s'è fatta nessuna legge buona?
- Quel
che s'è fatto per Milano, è tutto a spese della città. Non so che vi dire: per
voi altri sarà quel che Dio vorrà. A buon conto, i fracassi son finiti. Non
v'ho detto tutto; ora viene il buono.
- Cosa
c'è ancora?
- C'è
che, ier sera o stamattina che sia, ne sono stati agguantati molti; e subito
s'è saputo che i capi saranno impiccati. Appena cominciò a spargersi questa
voce, ognuno andava a casa per la più corta, per non arrischiare d'esser nel
numero. Milano, quand'io ne sono uscito, pareva un convento di frati.
-
Gl'impiccheranno poi davvero?
-
Eccome! e presto, - rispose il mercante.
- E la
gente cosa farà? - domandò ancora colui che aveva fatta l'altra domanda.
- La
gente? anderà a vedere, - disse il mercante. - Avevan tanta voglia di veder
morire un cristiano all'aria aperta, che volevano, birboni! far la festa al
signor vicario di provvisione. In vece sua, avranno quattro tristi, serviti con
tutte le formalità, accompagnati da' cappuccini, e da' confratelli della buona
morte; e gente che se l'è meritato. È una provvidenza, vedete; era una cosa
necessaria. Cominciavan già a prender il vizio d'entrar nelle botteghe, e di
servirsi, senza metter mano alla borsa; se li lasciavan fare, dopo il pane
sarebbero venuti al vino, e così di mano in mano... Pensate se coloro volevano
smettere, di loro spontanea volontà, una usanza così comoda. E vi so dir io
che, per un galantuomo che ha bottega aperta, era un pensier poco allegro.
-
Davvero, - disse uno degli ascoltatori. - Davvero, - ripeteron gli altri, a una
voce.
- E, -
continuò il mercante, asciugandosi la barba col tovagliolo, - l'era ordita da
un pezzo: c'era una lega, sapete?
- C'era
una lega?
- C'era
una lega. Tutte cabale ordite da' navarrini, da quel cardinale là di Francia,
sapete chi voglio dire, che ha un certo nome mezzo turco, e che ogni giorno ne
pensa una, per far qualche dispetto alla corona di Spagna. Ma sopra tutto,
tende a far qualche tiro a Milano; perché vede bene, il furbo, che qui sta la
forza del re.
- Già.
- Ne
volete una prova? Chi ha fatto il più gran chiasso, eran forestieri; andavano
in giro facce, che in Milano non s'eran mai vedute. Anzi mi dimenticavo di
dirvene una che m'è stata data per certa. La giustizia aveva acchiappato uno in
un'osteria... - Renzo, il quale non perdeva un ette di quel discorso, al tocco
di questa corda, si sentì venir freddo, e diede un guizzo, prima che potesse
pensare a contenersi. Nessuno però se n'avvide; e il dicitore, senza
interrompere il filo del racconto, seguitò: - uno che non si sa bene ancora da
che parte fosse venuto, da chi fosse mandato, né che razza d'uomo si fosse; ma
certo era uno de' capi. Già ieri, nel forte del baccano, aveva fatto il
diavolo; e poi, non contento di questo, s'era messo a predicare, e a proporre,
così una galanteria, che s'ammazzassero tutti i signori. Birbante! Chi farebbe
viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati? La giustizia, che
l'aveva appostato, gli mise l'unghie addosso; gli trovarono un fascio di
lettere; e lo menavano in gabbia; ma che? i suoi compagni, che facevan la ronda
intorno all'osteria, vennero in gran numero, e lo liberarono, il manigoldo.
- E
cosa n'è stato?
- Non
si sa; sarà scappato, o sarà nascosto in Milano: son gente che non ha né casa
né tetto, e trovan per tutto da alloggiare e da rintanarsi: però finché il
diavolo può, e vuole aiutarli: ci dan poi dentro quando meno se lo pensano;
perché, quando la pera è matura, convien che caschi. Per ora si sa di sicuro
che le lettere son rimaste in mano della giustizia, e che c'è descritta tutta
la cabala; e si dice che n'anderà di mezzo molta gente. Peggio per loro; che
hanno messo a soqquadro mezzo Milano, e volevano anche far peggio. Dicono che i
fornai son birboni. Lo so anch'io; ma bisogna impiccarli per via di giustizia.
C'è del grano nascosto. Chi non lo sa? Ma tocca a chi comanda a tener buone
spie, e andarlo a disotterrare, e mandare anche gl'incettatori a dar calci
all'aria, in compagnia de' fornai. E se chi comanda non fa nulla, tocca alla
città a ricorrere; e se non dànno retta alla prima, ricorrere ancora; ché a
forza di ricorrere s'ottiene; e non metter su un'usanza così scellerata
d'entrar nelle botteghe e ne' fondachi, a prender la roba a man salva.
A Renzo
quel poco mangiare era andato in tanto veleno. Gli pareva mill'anni d'esser
fuori e lontano da quell'osteria, da quel paese; e più di dieci volte aveva
detto a sé stesso: andiamo, andiamo. Ma quella paura di dar sospetto, cresciuta
allora oltremodo, e fatta tiranna di tutti i suoi pensieri, l'aveva tenuto
sempre inchiodato sulla panca. In quella perplessità, pensò che il ciarlone
doveva poi finire di parlar di lui; e concluse tra sé, di moversi, appena
sentisse attaccare qualche altro discorso.
- E per
questo, - disse uno della brigata, - io che so come vanno queste faccende, e
che ne' tumulti i galantuomini non ci stanno bene, non mi son lasciato vincere
dalla curiosità, e son rimasto a casa mia.
- E io,
mi son mosso? - disse un altro.
- Io? -
soggiunse un terzo: - se per caso mi fossi trovato in Milano, avrei lasciato
imperfetto qualunque affare, e sarei tornato subito a casa mia. Ho moglie e
figliuoli; e poi, dico la verità, i baccani non mi piacciono.
A
questo punto, l'oste, ch'era stato anche lui a sentire, andò verso l'altra cima
della tavola, per veder cosa faceva quel forestiero. Renzo colse l'occasione,
chiamò l'oste con un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare,
quantunque l'acque fossero molto basse; e, senza far altri discorsi, andò
diritto all'uscio, passò la soglia, e, a guida della Provvidenza, s'incamminò
dalla parte opposta a quella per cui era venuto.
Basta
spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo; pensate poi due alla
volta, l'una in guerra coll'altra. Il povero Renzo n'aveva, da molte ore, due
tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e
le sciagurate parole del mercante gli avevano accresciuta oltremodo l'una e
l'altra a un colpo. Dunque la sua avventura aveva fatto chiasso; dunque lo
volevano a qualunque patto; chi sa quanti birri erano in campo per dargli la
caccia! quali ordini erano stati spediti di frugar ne' paesi, nell'osterie, per
le strade! Pensava bensì che finalmente i birri che lo conoscevano, eran due
soli, e che il nome non lo portava scritto in fronte; ma gli tornavano in mente
certe storie che aveva sentite raccontare, di fuggitivi colti e scoperti per
istrane combinazioni, riconosciuti all'andare, all'aria sospettosa, ad altri
segnali impensati: tutto gli faceva ombra. Quantunque, nel momento che usciva
di Gorgonzola, scoccassero le ventiquattro, e le tenebre che venivano innanzi,
diminuissero sempre più que' pericoli, ciò non ostante prese contro voglia la
strada maestra, e si propose d'entrar nella prima viottola che gli paresse
condur dalla parte dove gli premeva di riuscire. Sul principio, incontrava
qualche viandante; ma, pieno la fantasia di quelle brutte apprensioni, non ebbe
cuore d'abbordarne nessuno, per informarsi della strada. "Ha detto sei
miglia, colui, - pensava: - se andando fuor di strada, dovessero anche diventar
otto o dieci, le gambe che hanno fatte l'altre, faranno anche queste. Verso
Milano non vo di certo; dunque vo verso l'Adda. Cammina, cammina, o presto o
tardi ci arriverò. L'Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino, non ho più
bisogno di chi me l'insegni. Se qualche barca c'è, da poter passare, passo
subito, altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, sur una pianta,
come le passere: meglio sur una pianta, che in prigione".
Ben
presto vide aprirsi una straducola a mancina; e v'entrò. A quell'ora, se si
fosse abbattuto in qualcheduno, non avrebbe più fatte tante cerimonie per farsi
insegnar la strada; ma non sentiva anima vivente. Andava dunque dove la strada
lo conduceva; e pensava.
"Io
fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io! I miei
compagni che mi stavano a far la guardia! Pagherei qualche cosa a trovarmi a
viso a viso con quel mercante, di là dall'Adda (ah quando l'avrò passata
quest'Adda benedetta!), e fermarlo, e domandargli con comodo dov'abbia pescate
tutte quelle belle notizie. Sappiate ora, mio caro signore, che la cosa è
andata così e così, e che il diavolo ch'io ho fatto, è stato d'aiutar Ferrer,
come se fosse stato un mio fratello; sappiate che que' birboni che, a sentir
voi, erano i miei amici, perché, in un certo momento, io dissi una parola da buon
cristiano, mi vollero fare un brutto scherzo; sappiate che, intanto che voi
stavate a guardar la vostra bottega, io mi faceva schiacciar le costole, per
salvare il vostro signor vicario di provvisione, che non l'ho mai né visto né
conosciuto. Aspetta che mi mova un'altra volta, per aiutar signori... È vero
che bisogna farlo per l'anima: son prossimo anche loro. E quel gran fascio di
lettere, dove c'era tutta la cabala, e che adesso è in mano della giustizia,
come voi sapete di certo; scommettiamo che ve lo fo comparir qui, senza l'aiuto
del diavolo? Avreste curiosità di vederlo quel fascio? Eccolo qui... Una
lettera sola?... Sì signore, una lettera sola; e questa lettera, se lo volete
sapere, l'ha scritta un religioso che vi può insegnar la dottrina, quando si
sia; un religioso che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che
tutta la vostra; e è scritta, questa lettera, come vedete, a un altro
religioso, un uomo anche lui... Vedete ora quali sono i furfanti miei amici. E
imparate a parlare un'altra volta; principalmente quando si tratta del
prossimo".
Ma dopo
qualche tempo, questi pensieri ed altri simili cessarono affatto: le
circostanze presenti occupavan tutte le facoltà del povero pellegrino. La paura
d'essere inseguito o scoperto, che aveva tanto amareggiato il viaggio in pieno
giorno, non gli dava ormai più fastidio; ma quante cose rendevan questo molto
più noioso! Le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai
dolorosa; tirava una brezzolina sorda, uguale, sottile, che doveva far poco
servizio a chi si trovava ancora indosso quegli stessi vestiti che s'era messi
per andare a nozze in quattro salti, e tornare subito trionfante a casa sua; e,
ciò che rendeva ogni cosa più grave, quell'andare alla ventura, e, per dir
così, al tasto, cercando un luogo di riposo e di sicurezza.
Quando
s'abbatteva a passare per qualche paese, andava adagio adagio, guardando però
se ci fosse ancora qualche uscio aperto; ma non vide mai altro segno di gente
desta, che qualche lumicino trasparente da qualche impannata. Nella strada fuor
dell'abitato, si soffermava ogni tanto; stava in orecchi, per veder se sentiva
quella benedetta voce dell'Adda; ma invano. Altre voci non sentiva, che un
mugolìo di cani, che veniva da qualche cascina isolata, vagando per l'aria,
lamentevole insieme e minaccioso. Al suo avvicinarsi a qualcheduna di quelle,
il mugolìo si cambiava in un abbaiar frettoloso e rabbioso: nel passar davanti
alla porta, sentiva, vedeva quasi, il bestione, col muso al fessolino della
porta, raddoppiar gli urli: cosa che gli faceva andar via la tentazione di
picchiare, e di chieder ricovero. E forse, anche senza i cani, non ci si
sarebbe risolto. "Chi è là? - pensava: - cosa volete a quest'ora? Come
siete venuto qui? Fatevi conoscere. Non c'è osterie da alloggiare? Ecco,
andandomi bene, quel che mi diranno, se picchio: quand'anche non ci dorma
qualche pauroso che, a buon conto, si metta a gridare: aiuto! al ladro! Bisogna
aver subito qualcosa di chiaro da rispondere: e cosa ho da rispondere io? Chi sente
un rumore la notte, non gli viene in testa altro che ladri, malviventi,
trappole: non si pensa mai che un galantuomo possa trovarsi in istrada di
notte, se non è un cavaliere in carrozza". Allora serbava quel partito
all'estrema necessità, e tirava innanzi, con la speranza di scoprire almeno
l'Adda, se non passarla, in quella notte; e di non dover andarne alla cerca, di
giorno chiaro.
Cammina,
cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di
felci e di scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento di
fiume vicino, e s'inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l'attraversava.
Fatti pochi passi, si fermò ad ascoltare; ma ancora invano. La noia del viaggio
veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più né un
gelso, né una vite, né altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che
gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante andò avanti; e siccome nella
sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini, certe apparizioni, lasciatevi
in serbo dalle novelle sentite raccontar da bambino, così, per discacciarle, o
per acquietarle, recitava, camminando, dell'orazioni per i morti.
A poco
a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche.
Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che
voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando
ancora, sempre per lo stesso sentiero, s'accorse d'entrare in un bosco. Provava
un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma
più che s'inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio.
Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi,
mostruose; l'annoiava l'ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul
sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie
secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so
che d'odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello
stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza
notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva
scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa
rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell'ultimo rimasuglio di vigore. A un
certo punto, quell'uggia, quell'orrore indefinito con cui l'animo combatteva da
qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto;
ma atterrito, più che d'ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli
antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si
fermò su due piedi a deliberare; risolveva d'uscir subito di lì per la strada
già fatta, d'andar diritto all'ultimo paese per cui era passato, di tornar tra
gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all'osteria. E stando così fermo,
sospeso il fruscìo de' piedi nel fogliame, tutto tacendo d'intorno a lui,
cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d'acqua corrente. Sta in
orecchi; n'è certo; esclama: - è l'Adda! - Fu il ritrovamento d'un amico, d'un
fratello, d'un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso,
sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la
fiducia de' pensieri, e svanire in gran parte quell'incertezza e gravità delle
cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all'amico rumore.
Arrivò
in pochi momenti all'estremità del piano, sull'orlo d'una riva profonda; e
guardando in giù tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l'acqua
luccicare e correre. Alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell'altra
riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una gran macchia
biancastra, che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente. Scese un
po' sul pendìo, e, separando e diramando, con le mani e con le braccia, il
prunaio, guardò giù, se qualche barchetta si movesse nel fiume, ascoltò se
sentisse batter de' remi; ma non vide né sentì nulla. Se fosse stato qualcosa
di meno dell'Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva bene
che l'Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza.
Perciò
si mise a consultar tra sé, molto a sangue freddo, sul partito da prendere.
Arrampicarsi sur una pianta, e star lì a aspettar l'aurora, per forse sei ore
che poteva ancora indugiare, con quella brezza, con quella brina, vestito così,
c'era più che non bisognasse per intirizzir davvero. Passeggiare innanzi e
indietro, tutto quel tempo, oltre che sarebbe stato poco efficace aiuto contro
il rigore del sereno, era un richieder troppo da quelle povere gambe, che già
avevano fatto più del loro dovere. Gli venne in mente d'aver veduto, in uno de'
campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia,
costrutte di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota, dove i contadini
del milanese usan, l'estate, depositar la raccolta, e ripararsi la notte a
guardarla: nell'altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò subito per
suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco, le macchie, la sodaglia;
e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso, era rabbattuto,
senza chiave né catenaccio; Renzo l'aprì, entrò; vide sospeso per aria, e
sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d'hamac; ma non sl curò di
salirvi. Vide in terra un po' di paglia; e pensò che, anche lì, una dormitina
sarebbe ben saporita.
Prima
però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi
s'inginocchiò, a ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l'assistenza che
aveva avuta da essa, in quella terribile giornata. Disse poi le sue solite
divozioni; e per di più, chiese perdono a Domeneddio di non averle dette la
sera avanti; anzi, per dir le sue parole, d'essere andato a dormire come un
cane, e peggio. "E per questo, - soggiunse poi tra sé; appoggiando le mani
sulla paglia, e d'inginocchioni mettendosi a giacere: - per questo, m'è
toccata, la mattina, quella bella svegliata". Raccolse poi tutta la paglia
che rimaneva all'intorno, e se l'accomodò addosso, facendosene, alla meglio,
una specie di coperta, per temperare il freddo, che anche là dentro si faceva
sentir molto bene; e vi si rannicchiò sotto, con l'intenzione di dormire un bel
sonno, parendogli d'averlo comprato anche più caro del dovere.
Ma
appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia
(il luogo preciso non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di
gente, così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mercante, il
notaio, i birri, lo spadaio, l'oste, Ferrer, il vicario, la brigata
dell'osteria, tutta quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi don
Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire.
Tre
sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara,
nette d'ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti
al certo, ma strettamente legate nel cuore del giovine: una treccia nera e una
barba bianca. Ma anche la consolazione che provava nel fermare sopra di esse il
pensiero, era tutt'altro che pretta e tranquilla. Pensando al buon frate,
sentiva più vivamente la vergogna delle proprie scappate, della turpe
intemperanza, del bel caso che aveva fatto de' paterni consigli di lui; e
contemplando l'immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il
lettore conosce le circostanze; se lo figuri. E quella povera Agnese, come
l'avrebbe potuta dimenticare? Quell'Agnese, che l'aveva scelto, che l'aveva già
considerato come una cosa sola con la sua unica figlia, e prima di ricever da
lui il titolo di madre, n'aveva preso il linguaggio e il cuore, e dimostrata
co' fatti la premura. Ma era un dolore di più, e non il meno pungente, quel
pensiero, che, in grazia appunto di così amorevoli intenzioni, di tanto bene
che voleva a lui, la povera donna si trovava ora snidata, quasi raminga,
incerta dell'avvenire, e raccoglieva guai e travagli da quelle cose appunto da
cui aveva sperato il riposo e la giocondità degli ultimi suoi anni. Che notte,
povero Renzo! Quella che doveva esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che
letto matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual
serie di giorni! "Quel che Dio vuole, - rispondeva ai pensieri che gli
davan più noia: - quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c'è anche per noi.
Vada tutto in isconto de' miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi
farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo!"
Tra
questi pensieri, e disperando ormai d'attaccar sonno, e facendosegli il freddo
sentir sempre più, a segno ch'era costretto ogni tanto a tremare e a battere i
denti, sospirava la venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento
scorrer dell'ore. Dico misurava, perché, ogni mezz'ora, sentiva in quel vasto
silenzio, rimbombare i tocchi d'un orologio: m'immagino che dovesse esser
quello di Trezzo. E la prima volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così
inaspettato, senza che potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli
fece un senso misterioso e solenne, come d'un avvertimento che venisse da
persona non vista, con una voce sconosciuta.
Quando
finalmente quel martello ebbe battuto undici tocchi, ch'era l'ora disegnata da
Renzo per levarsi, s'alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni, disse, e
con più fervore del solito, le divozioni della mattina, si rizzò, si stirò in
lungo e in largo, scosse la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le
membra, che ognuno pareva che facesse da sé, soffiò in una mano, poi
nell'altra, se le stropicciò, aprì l'uscio della capanna; e, per la prima cosa,
diede un'occhiata in qua e in là, per veder se c'era nessuno. E non vedendo
nessuno, cercò con l'occhio il sentiero della sera avanti; lo riconobbe subito,
e prese per quello.
Il
cielo prometteva una bella giornata: la luna, in un canto, pallida e senza
raggio, pure spiccava nel campo immenso d'un bigio ceruleo, che, giù giù verso
l'oriente, s'andava sfumando leggermente in un giallo roseo. Più giù,
all'orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra
l'azzurro e il bruno, le più basse orlate al di sotto d'una striscia quasi di
fuoco, che di mano in mano si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno,
altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici, per dir così, s'andavan
lumeggiando di mille colori senza nome: quel cielo di Lombardia, così bello
quand'è bello, così splendido, così in pace. Se Renzo si fosse trovato lì
andando a spasso, certo avrebbe guardato in su, e ammirato quell'albeggiare
così diverso da quello ch'era solito vedere ne' suoi monti; ma badava alla sua
strada, e camminava a passi lunghi, per riscaldarsi, e per arrivar presto.
Passa i campi, passa la sodaglia, passa le macchie, attraversa il bosco,
guardando in qua e in là, e ridendo e vergognandosi nello stesso tempo, del
ribrezzo che vi aveva provato poche ore prima; è sul ciglio della riva, guarda
giù; e, di tra i rami, vede una barchetta di pescatore, che veniva adagio,
contr'acqua, radendo quella sponda. Scende subito per la più corta, tra i
pruni; è sulla riva; dà una voce leggiera leggiera al pescatore; e, con
l'intenzione di far come se chiedesse un servizio di poca importanza, ma, senza
avvedersene, in una maniera mezzo supplichevole, gli accenna che approdi. Il
pescatore gira uno sguardo lungo la riva, guarda attentamente lungo l'acqua che
viene, si volta a guardare indietro, lungo l'acqua che va, e poi dirizza la prora
verso Renzo, e approda. Renzo che stava sull'orlo della riva, quasi con un
piede nell'acqua, afferra la punta del battello, ci salta dentro, e dice: - mi
fareste il servizio, col pagare, di tragittarmi di là? - Il pescatore l'aveva
indovinato, e già voltava da quella parte. Renzo, vedendo sul fondo della barca
un altro remo, si china, e l'afferra.
-
Adagio, adagio, - disse il padrone; ma nel veder poi con che garbo il giovine
aveva preso lo strumento, e sl disponeva a maneggiarlo, - ah, ah, - riprese: -
siete del mestiere.
- Un
pochino, - rispose Renzo, e ci si mise con un vigore e con una maestria, più
che da dilettante. E senza mai rallentare, dava ogni tanto un'occhiata ombrosa
alla riva da cui s'allontanavano, e poi una impaziente a quella dov'eran rivolti,
e si coceva di non poterci andar per la più corta; ché la corrente era, in quel
luogo, troppo rapida, per tagliarla direttamente; e la barca, parte rompendo,
parte secondando il filo dell'acqua, doveva fare un tragitto diagonale. Come
accade in tutti gli affari un po' imbrogliati, che le difficoltà alla prima si
presentino all'ingrosso, e nell'eseguire poi, vengan fuori per minuto, Renzo,
ora che l'Adda era, si può dir, passata, gli dava fastidio il non saper di
certo se lì essa fosse confine, o se, superato quell'ostacolo, gliene rimanesse
un altro da superare. Onde, chiamato il pescatore, e accennando col capo quella
macchia biancastra che aveva veduta la notte avanti, e che allora gli appariva
ben più distinta, disse: - è Bergamo, quel paese?
- La
città di Bergamo, - rispose il pescatore.
- E
quella riva lì, è bergamasca?
- Terra
di san Marco.
- Viva
san Marco! - esclamò Renzo. Il pescatore non disse nulla.
Toccano
finalmente quella riva; Renzo vi si slancia; ringrazia Dio tra sé, e poi con la
bocca il barcaiolo; mette le mani in tasca, tira fuori una berlinga, che,
attese le circostanze, non fu un piccolo sproprio, e la porge al galantuomo; il
quale, data ancora una occhiata alla riva milanese, e al fiume di sopra e di
sotto, stese la mano, prese la mancia, la ripose, poi strinse le labbra, e per
di più ci mise il dito in croce, accompagnando quel gesto con un'occhiata
espressiva; e disse poi : - buon viaggio - , e tornò indietro.
Perché
la così pronta e discreta cortesia di costui verso uno sconosciuto non faccia
troppo maravigliare il lettore, dobbiamo informarlo che quell'uomo, pregato
spesso d'un simile servizio da contrabbandieri e da banditi, era avvezzo a
farlo; non tanto per amore del poco e incerto guadagno che gliene poteva
venire, quanto per non farsi de' nemici in quelle classi. Lo faceva, dico, ogni
volta che potesse esser sicuro che non lo vedessero né gabellieri, né birri, né
esploratori. Così, senza voler più bene ai primi che ai secondi, cercava di
soddisfarli tutti, con quell'imparzialità, che è la dote ordinaria di chi è
obbligato a trattar con cert'uni, e soggetto a render conto a cert'altri.
Renzo
si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che
poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi. "Ah! ne son proprio fuori! -
fu il suo primo pensiero. - Sta' lì, maledetto paese", fu il secondo,
l'addio alla patria. Ma il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora
incrociò le braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull'acqua
che gli scorreva a' piedi, e pensò "è passata sotto il ponte!" Così,
all'uso del suo paese, chiamava, per antonomasia, quello di Lecco. "Ah
mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole".
Voltò
le spalle a que' tristi oggetti, e s'incamminò, prendendo per punto di mira la
macchia biancastra sul pendìo del monte, finché trovasse qualcheduno da farsi
insegnar la strada giusta. E bisognava vedere con che disinvoltura s'accostava
a' viandanti, e, senza tanti rigiri, nominava il paese dove abitava quel suo
cugino. Dal primo a cui si rivolse, seppe che gli rimanevano ancor nove miglia
da fare.
Quel
viaggio non fu lieto. Senza parlare de' guai che Renzo portava con sé, il suo
occhio veniva ogni momento rattristato da oggetti dolorosi, da' quali dovette
accorgersi che troverebbe nel paese in cui s'inoltrava, la penuria che aveva
lasciata nel suo. Per tutta la strada, e più ancora nelle terre e ne' borghi,
incontrava a ogni passo poveri, che non eran poveri di mestiere, e mostravan la
miseria più nel viso che nel vestiario: contadini, montanari, artigiani,
famiglie intere; e un misto ronzìo di preghiere, di lamenti e di vagiti. Quella
vista, oltre la compassione e la malinconia, lo metteva anche in pensiero de'
casi suoi.
"Chi
sa, - andava meditando, - se trovo da far bene? se c'è lavoro, come negli anni
passati? Basta; Bortolo mi voleva bene, è un buon figliuolo, ha fatto danari,
m'ha invitato tante volte; non m'abbandonerà. E poi, la Provvidenza m'ha
aiutato finora; m'aiuterà anche per l'avvenire".
Intanto
l'appetito, risvegliato già da qualche tempo, andava crescendo di miglio in
miglio; e quantunque Renzo, quando cominciò a dargli retta, sentisse di poter
reggere, senza grand'incomodo, per quelle due o tre che gli potevan rimanere;
pensò, da un'altra parte, che non sarebbe una bella cosa di presentarsi al
cugino, come un pitocco, e dirgli, per primo complimento: dammi da mangiare. Si
levò di tasca tutte le sue ricchezze, le fece scorrere sur una mano, tirò la
somma. Non era un conto che richiedesse una grande aritmetica; ma però c'era abbondantemente
da fare una mangiatina. Entrò in un'osteria a ristorarsi lo stomaco; e in
fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo.
Nell'uscire,
vide, accanto alla porta, che quasi v'inciampava, sdraiate in terra, più che
sedute, due donne, una attempata, un'altra più giovine, con un bambino, che,
dopo aver succhiata invano l'una e l'altra mammella, piangeva, piangeva; tutti
del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e
nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d'un'antica robustezza, domata
e quasi spenta dal lungo disagio. Tutt'e tre stesero la mano verso colui che
usciva con passo franco, e con l'aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva
dir di più una preghiera?
- La
c'è la Provvidenza! - disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò
di que' pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la
sua strada.
La
refezione e l'opera buona (giacché siam composti d'anima e di corpo) avevano
riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall'essersi così
spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l'avvenire,
che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Perché, se a
sostenere in quel giorno que' poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza
aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d'un estraneo, fuggitivo,
incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi
lasciare in secco colui del quale s'era servita a ciò, e a cui aveva dato un
sentimento così vivo di sé stessa, così efficace, così risoluto? Questo era, a
un di presso, il pensiero del giovine; però men chiaro ancora di quello ch'io
l'abbia saputo esprimere. Nel rimanente della strada, ripensando a' casi suoi,
tutto gli si spianava. La carestia doveva poi finire: tutti gli anni si miete:
intanto aveva il cugino Bortolo e la propria abilità: aveva, per di più, a casa
un po' di danaro, che si farebbe mandar subito. Con quello, alla peggio,
camperebbe, giorno per giorno, finché tornasse l'abbondanza. "Ecco poi
tornata finalmente l'abbondanza, - proseguiva Renzo nella sua fantasia: -
rinasce la furia de' lavori: i padroni fanno a gara per aver degli operai
milanesi, che son quelli che sanno bene il mestiere; gli operai milanesi alzan
la cresta; chi vuol gente abile, bisogna che la paghi; si guadagna da vivere
per più d'uno, e da metter qualcosa da parte; e si fa scrivere alle donne che
vengano... E poi, perché aspettar tanto? Non è vero che, con quel poco che
abbiamo in serbo, si sarebbe campati là, anche quest'inverno? Così camperemo
qui. De' curati ce n'è per tutto. Vengono quelle due care donne: si mette su
casa. Che piacere, andar passeggiando su questa stessa strada tutti insieme!
andar fino all'Adda in baroccio, e far merenda sulla riva, proprio sulla riva,
e far vedere alle donne il luogo dove mi sono imbarcato, il prunaio da cui sono
sceso, quel posto dove sono stato a guardare se c'era un battello".
Arriva
al paese del cugino; nell'entrare, anzi prima di mettervi piede, distingue una
casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe; riconosce un filatoio,
entra, domanda ad alta voce, tra il rumore dell'acqua cadente e delle rote, se
stia lì un certo Bortolo Castagneri.
- Il
signor Bortolo! Eccolo là.
"Signore?
buon segno", pensa Renzo; vede il cugino, gli corre incontro. Quello si
volta, riconosce il giovine, che gli dice: - son qui -. Un oh! di sorpresa, un
alzar di braccia, un gettarsele al collo scambievolmente. Dopo quelle prime
accoglienze, Bortolo tira il nostro giovine lontano dallo strepito degli
ordigni, e dagli occhi de' curiosi, in un'altra stanza, e gli dice: - ti vedo
volentieri; ma sei un benedetto figliuolo. T'avevo invitato tante volte; non
sei mai voluto venire; ora arrivi in un momento un po' critico.
- Se te
lo devo dire, non sono venuto via di mia volontà, disse Renzo; e, con la più
gran brevità, non però senza molta commozione, gli raccontò la dolorosa storia.
È un
altro par di maniche, - disse Bortolo. - Oh povero Renzo! Ma tu hai fatto
capitale di me; e io non t'abbandonerò. Veramente, ora non c'è ricerca
d'operai; anzi appena appena ognuno tiene i suoi, per non perderli e disviare
il negozio; ma il padrone mi vuol bene, e ha della roba. E, a dirtela, in gran
parte la deve a me, senza vantarmi: lui il capitale, e io quella poca abilità.
Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotum. Povera
Lucia Mondella! Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza! sempre la
più composta in chiesa; e quando si passava da quella sua casuccia... Mi par di
vederla, quella casuccia, appena fuor del paese, con un bel fico che passava il
muro...
- No,
no; non ne parliamo.
-
Volevo dire che, quando si passava da quella casuccia, sempre si sentiva
quell'aspo, che girava, girava, girava. E quel don Rodrigo! già, anche al mio
tempo, era per quella strada; ma ora fa il diavolo affatto, a quel che vedo:
fin che Dio gli lascia la briglia sul collo. Dunque, come ti dicevo, anche qui
si patisce un po' la fame... A proposito, come stai d'appetito?
- Ho
mangiato poco fa, per viaggio.
- E a
danari, come stiamo?
Renzo
stese una mano, l'avvicinò alla bocca, e vi fece scorrer sopra un piccol
soffio.
- Non
importa, - disse Bortolo: - n'ho io: e non ci pensare, che, presto presto,
cambiandosi le cose, se Dio vorrà, me li renderai, e te n'avanzerà anche per
te.
- Ho
qualcosina a casa; e me li farò mandare.
- Va
bene; e intanto fa' conto di me. Dio m'ha dato del bene, perché faccia del
bene; e se non ne fo a' parenti e agli amici, a chi ne farò?
- L'ho
detto io della Provvidenza! - esclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano
al buon cugino.
-
Dunque, - riprese questo, - in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono
un po' matti coloro. Già, n'era corsa la voce anche qui; ma voglio che tu mi
racconti poi la cosa più minutamente. Eh! n'abbiamo delle cose da discorrere.
Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po' più di
giudizio. La citta ha comprate duemila some di grano da un mercante che sta a
Venezia: grano che vien di Turchia; ma, quando si tratta di mangiare, la non si
guarda tanto per il sottile. Ora senti un po' cosa nasce: nasce che i rettori
di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: di qui non passa grano. Che
ti fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia Lorenzo Torre, un dottore, ma di
quelli! È partito in fretta, s'è presentato al doge, e ha detto: che idea è
venuta a que' signori rettori? Ma un discorso! un discorso, dicono, da dare
alle stampe. Cosa vuol dire avere un uomo che sappia parlare! Subito un ordine
che si lasci passare il grano; e i rettori, non solo lasciarlo passare, ma
bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E s'è pensato anche al
contado. Giovanbatista Biava, nunzio di Bergamo in Venezia (un uomo anche
quello!) ha fatto intendere al senato che, anche in campagna, si pativa la
fame; e il senato ha concesso quattro mila staia di miglio. Anche questo aiuta
a far pane. E poi, lo vuoi sapere? se non ci sarà pane, mangeremo del
companatico. Il Signore m'ha dato del bene, come ti dico. Ora ti condurrò dal
mio padrone: gli ho parlato di te tante volte, e ti farà buona accoglienza. Un
buon bergamascone all'antica, un uomo di cuor largo. Veramente, ora non
t'aspettava; ma quando sentirà la storia... E poi gli operai sa tenerli di
conto, perché la carestia passa, e il negozio dura. Ma prima di tutto, bisogna
che t'avverta d'una cosa. Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello
stato di Milano?
- Come
ci chiamano?
- Ci
chiaman baggiani.
- Non è
un bel nome.
-
Tant'è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna
prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è
come dar dell'illustrissimo a un cavaliere.
- Lo
diranno, m'immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire.
-
Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto,
non far conto di poter viver qui. Bisognerebbe esser sempre col coltello in
mano: e quando, supponiamo, tu n'avessi ammazzati due, tre, quattro, verrebbe
poi quello che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al
tribunal di Dio, con tre o quattro omicidi sull'anima!
- E un
milanese che abbia un po' di... - e qui picchiò la fronte col dito, come aveva
fatto nell'osteria della luna piena. - Voglio dire, uno che sappia bene il suo
mestiere?
-
Tutt'uno: qui è un baggiano anche lui. Sai come dice il mio padrone, quando
parla di me co' suoi amici? "Quel baggiano è stato la man di Dio, per il
mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impicciato". L'è
usanza così.
- L'è
un'usanza sciocca. E vedendo quello che sappiam fare (ché finalmente chi ha
portata qui quest'arte, e chi la fa andare, siamo noi), possibile che non si
sian corretti?
-
Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengon su; ma gli uomini fatti,
non c'è rimedio: hanno preso quel vizio; non lo smetton più. Cos'è poi
finalmente? Era ben un'altra cosa quelle galanterie che t'hanno fatte, e il di
più che ti volevan fare i nostri cari compatriotti.
- Già,
è vero: se non c'è altro di male...
- Ora
che sei persuaso di questo, tutto anderà bene. Vieni dal padrone, e coraggio.
Tutto
in fatti andò bene, e tanto a seconda delle promesse di Bortolo, che crediamo
inutile di farne particolar relazione. E fu veramente provvidenza; perché la
roba e i quattrini che Renzo aveva lasciati in casa, vedremo or ora quanto
fosse da farci assegnamento.
Quello
stesso giorno, 13 di novembre, arriva un espresso al signor podestà di Lecco, e
gli presenta un dispaccio del signor capitano di giustizia, contenente un
ordine di fare ogni possibile e più opportuna inquisizione, per iscoprire se un
certo giovine nominato Lorenzo Tramaglino, filatore di seta, scappato dalle
forze praedicti egregii domini capitanei, sia tornato, palam vel clam,
al suo paese, ignotum quale per l'appunto, verum in territorio Leuci:
quod si compertum fuerit sic esse, cerchi il detto signor podestà, quanta
maxima diligentia fieri poterit, d'averlo nelle mani, e, legato a dovere, videlizet
con buone manette, attesa l'esperimentata insufficienza de' manichini per il
nominato soggetto, lo faccia condurre nelle carceri, e lo ritenga lì, sotto
buona custodia, per farne consegna a chi sarà spedito a prenderlo; e tanto nel
caso del sì, come nel caso del no, accedatis ad domum praedicti Laurentii
Tramaliini; et, facta debita diligentia, quidquid ad rem repertum fuerit
auferatis; et informationes de illius prava qualitate, vita, et complicibus
sumatis; e di tutto il detto e il fatto, il trovato e il non trovato, il
preso e il lasciato, diligenter referatis. Il signor podestà, dopo
essersi umanamente cerziorato che il soggetto non era tornato in paese, fa
chiamare il console del villaggio, e si fa condur da lui alla casa indicata,
con gran treno di notaio e di birri. La casa è chiusa; chi ha le chiavi non
c'è, o non si lascia trovare. Si sfonda l'uscio; si fa la debita diligenza,
vale a dire che si fa come in una città presa d'assalto. La voce di quella
spedizione si sparge immediatamente per tutto il contorno; viene agli orecchi
del padre Cristoforo; il quale, attonito non meno che afflitto, domanda al
terzo e al quarto, per aver qualche lume intorno alla cagione d'un fatto così
inaspettato; ma non raccoglie altro che congetture in aria, e scrive subito al
padre Bonaventura, dal quale spera di poter ricevere qualche notizia più
precisa. Intanto i parenti e gli amici di Renzo vengono citati a deporre ciò
che posson sapere della sua prava qualità: aver nome Tramaglino è una
disgrazia, una vergogna, un delitto: il paese è sottosopra. A poco a poco, si
viene a sapere che Renzo è scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e
poi scomparso; corre voce che abbia fatto qualcosa di grosso; ma la cosa poi
non si sa dire, o si racconta in cento maniere. Quanto più è grossa, tanto meno
vien creduta nel paese, dove Renzo è conosciuto per un bravo giovine: i più
presumono, e vanno susurrandosi agli orecchi l'uno con l'altro, che è una
macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo povero
rivale. Tant'è vero che, a giudicar per induzione, e senza la necessaria
cognizione de' fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti.
Ma noi,
co' fatti alla mano, come si suol dire, possiamo affermare che, se colui non
aveva avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però, come se fosse
opera sua, e ne trionfò co' suoi fidati, e principalmente col conte Attilio.
Questo, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell'ora trovarsi già
in Milano; ma, alle prime notizie del tumulto, e della canaglia che girava per
le strade, in tutt'altra attitudine che di ricever bastonate, aveva creduto
bene di trattenersi in campagna, fino a cose quiete. Tanto più che, avendo
offeso molti, aveva qualche ragion di temere che alcuno de' tanti, che solo per
impotenza stavano cheti, non prendesse animo dalle circostanze, e giudicasse il
momento buono da far le vendette di tutti. Questa sospensione non fu di lunga
durata: l'ordine venuto da Milano dell'esecuzione da farsi contro Renzo era già
un indizio che le cose avevan ripreso il corso ordinario; e, quasi nello stesso
tempo, se n'ebbe la certezza positiva. Il conte Attilio partì immediatamente,
animando il cugino a persister nell'impresa, a spuntar l'impegno, e
promettendogli che, dal canto suo, metterebbe subito mano a sbrigarlo dal
frate; al qual affare, il fortunato accidente dell'abietto rivale doveva fare
un gioco mirabile. Appena partito Attilio, arrivò il Griso da Monza sano e
salvo, e riferì al suo padrone ciò che aveva potuto raccogliere: che Lucia era
ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signora; e stava
sempre nascosta, come se fosse una monaca anche lei, non mettendo mai piede
fuor della porta, e assistendo alle funzioni di chiesa da una finestrina con la
grata: cosa che dispiaceva a molti, i quali avendo sentito motivar non so che
di sue avventure, e dir gran cose del suo viso, avrebbero voluto un poco vedere
come fosse fatto.
Questa
relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o, per dir meglio, rendé più
cattivo quello che già ci stava di casa. Tante circostanze favorevoli al suo
disegno infiammavano sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio,
di rabbia e d'infame capriccio, di cui la sua passione era composta. Renzo
assente, sfrattato, bandito, di maniera che ogni cosa diventava lecita contro
di lui, e anche la sua sposa poteva esser considerata, in certo modo, come roba
di rubello: il solo uomo al mondo che volesse e potesse prender le sue parti, e
fare un rumore da esser sentito anche lontano e da persone alte, l'arrabbiato
frate, tra poco sarebbe probabilmente anche lui fuor del caso di nuocere. Ed
ecco che un nuovo impedimento, non che contrappesare tutti que' vantaggi, li
rendeva, si può dire, inutili. Un monastero di Monza, quand'anche non ci fosse
stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e
per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva
immaginar né via né verso d'espugnarlo, né con la forza, né per insidie. Fu
quasi quasi per abbandonar l'impresa; fu per risolversi d'andare a Milano,
allungando anche la strada, per non passar neppure da Monza; e a Milano, gettarsi
in mezzo agli amici e ai divertimenti, per discacciar, con pensieri affatto
allegri, quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici;
piano un poco con questi amici. In vece d'una distrazione, poteva aspettarsi di
trovar nella loro compagnia, nuovi dispiaceri: perché Attilio certamente
avrebbe già preso la tromba, e messo tutti in aspettativa. Da ogni parte gli
verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S'era
voluto, s'era tentato; cosa s'era ottenuto? S'era preso un impegno: un impegno
un po' ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i
suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s'usciva da quest'impegno?
Dandola vinta a un villano e a un frate! Uh! E quando una buona sorte
inaspettata, senza fatica del buon a nulla, aveva tolto di mezzo l'uno, e un
abile amico l'altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della
congiuntura, - e si ritirava vilmente dall'impresa. Ce n'era più del bisogno,
per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada
alle mani. E poi, come tornare, o come rimanere in quella villa, in quel paese,
dove, lasciando da parte i ricordi incessanti e pungenti della passione, si
porterebbe lo sfregio d'un colpo fallito? dove, nello stesso tempo, sarebbe
cresciuto l'odio pubblico, e scemata la riputazion del potere? dove sul viso
d'ogni mascalzone, anche in mezzo agl'inchini, si potrebbe leggere un amaro:
l'hai ingoiata, ci ho gusto? La strada dell'iniquità, dice qui il manoscritto,
è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i
suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benché vada all'ingiù.
A don
Rodrigo, il quale non voleva uscirne, né dare addietro, né fermarsi, e non
poteva andare avanti da sé, veniva bensì in mente un mezzo con cui potrebbe: ed
era di chieder l'aiuto d'un tale, le cui mani arrivavano spesso dove non
arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà
dell'imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé. Ma questo partito
aveva anche i suoi inconvenienti e i suoi rischi, tanto più gravi quanto meno
si potevano calcolar prima; giacché nessuno avrebbe saputo prevedere fin dove
anderebbe, una volta che si fosse imbarcato con quell'uomo, potente ausiliario
certamente, ma non meno assoluto e pericoloso condottiere.
Tali
pensieri tennero per più giorni don Rodrigo tra un sì e un no, l'uno e l'altro
più che noiosi. Venne intanto una lettera del cugino, la quale diceva che la
trama era ben avviata. Poco dopo il baleno, scoppiò il tuono; vale a dire che,
una bella mattina, si sentì che il padre Cristoforo era partito dal convento di
Pescarenico. Questo buon successo così pronto, la lettera d'Attilio che faceva
un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature, fecero inclinar sempre più
don Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l'ultima spinta, fu la
notizia inaspettata che Agnese era tornata a casa sua: un impedimento di meno
vicino a Lucia. Rendiam conto di questi due avvenimenti, cominciando
dall'ultimo.
Le due
povere donne s'erano appena accomodate nel loro ricovero, che si sparse per
Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova di quel gran fracasso di
Milano; e dietro alla nuova grande, una serie infinita di particolari, che andavano
crescendo e variandosi ogni momento. La fattoressa, che, dalla sua casa, poteva
tenere un orecchio alla strada, e uno al monastero, raccoglieva notizie di qui,
notizie di lì, e ne faceva parte all'ospiti.
- Due,
sei, otto, quattro, sette ne hanno messi in prigione; gl'impiccheranno, parte
davanti al forno delle grucce, parte in cima alla strada dove c'è la casa del
vicario di provvisione... Ehi, ehi, sentite questa! n'è scappato uno, che è di
Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che me lo
saprà dire; per veder se lo conoscete.
Quest'annunzio,
con la circostanza d'esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale,
diede qualche inquietudine alle donne, e principalmente a Lucia; ma pensate
cosa fu quando la fattoressa venne a dir loro: - e proprio del vostro paese
quello che se l'è battuta, per non essere impiccato; un filatore di seta, che
si chiama Tramaglino: lo conoscete?
A
Lucia, ch'era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro di mano;
impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se ne sarebbe avvista
certamente, se le fosse stata più vicina. Ma era ritta sulla soglia con Agnese;
la quale, conturbata anche lei, però non tanto, poté star forte; e, per
risponder qualcosa, disse che, in un piccolo paese, tutti si conoscono, e che
lo conosceva; ma che non sapeva pensare come mai gli fosse potuta seguire una
cosa simile; perché era un giovine posato. Domandò poi se era scappato di
certo, e dove.
-
Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che l'accalappino ancora,
può essere che sia in salvo; ma se gli torna sotto l'unghie, il vostro giovine
posato...
Qui,
per buona sorte, la fattoressa fu chiamata, e se n'andò: figuratevi come
rimanessero la madre e la figlia. Più d'un giorno, dovettero la povera donna e
la desolata fanciulla stare in una tale incertezza, a mulinare sul come, sul
perché, sulle conseguenze di quel fatto doloroso, a commentare, ognuna tra sé,
o sottovoce tra loro, quando potevano, quelle terribili parole.
Un
giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar d'Agnese. Era un
pesciaiolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l'ordinario, a spacciar
la sua mercanzia; e il buon frate Cristoforo l'aveva pregato che, passando per
Monza, facesse una scappata al monastero, salutasse le donne da parte sua,
raccontasse loro quel che si sapeva del tristo caso di Renzo, raccomandasse
loro d'aver pazienza, e confidare in Dio; e che lui povero frate non si
dimenticherebbe certamente di loro, e spierebbe l'occasione di poterle aiutare;
e intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro saper le sue nuove, per
quel mezzo, o altrimenti. Intorno a Renzo, il messo non seppe dir altro di
nuovo e di certo, se non la visita fattagli in casa, e le ricerche per averlo
nelle mani; ma insieme ch'erano andate tutte a voto, e si sapeva di certo che
s'era messo in salvo sul bergamasco. Una tale certezza, e non fa bisogno di
dirlo, fu un gran balsamo per Lucia: d'allora in poi le sue lacrime scorsero
più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la
madre; e in tutte le sue preghiere, c'era mescolato un ringraziamento.
Gertrude
la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta
lungamente, compiacendosi dell'ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel
sentirsi ringraziare e benedire ogni momento. Le raccontava anche, in
confidenza, una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva
patito, per andar lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia
s'andava cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che
sufficienti a spiegar ciò che c'era d'un po' strano nelle maniere della sua
benefattrice; tanto più con l'aiuto di quella dottrina d'Agnese su' cervelli
de' signori. Per quanto però si sentisse portata a contraccambiare la
confidenza che Gertrude le dimostrava, non le passò neppur per la testa di
parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua nuova disgrazia, di dirle chi
fosse quel filatore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena
di dolore e di scandolo. Si schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle
domande curiose di quella, sulla storia antecedente alla promessa; ma qui non
eran ragioni di prudenza. Era perché alla povera innocente quella storia pareva
più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e
che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c'era tirannia, insidie,
patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua
c'era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva
possibile di proferire, parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da
sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l'amore!
Qualche
volta, Gertrude quasi s'indispettiva di quello star così sulle difese; ma vi
traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza, e anche
tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore così delicato, così ombroso, le
dispiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella soavità d'un
pensiero che le tornava ogni momento, guardando Lucia: "a questa fo del
bene". Ed era vero; perché, oltre il ricovero, que' discorsi, quelle
carezze famigliari erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel
lavorar di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche
nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio:
ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch'era un
mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e
dietro all'aspo, quante cose!
Il
secondo giovedì, tornò quel pesciaiolo o un altro messo, co' saluti del padre
Cristoforo, e con la conferma della fuga felice di Renzo. Notizie più positive
intorno a' suoi guai, nessuna; perché, come abbiam detto al lettore, il
cappuccino aveva sperato d'averle dal suo confratello di Milano, a cui l'aveva
raccomandato; e questo rispose di non aver veduto né la persona, né la lettera;
che uno di campagna era bensì venuto al convento, a cercar di lui; ma che, non
avendocelo trovato, era andato via, e non era più comparso.
Il
terzo giovedì, non si vide nessuno; e, per le povere donne, fu non solo una
privazione d'un conforto desiderato e sperato, ma, come accade per ogni piccola
cosa a chi è afflitto e impicciato, una cagione d'inquietudine, di cento
sospetti molesti. Già prima d'allora, Agnese aveva pensato a fare una scappata
a casa; questa novità di non vedere l'ambasciatore promesso, la fece risolvere.
Per Lucia era una faccenda seria il rimanere distaccata dalla gonnella della
madre; ma la smania di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in
quell'asilo così guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deciso tra
loro che Agnese anderebbe il giorno seguente ad aspettar sulla strada il
pesciaiolo che doveva passar di lì, tornando da Milano; e gli chiederebbe in
cortesia un posto sul baroccio, per farsi condurre a' suoi monti. Lo trovò in
fatti, gli domandò se il padre Cristoforo non gli aveva data qualche
commissione per lei: il pesciaiolo, tutto il giorno avanti la sua partenza era
stato a pescare, e non aveva saputo niente del padre. La donna non ebbe bisogno
di pregare, per ottenere il piacere che desiderava: prese congedo dalla signora
e dalla figlia, non senza lacrime, promettendo di mandar subito le sue nuove, e
di tornar presto; e partì.
Nel
viaggio, non accadde nulla di particolare. Riposarono parte della notte in
un'osteria, secondo il solito; ripartirono innanzi giorno; e arrivaron di
buon'ora a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del convento, lasciò
andare il suo conduttore con molti: Dio ve ne renda merito; e giacché era lì,
volle, prima d'andare a casa, vedere il suo buon frate benefattore. Sonò il
campanello; chi venne a aprire, fu fra Galdino, quel delle noci.
- Oh!
la mia donna, che vento v'ha portata?
- Vengo
a cercare il padre Cristoforo.
- Il
padre Cristoforo? Non c'è.
- Oh!
starà molto a tornare?
-
Ma...? - disse il frate, alzando le spalle, e ritirando nel cappuccio la testa
rasa.
- Dov'è
andato?
- A
Rimini.
- A?
- A
Rimini.
- Dov'è
questo paese?
- Eh eh
eh! - rispose il frate, trinciando verticalmente l'aria con la mano distesa,
per significare una gran distanza.
- Oh
povera me! Ma perché è andato via così all'improvviso?
-
Perché ha voluto così il padre provinciale.
- E
perché mandarlo via? che faceva tanto bene qui? Oh Signore!
- Se i
superiori dovessero render conto degli ordini che dànno, dove sarebbe
l'ubbidienza, la mia donna?
- Sì;
ma questa e la mia rovina.
-
Sapete cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d'un buon predicatore
(ce n'abbiamo per tutto; ma alle volte ci vuol quell'uomo fatto apposta); il
padre provinciale di là avrà scritto al padre provinciale di qui, se aveva un
soggetto così e così; e il padre provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre
Cristoforo. Dev'esser proprio così, vedete.
- Oh
poveri noi! Ouand'è partito?
-
Ierlaltro.
- Ecco!
s'io davo retta alla mia ispirazione di venir via qualche giorno prima! E non
si sa quando possa tornare? così a un di presso?
- Eh la
mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui. Quando un nostro
padre predicatore ha preso il volo, non si può prevedere su che ramo potrà
andarsi a posare. Li cercan di qua, li cercan di là: e abbiamo conventi in
tutte le quattro parti del mondo. Supponete che, a Rimini, il padre Cristoforo
faccia un gran fracasso col suo quaresimale: perché non predica sempre a
braccio, come faceva qui, per i pescatori e i contadini: per i pulpiti delle
città, ha le sue belle prediche scritte; e fior di roba. Si sparge la voce, da
quelle parti, di questo gran predicatore; e lo possono cercare da... da che so
io? E allora, bisogna mandarlo; perché noi viviamo della carità di tutto il
mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo.
Oh
Signore! Signore! - esclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: - come devo fare,
senza quell'uomo? Era quello che ci faceva da padre! Per noi è una rovina.
-
Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma ce
n'abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di talento, e che sanno
trattare ugualmente co' signori e co' poveri. Volete il padre Atanasio? volete
il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il
padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così
mingherlino, con una vocina fessa, e una barbetta misera misera: non dico per
predicare, perché ognuno ha i suoi doni; ma per dar pareri, è un uomo, sapete?
- Oh
per carità! - esclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e d'impazienza, che
si prova a un'esibizione in cui si trovi più la buona volontà altrui, che la
propria convenienza: - cosa m'importa a me che uomo sia o non sia un altro,
quando quel pover'uomo che non c'è più, era quello che sapeva le nostre cose, e
aveva preparato tutto per aiutarci?
-
Allora, bisogna aver pazienza.
- Questo
lo so, - rispose Agnese: - scusate dell'incomodo.
- Di
che cosa, la mia donna? mi dispiace per voi. E se vi risolvete di cercar
qualcheduno de' nostri padri, il convento è qui che non si move. Ehi, mi
lascerò poi veder presto, per la cerca dell'olio.
- State
bene, - disse Agnese; e s'incamminò verso il suo paesetto, desolata, confusa,
sconcertata, come il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.
Un po'
meglio informati che fra Galdino, noi possiamo dire come andò veramente la
cosa. Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva promesso a don
Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una
consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il
governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato,
assumeva temporaneamente il governo). Il conte zio, togato, e uno degli anziani
del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo
rendere con gli altri, non c'era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere
significativo, un restare a mezzo, uno stringer d'occhi che esprimeva: non
posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto
era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che
fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura
verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il
concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono
ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non
c'è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte
zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi,
ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per
un'occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte;
dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per
non dir altro, il conte duca l'aveva trattato con una degnazione particolare, e
ammesso alla sua confidenza, a segno d'avergli una volta domandato, in
presenza, si può dire, di mezza la corte come gli piacesse Madrid, e d'avergli
un'altra volta detto a quattr'occhi, nel vano d'una finestra, che il duomo di
Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.
Fatti i
suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del cugino, Attilio, con
un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo, disse: - credo di fare il
mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signore zio
d'un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar
delle conseguenze...
-
Qualcheduna delle sue, m'immagino.
- Per
giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è
riscaldato; e, come dico, non c'è che il signore zio, che possa...
-
Vediamo, vediamo.
- C'è
da quelle parti un frate cappuccino che l'ha con Rodrigo e la cosa è arrivata a
un punto che...
-
Quante volte v'ho detto, all'uno e all'altro, che i frati bisogna lasciarli
cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che dànno a chi deve... a chi tocca...
- E qui soffiò. - Ma voi altri che potete scansarli...
-
Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l'avrebbe scansato,
se avesse potuto. E il frate che l'ha con lui, che l'ha preso a provocarlo in
tutte la maniere...
- Che
diavolo ha codesto frate con mio nipote?
- Prima
di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di
prendersela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta
di là; e ha per questa creatura una carità, una carità... non dico pelosa, ma
una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa.
-
Intendo, - disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli
in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò
un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere.
- Ora,
da qualche tempo, - continuò Attilio, - s'è cacciato in testa questo frate, che
Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa...
- S'è
cacciato in testa, s'è cacciato in testa: lo conosco anch'io il signor don
Rodrigo; e ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste
materie.
-
Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura,
incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, e
finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trattenerne il
signore zio; il serio è che il frate s'è messo a parlar di Rodrigo come si
farebbe d'un mascalzone, cerca d'aizzargli contro tutto il paese...
- E gli
altri frati?
- Non
se ne impicciano, perché lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il
rispetto per Rodrigo; ma, dall'altra parte, questo frate ha un gran credito
presso i villani, perché fa poi anche il santo, e...
-
M'immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.
- Se lo
sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.
- Come?
Come?
-
Perché, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a Rodrigo,
appunto perché questo ha un protettor naturale, di tanta autorita come
vossignoria: e che lui se la ride de' grandi e de' politici, e che il cordone
di san Francesco tien legate anche le spade, e che...
- Oh
frate temerario! Come si chiama costui?
- Fra
Cristoforo da *** - disse Attilio; e il conte zio, preso da una cassetta del
suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando, quel
povero nome. Intanto Attilio seguitava: - è sempre stato di quell'umore,
costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi,
voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla
vincer con tutti, ne ammazzò uno; onde, per iscansar la forca, si fece frate.
- Ma
bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo, - diceva il conte zio, seguitando a
soffiare.
- Ora
poi, - continuava Attilio, - è più arrabbiato che mai, perché gli è andato a
monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo il signore zio capirà
che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai
pericoli del mondo, lei m'intende, o per che altro si fosse, la voleva maritare
assolutamente; e aveva trovato il... l'uomo: un'altra sua creatura, un
soggetto, che, forse e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome;
perché tengo per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel
degno soggetto.
- Chi è
costui?
- Un
filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che...
-
Lorenzo Tramaglino! - esclamò il conte zio. - Ma bene! ma bravo, padre!
Sicuro... infatti..., aveva una lettera per un... Peccato che... Ma non
importa; va bene. E perché il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto
questo? perché lascia andar le cose tant'avanti, e non si rivolge a chi lo può
e vuole dirigere e sostenere?
- Dirò
il vero anche in questo, - proseguiva Attilio. - Da una parte, sapendo quante
brighe, quante cose ha per la testa il signore zio... - (questo, soffiando, vi
mise la mano, come per significare la gran fatica ch'era a farcele star tutte)
- s'è fatto scrupolo di darle una briga di più. E poi, dirò tutto: da quello
che ho potuto capire, è così irritato, così fuor de' gangheri, così stucco
delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sé, in
qualche maniera sommaria, che d'ottenerla in una maniera regolare, dalla
prudenza e dal braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare; ma vedendo
che la cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d'avvertir di
tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della casa...
-
Avresti fatto meglio a parlare un poco prima.
- È
vero; ma io andavo sperando che la cosa svanirebbe da sé, o che il frate
tornerebbe finalmente in cervello, o che se n'anderebbe da quel convento, come
accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe
finito. Ma...
- Ora
toccherà a me a raccomodarla.
- Così
ho pensato anch'io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua avvedutezza,
con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo, e insieme salvar l'onore
di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, dicevo io, l'ha sempre col
cordone di san Francesco; ma per adoprarlo a proposito, il cordone di san
Francesco, non è necessario d'averlo intorno alla pancia. Il signore zio ha
cento mezzi ch'io non conosco: so che il padre provinciale ha, com'è giusto,
una gran deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso il
miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole...
- Lasci
il pensiero a chi tocca, vossignoria, - disse un po' ruvidamente il conte zio.
- Ah è
vero! - esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un sogghigno di
compassione per sé stesso. - Son io l'uomo da dar pareri al signore zio! Ma è
la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche
paura d'aver fatto un altro male, - soggiunse con un'aria pensierosa: - ho
paura d'aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signore zio. Non mi darei
pace, se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede
in lei, tutta quella sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in
questo caso è proprio...
- Via,
via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre amici, finché
l'uno non metta giudizio. Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate una; e a
me tocca di rattopparle: che... mi fareste dire uno sproposito, mi date più da
pensare voi altri due, che, - e qui immaginatevi che soffio mise, - tutti
questi benedetti affari di stato.
Attilio
fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi si
licenziò, e se n'andò, accompagnato da un - e abbiamo giudizio, - ch'era la
formola di commiato del conte zio per i suoi nipoti.
Chi,
vedendo in un campo mal coltivato, un'erbaccia, per esempio un bel lapazio,
volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o
portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse,
non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal
fondo naturale del suo cervello, o dall'insinuazione d'Attilio, venisse al
conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nella
miglior maniera quel nodo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva detta a
caso quella parola; e quantunque dovesse aspettarsi che, a un suggerimento così
scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, a ogni modo
volle fargli balenar dinanzi l'idea di quel ripiego, e metterlo sulla strada,
dove desiderava che andasse. Dall'altra parte, il ripiego era talmente adattato
all'umore del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza
suggerimento di chi si sia, si può scommettere che l'avrebbe trovato da sé. Si
trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote,
non rimanesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere
che gli stava tanto a cuore. La soddisfazione che il nipote poteva prendersi da
sé, sarebbe stata un rimedio peggior del male, una sementa di guai; e bisognava
impedirla, in qualunque maniera, e senza perder tempo. Comandargli che partisse
in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe ubbidito; e quand'anche
avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi a un convento.
Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contro un
avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare era affatto
immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora
abitati da esso: come deve sapere anche chi non avesse letta altra storia che
la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale
avversario era cercar d'allontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale,
in arbitrio del quale era l'andare e lo stare di quello.
Ora,
tra il padre provinciale e il conte zio passava un'antica conoscenza: s'eran
veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d'amicizia, e con esibizioni
sperticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia
sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale non vede che la
sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre
l'altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi,
cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da
cento parti.
Tutto
ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e
gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento
sopraffino. Oualche parente de' più titolati, di quelli il cui solo casato era
un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con
una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari,
riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento,
l'idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per
una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i
quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con
gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l'anima, alle
frutte v'avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di
no.
A
tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid.
A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte,
del conte duca, de' ministri, della famiglia del governatore; delle cacce del
toro, che lui poteva descriver benissimo, perché le aveva godute da un posto
distinto; dell'Escuriale di cui poteva render conto a un puntino, perché un
creato del conte duca l'aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo,
tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise
in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle
belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che
lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una giratina al
discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo
tirò sul cardinal Barberini, ch'era cappuccino, e fratello del papa allora
sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar
parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo
mondo, non c'era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da
tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un'altra stanza.
Due
potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il
magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e
cominciò: - stante l'amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a
vostra paternità d'un affare di comune interesse, da concluder tra di noi,
senz'andar per altre strade, che potrebbero... E perciò, alla buona, col cuore
in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo
d'accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c'è un padre Cristoforo da
***?
Il
provinciale fece cenno di sì.
- Mi
dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico... questo
soggetto... questo padre... Di persona io non lo conosco; e sì che de' padri
cappuccini ne conosco parecchi: uomini d'oro, zelanti, prudenti, umili: sono
stato amico dell'ordine fin da ragazzo... Ma in tutte le famiglie un po'
numerose... c'è sempre qualche individuo, qualche testa... E questo padre
Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo... un po' amico de'
contrasti... che non ha tutta quella prudenza, tutti que' riguardi...
Scommetterei che ha dovuto dar più d'una volta da pensare a vostra paternità.
"Ho
inteso: è un impegno, - pensava intanto il provinciale: - colpa mia; lo sapevo
che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in
pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di
campagna".
- Oh! -
disse poi: - mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un
tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un
religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.
-
Intendo benissimo; vostra paternità deve... Però, però, da amico sincero,
voglio avvertirla d'una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse
già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott'occhio certe
conseguenze... possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo
che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo... vostra paternità n'avrà
sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della
giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino,
cose... cose... Lorenzo Tramaglino!
"Ahi!"
pensò il provinciale; e disse: - questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra
magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d'andare in
cerca de' traviati, per ridurli...
- Va
bene; ma la protezione de' traviati d'una certa specie...! Son cose spinose,
affari delicati... - E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse
le labbra, e tirò dentro tant'aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E
riprese: - ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perche se
mai sua eccellenza... Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma... non so
niente... e da Roma venirle...
- Son
ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si
prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre
Cristoforo non avrà avuto che fare con l'uomo che lei dice, se non a fine di
mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.
- Già
lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in
gioventù.
- È la
gloria dell'abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha
potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre
Cristoforo porta quest'abito...
-
Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il
proverbio... l'abito non fa il monaco.
Il
proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l'aveva sostituito in
fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia
il pelo, ma non il vizio.
- Ho
de' riscontri, - continuava, - ho de' contrassegni...
- Se
lei sa positivamente, - disse il provinciale, - che questo religioso abbia
commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore
l'esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per
correggere, per rimediare.
- Le
dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di
questo padre per chi le ho detto, c'è un'altra cosa disgustosa, e che potrebbe...
Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C'è, dico, che lo stesso padre
Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.
- Oh!
questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.
- Mio
nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser
provocato...
- Sarà
mio dovere di prender buone informazioni d'un fatto simile. Come ho già detto a
vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che
pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare... tanto da una
parte, quanto dall'altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato...
- Veda
vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da
seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio. Lei sa cosa
segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e
vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a
capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto
reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che
sento, ha ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni d'un giovine: e tocca a
noi, che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh, padre molto reverendo?...
Chi
fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d'un'opera
seria, s'alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un
cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo,
discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l'atto, la voce del conte
zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c'era politica:
era proprio vero che gli dava noia d'avere i suoi anni. Non già che piangesse i
passatempi, il brio, l'avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze,
miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che
sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare
a tempo. Ottenuto che l'avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più
curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come
tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando
siano arrivati a ottenerla.
Ma per
lasciarlo parlar lui, - tocca a noi, - continuò, - a aver giudizio per i
giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a
tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d'un buon principiis
obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un
luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a
maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia
conveniente a questo religioso. C'è giusto anche l'altra circostanza, che possa
esser caduto in sospetto di chi... potrebbe desiderare che fosse rimosso: e,
collocandolo in qualche posto un po' lontanetto, facciamo un viaggio e due
servizi; tutto s'accomoda da sé, o per dir meglio, non c'è nulla di guasto.
Questa
conclusione, il padre provinciale se l'aspettava fino dal principio del
discorso. "Eh già! - pensava tra sé: - vedo dove vuoi andar a parare:
delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di
voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il
superiore deve farlo sgomberare".
E
quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto
fermo, - intendo benissimo, - disse il provinciale, - quel che il signor conte
vuol dire; ma prima di fare un passo...
È un
passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa
ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di
disordini, un'iliade di guai. Uno sproposito... mio nipote non crederei... ci
son io, per questo... Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la
tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si
fermi, che resti segreta... e allora non è più solamente mio nipote... Si
stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo
attinenze...
-
Cospicue.
- Lei
m'intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo... è
qualche cosa. C'entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora... anche
chi è amico della pace... Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere... di
trovarmi... io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini...!
Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico,
hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con
chi... E poi, hanno de' parenti al secolo... e questi affaracci di puntiglio,
per poco che vadano in lungo, s'estendono, si ramificano, tiran dentro... mezzo
mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m'obbliga a sostenere un
certo decoro... Sua eccellenza... i miei signori colleghi... tutto diviene
affar di corpo... tanto più con quell'altra circostanza... Lei sa come vanno
queste cose.
-
Veramente, - disse il padre provinciale, - il padre Cristoforo è predicatore; e
avevo già qualche pensiero... Mi si richiede appunto... Ma in questo momento,
in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima
d'aver ben messo in chiaro...
- No
punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza,
per impedire i sinistri che potrebbero... mi sono spiegato.
- Tra
il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il
fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel
paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c'è degli aizzatori, de'
mettimale, o almeno de' curiosi maligni che, se posson vedere alle prese
signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano,
ciarlano... Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore
(indegno), ho un dovere espresso... L'onor dell'abito... non è cosa mia... è un
deposito del quale... Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice
vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a
lui, e... non dico vantarsene, trionfarne, ma...
- Le
pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è
considerato... secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo;
e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio
nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose
che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si
dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare -. E soffiò. - In quanto
ai cicaloni, - riprese, - che vuol che dicano? Un religioso che vada a
predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo...
noi che prevediamo... noi che ci tocca... non dobbiamo poi curarci delle
ciarle.
- Però,
affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest'occasione, il suo signor
nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d'amicizia, di
riguardo... non per noi, ma per l'abito...
-
Sicuro, sicuro; quest'è giusto... Però non c'è bisogno: so che i cappuccini son
sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio
in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso...
qualcosa di straordinario... è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto
reverendo; che comanderò a mio nipote... Cioè bisognerà insinuargli con
prudenza, affinché non s'avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non
vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c'è ferita. E per quel
che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche
nicchia un po' lontana... per levar proprio ogni occasione...
- Mi
vien chiesto per l'appunto un predicatore da Rimini; e fors'anche, senz'altro
motivo, avrei potuto metter gli occhi...
- Molto
a proposito, molto a proposito. E quando...?
-
Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.
-
Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E, - continuava
poi, alzandosi da sedere, - se posso qualche cosa, tanto io, come la mia
famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini...
-
Conosciamo per prova la bontà della casa, - disse il padre provinciale,
alzatosi anche lui, e avviandosi verso l'uscio, dietro al suo vincitore.
-
Abbiamo spento una favilla, - disse questo, soffermandosi, - una favilla, padre
molto reverendo, che poteva destare un grand'incendio. Tra buoni amici, con due
parole s'accomodano di gran cose.
Arrivato
all'uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse
avanti: entrarono nell'altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia.
Un
grande studio, una grand'arte, di gran parole, metteva quel signore nel
maneggio d'un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti,
col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da
Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.
Una
sera, arriva a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un plico per il padre
guardiano. C'è dentro l'obbedienza per fra Cristoforo, di portarsi a Rimini,
dove predicherà la quaresima. La lettera al guardiano porta l'istruzione
d'insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d'affari che potesse avere
avviati nel paese da cui deve partire, e che non vi mantenga corrispondenze: il
frate latore dev'essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la
sera; la mattina, fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l'obbedienza, gli
dice che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario e la cintura, e con
quel padre compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio.
Se fu
un colpo per il nostro frate, lo lascio pensare a voi. Renzo, Lucia, Agnese,
gli vennero subito in mente; e esclamò, per dir così, dentro di sé: "oh
Dio! cosa faranno que' meschini, quando io non sarò più qui!" Ma alzò gli
occhi al cielo, e s'accusò d'aver mancato di fiducia, d'essersi creduto
necessario a qualche cosa. Mise le mani in croce sul petto, in segno
d'ubbidienza, e chinò la testa davanti al padre guardiano; il quale lo tirò poi
in disparte, e gli diede quell'altro avviso, con parole di consiglio, e con
significazione di precetto. Fra Cristoforo andò alla sua cella, prese la
sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale, e il pane del perdono,
s'allacciò la tonaca con la sua cintura di pelle, si licenziò da' suoi
confratelli che si trovavano in convento, andò da ultimo a prender la
benedizione del guardiano, e col compagno, prese la strada che gli era stata
prescritta.
Abbiamo
detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella
impresa, s'era risoluto di cercare il soccorso d'un terribile uomo. Di costui
non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una
congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio
troviamo memoria in più d'un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il
personaggio sia quel medesimo, l'identità de' fatti non lascia luogo a
dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse
dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita
del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell'uomo, lo chiama
"un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per
nascita", e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della
quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo
nomina uno, costui, colui, quest'uomo, quel personaggio. "Riferirò",
dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, "il caso d'un
tale che, essendo de' primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua
dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di
delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la
sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti,
foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse..." Da
questo scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per
confermare e per dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo
avanti
Fare
ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser
arbitro, padrone negli affari altrui, senz'altro interesse che il gusto di
comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch'eran soliti averla
dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui.
Fino dall'adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di
tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno
e d'invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione,
anzi n'andava in cerca, d'aver che dire co' più famosi di quella professione,
d'attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a
cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e
forse a tutti d'ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni
rivalità, molti ne conciò male, molti n'ebbe amici; non già amici del pari, ma,
come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero
suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel fatto però, veniva anche
lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano
di richiedere ne' loro impegni l'opera d'un tanto ausiliario; per lui,
tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo
assunto. Di maniera che, per conto suo, e per conto d'altri, tante ne fece che,
non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a
sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette
dar luogo, e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un
tratto notabile raccontato dal Ripamonti. "Una volta che costui ebbe a
sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon
tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba;
e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un'imbasciata
d'impertinenze per il governatore".
Nell'assenza,
non ruppe le pratiche, né tralasciò le corrispondenze con que' suoi tali amici,
i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti,
"in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste". Pare anzi
che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche,
delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa.
"Anche alcuni principi esteri, - dice, - si valsero più volte dell'opera
sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano
rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini".
Finalmente
(non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente
intercessione, o l'audacia di quell'uomo gli tenesse luogo d'immunità, si
risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un
castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa,
stato veneto. "Quella casa - cito ancora il Ripamonti, - era come
un'officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia,
e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati
dall'omicidio: le mani de' ragazzi insanguinate". Oltre questa bella
famiglia domestica, n'aveva, come afferma lo stesso storico, un'altra di
soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de' due stati
sul lembo de' quali viveva, e pronti sempre a' suoi ordini.
Tutti i
tiranni, per un bel tratto di paese all'intorno, avevan dovuto, chi in
un'occasione e chi in un'altra, scegliere tra l'amicizia e l'inimicizia di quel
tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto provar di resistergli, la
gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella
prova. E neppur col badare a' fatti suoi, con lo stare a sé, uno non poteva
rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che
abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose
simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio
vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l'altra parte
si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi
suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in
terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in
effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio,
e chiuderne l'adito all'avversario: gli uni e gli altri divenivano più
specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso,
vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del
debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere
scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai
luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più
terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato
benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel
compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que' tempi, aspettarlo da
nessun'altra forza né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l'ordinario, la
sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di
capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre
l'effetto medesimo, d'imprimere negli animi una grand'idea di quanto egli
potesse volere e eseguire in onta dell'equità e dell'iniquità, quelle due cose
che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso
tornare indietro. La fama de' tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in
quel piccolo tratto di paese dov'erano i più ricchi e i più forti: ogni
distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c'era ragione che la
gente s'occupasse di quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo
nostro era già da gran tempo diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua
vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa
d'irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s'aveva de'
suoi collegati e de' suoi sicari, contribuiva anch'esso a tener viva per tutto
la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata
apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo
collegato, ogni malandrino, uno de' suoi; e l'incertezza stessa rendeva più
vasta l'opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche
parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte
dell'ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o
indovinar l'autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie
a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de' nostri autori, saremo
costretti a chiamare l'innominato.
Dal
castellaccio di costui al palazzotto di don Rodrigo, non c'era più di sette
miglia: e quest'ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere
che, a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel
mestiere senza venire alle prese, o andar d'accordo con lui. Gli s'era perciò
offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s'intende; gli aveva
reso più d'un servizio (il manoscritto non dice di più); e n'aveva riportate
ogni volta promesse di contraccambio e d'aiuto, in qualunque occasione. Metteva
però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare
scorgere quanto stretta, e di che natura fosse. Don Rodrigo voleva bensì fare
il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo,
non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli
spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi
riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l'amicizia di persone alte,
avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno
traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche
occasione, sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più
facilmente che con l'armi della violenza privata. Ora, l'intrinsichezza, diciam
meglio, una lega con un uomo di quella sorte, con un aperto nemico della forza
pubblica, non gli avrebbe certamente fatto buon gioco a ciò, specialmente
presso il conte zio. Però quel tanto d'una tale amicizia che non era possibile
di nascondere, poteva passare per una relazione indispensabile con un uomo la
cui inimicizia era troppo pericolosa; e così ricevere scusa dalla necessità:
giacché chi ha l'assunto di provvedere, e non n'ha la volontà, o non ne trova
il verso, alla lunga acconsente che altri provveda da sé, fino a un certo
segno, a' casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio.
Una
mattina, don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una piccola scorta
di bravi a piedi; il Griso alla staffa, e quattro altri in coda; e s'avviò al
castello dell'innominato.
Il
castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla
cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si
saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e
di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche
dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo
piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi,
sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un
rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due
stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della valle,
hanno anch'essi un po' di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte
ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne' fessi e sui ciglioni.
Dall'alto
del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore
dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi, e non
vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un'occhiata in
giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là
dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si
spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle
finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell'agio i passi di
chi veniva, e spianargli l'arme contro, cento volte. E anche d'una grossa
compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù,
stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno
arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e
neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto
dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe
stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si
raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar
l'impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de' giovani si rammentava d'aver
veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.
Tale è
la descrizione che l'anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non
metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo,
e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all'imboccatura
dell'erto e tortuoso sentiero. Lì c'era una taverna, che si sarebbe anche
potuta chiamare un corpo di guardia. Sur una vecchia insegna che pendeva sopra
l'uscio, era dipinto da tutt'e due le parti un sole raggiante; ma la voce
pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta li
rifà a modo suo, non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte.
Al
rumore d'una cavalcatura che s'avvicinava, comparve sulla soglia un
ragazzaccio, armato come un saracino; e data un'occhiata, entrò ad informare
tre sgherri, che stavan giocando, con certe carte sudice e piegate in forma di
tegoli. Colui che pareva il capo s'alzò, s'affacciò all'uscio, e, riconosciuto
un amico del suo padrone, lo salutò rispettosamente. Don Rodrigo, resogli con
molto garbo il saluto, domandò se il signore si trovasse al castello; e
rispostogli da quel caporalaccio, che credeva di sì, smontò da cavallo, e buttò
la briglia al Tiradritto, uno del suo seguito. Si levò lo schioppo, e lo
consegnò al Montanarolo, come per isgravarsi d'un peso inutile, e salir più
lesto; ma, in realtà, perché sapeva bene, che su quell'erta non era permesso
d'andar con lo schioppo. Si cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al
Tanabuso, dicendogli: - voi altri state ad aspettarmi; e intanto starete un po'
allegri con questa brava gente -. Cavò finalmente alcuni scudi d'oro, e li mise
in mano al caporalaccio, assegnandone metà a lui, e metà da dividersi tra i
suoi uomini. Finalmente, col Griso, che aveva anche lui posato lo schioppo,
cominciò a piedi la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti, e lo Squinternotto
ch'era il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura),
rimasero coi tre dell'innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche, a
giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze.
Un
altro bravaccio dell'innominato, che saliva, raggiunse poco dopo don Rodrigo;
lo guardò, lo riconobbe, e s'accompagnò con lui; e gli risparmiò così la noia
di dire il suo nome, e di rendere altro conto di sé a quant'altri avrebbe
incontrati, che non lo conoscessero. Arrivato al castello, e introdotto
(lasciando però il Griso alla porta), fu fatto passare per un andirivieni di
corridoi bui, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di
partigiane, e in ognuna delle quali c'era di guardia qualche bravo; e, dopo
avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l'innominato.
Questo
gli andò incontro, rendendogli il saluto, e insieme guardandogli le mani e il
viso, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque
venisse da lui, per quanto fosse de' più vecchi e provati amici. Era grande,
bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a
prima vista, gli si sarebbe dato più de' sessant'anni che aveva; ma il
contegno, le mosse, la durezza risentita de' lineamenti, il lampeggiar
sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e di animo, che
sarebbe stata straordinaria in un giovine.
Don
Rodrigo disse che veniva per consiglio e per aiuto; che, trovandosi in un
impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi,
s'era ricordato delle promesse di quell'uomo che non prometteva mai troppo, né
invano; e si fece ad esporre il suo scellerato imbroglio. L'innominato che ne
sapeva già qualcosa, ma in confuso, stette a sentire con attenzione, e come
curioso di simili storie, e per essere in questa mischiato un nome a lui noto e
odiosissimo, quello di fra Cristoforo, nemico aperto de' tiranni, e in parole
e, dove poteva, in opere. Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise poi a
esagerare le difficoltà dell'impresa; la distanza del luogo, un monastero, la
signora!... A questo, l'innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel
avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l'impresa sopra
di sé. Prese l'appunto del nome della nostra povera Lucia, e licenziò don
Rodrigo, dicendo: - tra poco avrete da me l'avviso di quel che dovrete fare.
Se il
lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al monastero
dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era uno de' più
stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l'innominato: perciò
questo aveva lasciata correre così prontamente e risolutamente la sua parola.
Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d'averla
data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una
cert'uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch'erano ammontate, se non
sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che
ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all'animo brutte e troppe: era
come il crescere e crescere d'un peso già incomodo. Una certa ripugnanza
provata ne' primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora
a farsi sentire. Ma in que' primi tempi, l'immagine d'un avvenire lungo,
indeterminato, il sentimento d'una vitalità vigorosa, riempivano l'animo d'una
fiducia spensierata: ora all'opposto, i pensieri dell'avvenire eran quelli che
rendevano più noioso il passato. "Invecchiare! morire! e poi?" E,
cosa notabile! l'immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte
d'un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell'uomo, e infondergli un'ira piena
di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte,
nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione
repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non
si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva
sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni
momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il
pensiero, quella s'avvicinava. Ne' primi tempi, gli esempi così frequenti, lo
spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta,
dell'omicidio, ispirandogli un'emulazione feroce, gli avevano anche servito
come d'una specie d'autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto
nell'animo l'idea confusa, ma terribile, d'un giudizio individuale, d'una
ragione indipendente dall'esempio; ora, l'essere uscito dalla turba volgare de'
malvagi, l'essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d'una
solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran
tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere
come se non ci fosse, ora, in certi momenti d'abbattimento senza motivo, di
terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però.
Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita
annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli
tornava d'improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una
cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua
nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con
l'apparenze d'una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di
nasconderla a se stesso, o di soffogarla. Invidiando (giacché non poteva
annientarli né dimenticarli) que' tempi in cui era solito commettere l'iniquità
senza rimorso, senz'altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per
farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell'antica volontà, pronta,
superba, imperturbata, per convincer se stesso ch'era ancor quello.
Così in
quest'occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per
chiudersi l'adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare
quella fermezza che s'era comandata per promettere, sentendo a poco a poco
venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella
parola, e l'avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico, a un complice
secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio,
uno de' più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era
solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E, con aria risoluta, gli
comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto a Monza, informasse
Egidio dell'impegno contratto, e richiedesse il suo aiuto per adempirlo.
Il
messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l'aspettasse, con la
risposta d'Egidio: che l'impresa era facile e sicura; gli si mandasse subito
una carrozza, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura di
tutto il resto, e guiderebbe la cosa. A quest'annunzio, l'innominato, comunque
stesse di dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che disponesse tutto
secondo aveva detto Egidio, e andasse con due altri che gli nominò, alla
spedizione.
Se per
rendere l'orribile servizio che gli era stato chiesto, Egidio avesse dovuto far
conto de' soli suoi mezzi ordinari, non avrebbe certamente data così subito una
promessa così decisa. Ma, in quell'asilo stesso dove pareva che tutto dovesse
essere ostacolo, l'atroce giovine aveva un mezzo noto a lui solo; e ciò che per
gli altri sarebbe stata la maggior difficoltà, era strumento per lui. Noi
abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue
parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l'ultima, non fu
che un primo passo in una strada d'abbominazione e di sangue. Quella stessa
voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le
impose ora il sagrifizio dell'innocente che aveva in custodia.
La
proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto,
senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva
comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo
rimorso un mezzo di espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per
esimersi dall'orribile comando; tutte, fuorché la sola ch'era sicura, e che le
stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile,
contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo
Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
Era il
giorno stabilito; l'ora convenuta s'avvicinava; Gertrude, ritirata con Lucia
nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell'ordinario, e Lucia le
riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora,
tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina
mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla,
l'aspetta il macellaio, a cui il pastore l'ha venduta un momento prima.
- Ho
bisogno d'un gran servizio; e voi sola potete farmelo. Ho tanta gente a' miei
comandi; ma di cui mi fidi, nessuno. Per un affare di grand'importanza, che vi
dirò poi, ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de'
cappuccini che v'ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è anche
necessario che nessuno sappia che l'ho mandato a chiamare io. Non ho che voi
per far segretamente quest'imbasciata.
Lucia
fu atterrita d'una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma senza
nascondere una gran maraviglia, addusse subito, per disimpegnarsene, le ragioni
che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre,
senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto... Ma
Gertrude, ammaestrata a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei,
e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di cui credeva
poter far più conto, figurò di trovar così vane quelle scuse! di giorno chiaro,
quattro passi, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e che,
quand'anche non l'avesse mai veduta, a insegnargliela, non la poteva
sbagliare!... Tanto disse, che la poverina, commossa e punta a un tempo, si
lasciò sfuggir di bocca: - e bene; cosa devo fare?
-
Andate al convento de' cappuccini: - e le descrisse la strada di nuovo: - fate
chiamare il padre guardiano, ditegli, da solo a solo, che venga da me subito
subito; ma che non dica a nessuno che son io che lo mando a chiamare.
- Ma
cosa dirò alla fattoressa, che non m'ha mai vista uscire, e mi domanderà dove
vo?
-
Cercate di passare senz'esser vista; e se non vi riesce, ditele che andate alla
chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione.
Nuova
difficoltà per la povera giovine: dire una bugia; ma la signora si mostrò di
nuovo così afflitta delle ripulse, le fece parer così brutta cosa l'anteporre
un vano scrupolo alla riconoscenza, che Lucia, sbalordita più che convinta, e
soprattutto commossa più che mai, rispose: - e bene; anderò. Dio m'aiuti! - E
si mosse.
Quando
Gertrude, che dalla grata la seguiva con l'occhio fisso e torbido, la vide
metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile,
aprì la bocca, e disse: - sentite, Lucia! Questa si voltò, e tornò verso la grata.
Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di
nuovo nella mente sciagurata di Gertrude. Facendo le viste di non esser
contenta dell'istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia la strada che doveva
tenere, e la licenziò dicendo: - fate ogni cosa come v'ho detto, e tornate
presto -. Lucia partì.
Passò
inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi bassi,
rasente al muro; trovò, con l'indicazioni avute e con le proprie rimembranze,
la porta del borgo, n'uscì, andò tutta raccolta e un po' tremante, per la
strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva al convento; e
la riconobbe. Quella strada era, ed è tutt'ora, affondata, a guisa d'un letto
di fiume, tra due alte rive orlate di macchie, che vi forman sopra una specie
di volta. Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la
paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere una
carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti allo sportello aperto,
due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come incerti della strada.
Andando avanti, sentì uno di que' due, che diceva: - ecco una buona giovine che
c'insegnerà la strada -. Infatti, quando fu arrivata alla carrozza, quel
medesimo, con un fare più gentile che non fosse l'aspetto, si voltò, e disse: -
quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza?
-
Andando di lì, vanno a rovescio, - rispondeva la poverina:
- Monza
è di qua... - e si voltava, per accennar col dito; quando l'altro compagno (era
il Nibbio), afferrandola d'improvviso per la vita, l'alzò da terra. Lucia girò
la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza
nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per
quanto lei si divincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sé: un altro,
mettendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola. In tanto il
Nibbio entrò presto presto anche lui nella carrozza: lo sportello si chiuse, e
la carrozza partì di carriera. L'altro che le aveva fatta quella domanda
traditora, rimasto nella strada, diede un'occhiata in qua e in là, per veder se
fosse accorso qualcheduno agli urli di Lucia: non c'era nessuno; saltò sur una
riva, attaccandosi a un albero della macchia, e disparve. Era costui uno
sgherro d'Egidio; era stato, facendo l'indiano, sulla porta del suo padrone,
per veder quando Lucia usciva dal monastero; l'aveva osservata bene, per
poterla riconoscere; ed era corso, per una scorciatoia, ad aspettarla al posto
convenuto.
Chi potrà
ora descrivere il terrore, l'angoscia di costei, esprimere ciò che passava nel
suo animo? Spalancava gli occhi spaventati, per ansietà di conoscere la sua
orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per il terrore
di que' visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva
tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo sportello; ma
due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della carrozza;
quattro altre manacce ve l'appuntellavano. Ogni volta che aprisse la bocca per
cacciare un urlo, il fazzoletto veniva a soffogarglielo in gola. Intanto tre
bocche d'inferno, con la voce più umana che sapessero formare, andavan
ripetendo: - zitta, zitta, non abbiate paura, non vogliamo farvi male -. Dopo
qualche momento d'una lotta così angosciosa, parve che s'acquietasse; allentò
le braccia, lasciò cader la testa all'indietro, alzò a stento le palpebre,
tenendo l'occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le
parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mostruoso: le fuggì il
colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s'abbandonò, e svenne.
- Su,
su, coraggio, - diceva il Nibbio. - Coraggio, coraggio, - ripetevan gli altri
due birboni; ma lo smarrimento d'ogni senso preservava in quel momento Lucia
dal sentire i conforti di quelle orribili voci.
-
Diavolo! par morta, - disse uno di coloro: - se fosse morta davvero?
- Oh!
morta! - disse l'altro: - è uno di quegli svenimenti che vengono alle donne. Io
so che, quando ho voluto mandare all'altro mondo qualcheduno, uomo o donna che
fosse, c'è voluto altro.
- Via!
- disse il Nibbio: - attenti al vostro dovere, e non andate a cercar altro.
Tirate fuori dalla cassetta i tromboni, e teneteli pronti; che in questo bosco
dove s'entra ora, c'è sempre de' birboni annidati. Non così in mano, diavolo!
riponeteli dietro le spalle, stesi: non vedete che costei è un pulcin bagnato
che basisce per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero. E quando sarà
rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non vi fo segno;
a tenerla basto io. E zitti: lasciate parlare a me.
Intanto
la carrozza, andando sempre di corsa, s'era inoltrata nel bosco.
Dopo
qualche tempo, la povera Lucia cominciò a risentirsi, come da un sonno profondo
e affannoso, e aprì gli occhi. Penò alquanto a distinguere gli spaventosi
oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine comprese di
nuovo la sua terribile situazione. Il primo uso che fece delle poche forze
ritornatele, fu di buttarsi ancora verso lo sportello, per slanciarsi fuori; ma
fu ritenuta, e non poté che vedere un momento la solitudine selvaggia del luogo
per cui passava. Cacciò di nuovo un urlo; ma il Nibbio, alzando la manaccia col
fazzoletto, - via, - le disse, più dolcemente che poté; - state zitta, che sarà
meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma se non istate zitta, vi faremo star
noi.
-
Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi conducete? Perché m'avete presa?
Lasciatemi andare, lasciatemi andare!
- Vi
dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non
vogliamo farvi male. Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se
avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.
- No,
no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco.
- Vi
conosciamo noi.
- Oh
santissima Vergine! come mi conoscete? Lasciatemi andare, per carità. Chi siete
voi? Perché m'avete presa?
-
Perché c'è stato comandato.
- Chi?
chi? chi ve lo può aver comandato?
-
Zitta! - disse con un visaccio severo il Nibbio: - a noi non si fa di codeste
domande.
Lucia
tentò un'altra volta di buttarsi d'improvviso allo sportello; ma vedendo ch'era
inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote
irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte
dinanzi alle labbra, - oh - diceva: - per l'amor di Dio, e della Vergine
santissima, lasciatemi andare! Cosa v'ho fatto di male io? Sono una povera
creatura che non v'ha fatto niente. Quello che m'avete fatto voi, ve lo perdono
di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie,
una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato.
Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi
usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar
la mia strada.
- Non
possiamo.
- Non
potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché? ...
- Non
possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state
quieta, e nessuno vi toccherà.
Accorata,
affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano
nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini,
e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse il più che poté, nel
canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo
con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più
fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Ogni tanto,
sperando d'avere impetrata la misericordia che implorava, si voltava a ripregar
coloro; ma sempre inutilmente. Poi ricadeva ancora senza sentimenti, poi si
riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai non ci regge il cuore
a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di
quel viaggio, che durò più di quattr'ore; e dopo il quale avremo altre ore
angosciose da passare. Trasportiamoci al castello dove l'infelice era
aspettata.
Era
aspettata dall'innominato, con un'inquietudine, con una sospension d'animo
insolita. Cosa strana! quell'uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante
vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui
cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di
vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera
contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore. Da un'alta
finestra del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della
valle; ed ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi lentamente: perché quel
primo andar di carriera aveva consumata la foga, e domate le forze de' cavalli.
E benché, dal punto dove stava a guardare, la non paresse più che una di quelle
carrozzine che si dànno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si
sentì il cuore batter più forte.
"Ci
sarà? - pensò subito; e continuava tra sé: - che noia mi dà costei!
Liberiamocene".
E
voleva chiamare uno de' suoi sgherri, e spedirlo subito incontro alla carrozza,
a ordinare al Nibbio che voltasse, e conducesse colei al palazzo di don
Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel
disegno. Tormentato però dal bisogno di dar qualche ordine, riuscendogli
intollerabile lo stare aspettando oziosamente quella carrozza che veniva avanti
passo passo, come un tradimento, che so io? come un gastigo, fece chiamare una
sua vecchia donna.
Era
costei nata in quello stesso castello, da un antico custode di esso, e aveva
passata lì tutta la sua vita. Ciò che aveva veduto e sentito fin dalle fasce,
le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del potere de'
suoi padroni; e la massima principale che aveva attinta dall'istruzioni e dagli
esempi, era che bisognava ubbidirli in ogni cosa, perché potevano far del gran
male e del gran bene. L'idea del dovere, deposta come un germe nel cuore di
tutti gli uomini, svolgendosi nel suo, insieme co' sentimenti d'un rispetto,
d'un terrore, d'una cupidigia servile, s'era associata e adattata a quelli.
Quando l'innominato, divenuto padrone, cominciò a far quell'uso spaventevole
della sua forza, costei ne provò da principio un certo ribrezzo insieme e un
sentimento più profondo di sommissione. Col tempo, s'era avvezzata a ciò che
aveva tutto il giorno davanti agli occhi e negli orecchi: la volontà potente e
sfrenata d'un così gran signore, era per lei come una specie di giustizia
fatale. Ragazza già fatta, aveva sposato un servitor di casa, il quale, poco
dopo, essendo andato a una spedizione rischiosa, lasciò l'ossa sur una strada,
e lei vedova nel castello. La vendetta che il signore ne fece subito, le diede
una consolazione feroce, e le accrebbe l'orgoglio di trovarsi sotto una tal
protezione. D'allora in poi, non mise piede fuor del castello, che molto di
rado; e a poco a poco non le rimase del vivere umano quasi altre idee salvo
quelle che ne riceveva in quel luogo. Non era addetta ad alcun servizio
particolare, ma, in quella masnada di sgherri, ora l'uno ora l'altro, le davan
da fare ogni poco; ch'era il suo rodimento. Ora aveva cenci da rattoppare, ora
da preparare in fretta da mangiare a chi tornasse da una spedizione, ora feriti
da medicare. I comandi poi di coloro, i rimproveri, i ringraziamenti, eran
conditi di beffe e d'improperi: vecchia, era il suo appellativo usuale; gli
aggiunti, che qualcheduno sempre ci se n'attaccava, variavano secondo le
circostanze e l'umore dell'amico. E colei, disturbata nella pigrizia, e
provocata nella stizza, ch'erano due delle sue passioni predominanti,
contraccambiava alle volte que' complimenti con parole, in cui Satana avrebbe
riconosciuto più del suo ingegno, che in quelle de' provocatori.
- Tu
vedi laggiù quella carrozza! - le disse il signore.
- La
vedo, - rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e aguzzando
gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli dell'occhiaie.
- Fa
allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito
subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col
passo della morte. In quella carrozza c'è... ci dev'essere... una giovine. Se
c'è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su
subito da me. Tu starai nella bussola, con quella... giovine; e quando sarete
quassù, la condurrai nella tua camera. Se ti domanda dove la meni, di chi è il
castello, guarda di non...
- Oh! -
disse la vecchia.
- Ma, -
continuò l'innominato, - falle coraggio.
- Cosa
le devo dire?
- Cosa
le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza
sapere come si fa coraggio a una creatura, quando sI vuole! Hai tu mai sentito
affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere
in que' momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va'.
E
partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a quella
carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzo al sole, che in
quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole sparse al
di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco. Si ritirò,
chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con
un passo di viaggiatore frettoloso.
La
vecchia era corsa a ubbidire e a comandare, con l'autorità di quel nome che, da
chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti; perché a
nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da servirsene falsamente.
Si trovò infatti alla Malanotte un po' prima che la carrozza ci arrivasse; e
vistala venire, uscì di bussola, fece segno al cocchiere che fermasse,
s'avvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori, riferì
sottovoce gli ordini del padrone.
Lucia,
al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo. Si
sentì da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli occhi, e guardò. Il
Nibbio s'era tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo sportello,
guardando Lucia, diceva: - venite, la mia giovine; venite, poverina; venite con
me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.
Al
suono d'una voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio
momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento più cupo. - Chi siete? - disse
con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia.
-
Venite, venite, poverina, - andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri due,
argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente raddolcita di
colei, quali fossero l'intenzioni del signore, cercavano di persuader con le
buone l'oppressa a ubbidire. Ma lei seguitava a guardar fuori; e benché il
luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de' suoi guardiani non le
lasciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per
gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne il
grido, tremò, si storse, fu presa e messa nella bussola. Dopo, c'entrò la
vecchia; il Nibbio disse ai due altri manigoldi che andassero dietro, e prese
speditamente la salita, per accorrere ai comandi del padrone.
- Chi
siete? - domandava con ansietà Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: - perché
son con voi? dove sono? dove mi conducete?
- Da
chi vuol farvi del bene, - rispondeva la vecchia, - da un gran... Fortunati
quelli a cui vuol far del bene! Buon per voi, buon per voi. Non abbiate paura,
state allegra, ché m'ha comandato di farvi coraggio. Glielo direte, eh? che
v'ho fatto coraggio?
- Chi
è? perché? che vuol da me? Io non son sua. Ditemi dove sono; lasciatemi andare;
dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa. Oh! voi
che siete una donna, in nome di Maria Vergine...!
Quel
nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne' primi anni, e poi non più
invocato per tanto tempo, né forse sentito proferire, faceva nella mente della
sciagurata che lo sentiva in quel momento, un'impressione confusa, strana,
lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino.
Intanto
l'innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e vedeva la
bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che
cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo fu in cima, il
signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello.
-
Ebbene? - disse, fermandosi lì.
- Tutto
a un puntino, - rispose, inchinandosi, il Nibbio: - l'avviso a tempo, la donna
a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere
pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma...
- Ma
che?
- Ma...
dico il vero, che avrei avuto più piacere che l'ordine fosse stato di darle una
schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.
- Cosa?
cosa? che vuoi tu dire?
-
Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M'ha fatto troppa
compassione.
-
Compassione! Che sai tu di compassione? Cos'è la compassione?
- Non
l'ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un
poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.
-
Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.
- O
signore illustrissimo! tanto tempo...! piangere, pregare, e far cert'occhi, e
diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e
certe parole...
"Non
la voglio in casa costei, - pensava intanto l'innominato.
- Sono
stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso. Quando sarà
lontana..." E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, -
ora, - gli disse, - metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un
compagno, due se vuoi; e va' di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai.
Digli che mandi... ma subito subito, perché altrimenti...
Ma un
altro no interno più imperioso del primo gli proibì di finire. - No, -
disse con voce risoluta, quasi per esprimere a se stesso il comando di quella
voce segreta, - no: va' a riposarti; e domattina... farai quello che ti dirò!
"Un
qualche demonio ha costei dalla sua, - pensava poi, rimasto solo, ritto, con le
braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del
pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava
un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e
intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. - Un
qualche demonio, o... un qualche angelo che la protegge... Compassione al
Nibbio!... Domattina, domattina di buon'ora, fuor di qui costei; al suo
destino, e non se ne parli più, e, - proseguiva tra sé, con quell'animo con cui
si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, - e non ci si pensi
più. Quell'animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con
ringraziamenti; che... non voglio più sentir parlar di costei. L'ho servito
perché... perché ho promesso: e ho promesso perché... è il mio destino. Ma
voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco..."
E
voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso, per compenso,
e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole:
compassione al Nibbio! "Come può aver fatto costei? - continuava,
strascinato da quel pensiero. - Voglio vederla... Eh! no... Sì, voglio
vederla".
E d'una
stanza in un'altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della
vecchia, e picchiò all'uscio con un calcio.
- Chi
è?
- Apri.
A
quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il paletto
negli anelli, e l'uscio si spalancò. L'innominato, dalla soglia, diede
un'occhiata in giro; e, al lume d'una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide
Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall'uscio.
- Chi
t'ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata? - disse
alla vecchia, con un cipiglio iracondo.
- S'è
messa dove le è piaciuto, - rispose umilmente colei: - io ho fatto di tutto per
farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c'è stato verso.
-
Alzatevi, - disse l'innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il
picchiare, l'aprire, il comparir di quell'uomo, le sue parole, avevan messo un
nuovo spavento nell'animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel
cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava
tutta.
-
Alzatevi, ché non voglio farvi del male... e posso farvi del bene, - ripeté il
signore... - Alzatevi! - tonò poi quella voce, sdegnata d'aver due volte
comandato invano.
Come
rinvigorita dallo spavento, l'infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e
giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un'immagine, alzò gli occhi in
viso all'innominato, e riabbassandoli subito, disse: - son qui: m'ammazzi.
- V'ho
detto che non voglio farvi del male, - rispose, con voce mitigata,
l'innominato, fissando quel viso turbato dall'accoramento e dal terrore.
-
Coraggio, coraggio, - diceva la vecchia: - se ve lo dice lui, che non vuol
farvi del male...
- E
perché, - riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si
sentiva una certa sicurezza dell'indegnazione disperata, - perché mi fa patire
le pene dell'inferno? Cosa le ho fatto io?...
-
V'hanno forse maltrattata? Parlate.
- Oh
maltrattata! M'hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m'hanno
presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto?
In nome di Dio...
- Dio,
Dio, - interruppe l'innominato: - sempre Dio: coloro che non possono difendersi
da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come
se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di
farmi...? - e lasciò la frase a mezzo.
- Oh
Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi
misericordia? Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia! Mi lasci
andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve
morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica
che mi lascino andare! M'hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna
a *** dov'è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità,
mia madre! Forse non è lontana di qui... ho veduto i miei monti! Perché lei mi
fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia
vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione:
dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!
"Oh
perché non è figlia d'uno di que' cani che m'hanno bandito! - pensava
l'innominato: - d'uno di que' vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di
questo suo strillare; e in vece..."
- Non
iscacci una buona ispirazione! - proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal
vedere una cert'aria d'esitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno. - Se
lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me
sarà finita; ma lei!... Forse un giorno anche lei... Ma no, no; pregherò sempre
io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se
provasse lei a patir queste pene...!
- Via,
fatevi coraggio, - interruppe l'innominato, con una dolcezza che fece
strasecolar la vecchia. - V'ho fatto nessun male? V'ho minacciata?
- Oh
no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se
lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi
morire; e in vece mi ha... un po' allargato il cuore. Dio gliene renderà
merito. Compisca l'opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.
-
Domattina...
- Oh mi
liberi ora, subito...
-
Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate. Dovete
aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno.
- No,
no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chiesa... que'
passi Dio glieli conterà.
- Verrà
una donna a portarvi da mangiare, - disse l'innominato; e dettolo, rimase
stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli fosse
nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola.
- E tu,
- riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, - falle coraggio che mangi;
mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene;
altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico;
tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te!
Così
detto, si mosse rapidamente verso l'uscio. Lucia s'alzò e corse per
trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.
- Oh
povera me! Chiudete, chiudete subito -. E sentito ch'ebbe accostare i battenti
e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. - Oh povera me!
- esclamò di nuovo singhiozzando: - chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi,
ditemi per carità, chi è quel signore... quello che m'ha parlato?
- Chi
è, eh? chi è? Volete ch'io ve lo dica. Aspetta ch'io te lo dica. Perché vi
protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne
andar di mezzo me. Domandatene a lui. S'io vi contentassi anche in questo, non
mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi. - Io son vecchia,
son vecchia, - continuò, mormorando tra i denti. - Maledette le giovani, che
fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione -. Ma sentendo
Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone,
si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita, riprese: -
via, non v'ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle
cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se sapeste
quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State
allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco... nella maniera che
v'ha parlato, ci sarà della roba buona. E poi anderete a letto, e... mi
lascerete un cantuccino anche a me, spero, - soggiunse, con una voce, suo
malgrado, stizzosa.
- Non
voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non v'accostate; non
partite di qui!
- No,
no, via, - disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una
seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d'astio
insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d'esserne forse esclusa per
tutta la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero
della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non
s'avvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de'
suoi dolori, de' suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all'immagini
sognate da un febbricitante.
Si
riscosse quando sentì picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: - chi
è? chi è? Non venga nessuno!
-
Nulla, nulla; buone nuove, - disse la vecchia: - è Marta che porta da mangiare.
-
Chiudete, chiudete! - gridava Lucia.
- Ih!
subito, subito, - rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani di
quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola
nel mezzo della camera. Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di
quella buona roba. Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere
appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de' cibi:
- di que' bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a
assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co' suoi
amici... quando capita qualcheduno di quelli...! e vogliono stare allegri! Ehm!
- Ma vedendo che tutti gl'incanti riuscivano inutili, - siete voi che non
volete, - disse. - Non istate poi a dirgli domani ch'io non v'ho fatto
coraggio. Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando
metterete giudizio, e vorrete ubbidire -. Così detto, si mise a mangiare
avidamente. Saziata che fu, s'alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi
sopra Lucia, l'invitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto.
- No,
no, non voglio nulla, - rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta. Poi,
con più risolutezza, riprese: - è serrato l'uscio? è serrato bene? - E dopo
aver guardato in giro per la camera, s'alzò, e, con le mani avanti, con passo
sospettoso, andava verso quella parte.
La
vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e disse: -
sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora?
- Oh
contenta! contenta io qui! - disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo
cantuccio. - Ma il Signore lo sa che ci sono!
-
Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S'è mai visto
rifiutare i comodi, quando si possono avere?
- No,
no; lasciatemi stare.
- Siete
voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla sponda;
starò incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a fare.
Ricordatevi che v'ho pregata più volte -. Così dicendo, si cacciò sotto
vestita; e tutto tacque.
Lucia
stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia
alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani.
Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida
vicenda di pensieri, d'immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a se
stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in
quella giornata, s'applicava dolorosamente alle circostanze dell'oscura e
formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in
una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati
dall'incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest'angoscia; alfine, più
che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde
sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma
tutt'a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di
risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove
fosse, come, perché. Tese l'orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato
della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire
a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava
una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il
venire e l'andare dell'onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti,
prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo
sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti
impressioni, ricomparendo nella mente, l'aiutarono a distinguere ciò che
appariva confuso al senso. L'infelice risvegliata riconobbe la sua prigione:
tutte le memorie dell'orribil giornata trascorsa, tutti i terrori
dell'avvenire, l'assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante
agitazioni, quella specie di riposo, quell'abbandono in cui era lasciata, le
facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di
morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con
quel pensiero, le spuntò in cuore come un'improvvisa speranza. Prese di nuovo
la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la
preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia
indeterminata. Tutt'a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che
la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando,
nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che
aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l'animo
suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro
desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un
sacrifizio. S'alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani,
dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: - o
Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante
volte m'avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto
gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi!
fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del
Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio
poveretto, per non esser mai d'altri che vostra.
Proferite
queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi
come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un'armatura
della nuova milizia a cui s'era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì
entrar nell'animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in
mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di
sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da
tanta guerra s'assopirono a poco a poco in quell'acquietamento di pensieri: e
finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le
labbra, Lucia s'addormentò d'un sonno perfetto e continuo.
Ma
c'era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare
altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine
per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello,
sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti
all'orecchio, il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro
in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di
nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell'immagine,
più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai.
"Che sciocca curiosità da donnicciola, - pensava, - m'è venuta di vederla?
Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più
uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos'è stato? che diavolo m'è venuto
addosso? che c'è di nuovo? Non lo sapevo io prima d'ora, che le donne
strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono
rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?"
E qui,
senza che s'affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé
gli rappresentò più d'un caso in cui né preghi né lamenti non l'avevano punto
smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non
che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che
spegnesse nell'animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di
terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un
sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva
cercato di rinfrancare il suo coraggio. "È viva costei, - pensava, - è
qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso
cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar
perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi
potesse far bene, levarmi d'addosso un po' di questa diavoleria, la direi; eh!
sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più
uomo!... Via! - disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto
duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: - via! sono sciocchezze
che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa".
E per
farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna
di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne
trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più
fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la
passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restìo per un'ombra, non
voleva più andare avanti. Pensando all'imprese avviate e non finite, in vece
d'animarsi al compimento, in vece d'irritarsi degli ostacoli (ché l'ira in quel
momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de'
passi già fatti. Il tempo gli s'affacciò davanti voto d'ogni intento, d'ogni
occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte
l'ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo.
Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare
a nessuno di loro una cosa che gl'importasse; anzi l'idea di rivederli, di
trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un'idea di schifo e d'impiccio. E se
volle trovare un'occupazione per l'indomani, un'opera fattibile, dovette
pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
"La
libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate,
andate. La farò accompagnare... E la promessa? e l'impegno? e don Rodrigo?...
Chi è don Rodrigo?"
A guisa
di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d'un superiore,
l'innominato pensò subito a rispondere a questa che s'era fatta lui stesso, o
piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come
a giudicare l'antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi
d'esser pregato, s'era potuto risolvere a prender l'impegno di far tanto
patire, senz'odio, senza timore, un'infelice sconosciuta, per servire colui;
ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone
a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse
indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento
istantaneo dell'animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una
conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se
stesso, per rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di
tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di
sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva
all'animo consapevole e nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta
volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non
avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di
questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte,
crebbe fino alla disperazione. S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani
alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento
di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un
terrore, da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che
pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S'immaginava con raccapriccio
il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la
sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra;
lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se
ne sarebber fatti lì, d'intorno, lontano; la gioia de' suoi nemici. Anche le
tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più
tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di
giorno, all'aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E
assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con
una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in
mente un altro pensiero. "Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato
quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella
vita non c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire?
cos'importa quello che ho fatto? cos'importa? è una pazzia la mia... E se c'è
quest'altra vita...!"
A un
tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più
grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader
l'arme, e stava con le mani ne' capelli, battendo i denti, tremando. Tutt'a un
tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore
prima: "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!" E non
gli tornavan già con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state
proferite; ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva una lontana
speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in
un'attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva
sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una
supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava
ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei
altre parole di refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla lui stesso alla
madre. "E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman
l'altro? che farò dopo doman l'altro? E la notte? la notte, che tornerà tra
dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!" E ricaduto nel vòto penoso
dell'avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i
giorni, le notti. Ora si proponeva d'abbandonare il castello, e d'andarsene in
paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui,
lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar
l'animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio
passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a' suoi così
miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche
ne' suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull'albeggiare, pochi momenti dopo che
Lucia s'era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì
arrivarsi all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che pure
aveva non so che d'allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa
lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l'eco del monte, che ogni tanto
ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco,
sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro.
"Che allegria c'è? cos'hanno di bello tutti costoro?" Saltò fuori da
quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e
guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che
nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a
poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente
che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti dalla stessa
parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e
con un'alacrità straordinaria.
"Che
diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto paese? dove va
tutta quella canaglia?" E data una voce a un bravo fidato che dormiva in
una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento.
Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene.
Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo.
Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo
chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa
col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio
convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e
quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più,
quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il
supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e
gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse
comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.
Poco
dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal Federigo
Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci starebbe tutto quel
giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest'arrivo ne' paesi d'intorno aveva
invogliati tutti d'andare a veder quell'uomo; e si scampanava più per allegria,
che per avvertir la gente. Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella
valle, ancor più pensieroso. "Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri,
per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che lo
tormenti. Ma nessuno, nessuno n'avrà uno come il mio; nessuno avrà passata una
notte come la mia! Cos'ha quell'uomo, per render tanta gente allegra? Qualche
soldo che distribuirà così alla ventura... Ma costoro non vanno tutti per
l'elemosina. Ebbene, qualche segno nell'aria, qualche parola... Oh se le avesse
per me le parole che possono consolare! se...! Perché non vado anch'io? Perché
no?... Anderò, anderò; e gli voglio parlare: a quattr'occhi gli voglio parlare.
Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che... Sentirò cosa sa dir lui,
quest'uomo!"
Fatta
così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi, mettendosi una
sua casacca d'un taglio che aveva qualche cosa del militare; prese la terzetta
rimasta sul letto, e l'attaccò alla cintura da una parte; dall'altra, un'altra
che staccò da un chiodo della parete; mise in quella stessa cintura il suo
pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di lui,
se la mise ad armacollo; prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di
tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina in un
cantuccio vicino all'uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la sua voce. La
vecchia scese il letto in un salto, e corse ad aprire. Il signore entrò, e data
un'occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e quieta.
-
Dorme? - domandò sotto voce alla vecchia: - là, dorme? eran questi i miei
ordini, sciagurata?
- Io ho
fatto di tutto, - rispose quella: - ma non ha mai voluto mangiare, non è mai
voluta venire...
-
Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si sveglierà...
Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a prendere qualunque cosa
che costei possa chiederti. Quando si sveglierà... dille che io... che il
padrone è partito per poco tempo, che tornerà, e che... farà tutto quello che
lei vorrà.
La
vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sé: "che sia qualche
principessa costei?"
Il
signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far anticamera, mandò il
primo bravo che incontrò a far la guardia, perché nessun altro che quella donna
mettesse piede nella camera; e poi uscì dal castello, e prese la scesa, di
corsa.
Il
manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov'era il cardinale;
ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser più che una
lunga passeggiata. Dal solo accorrere de' valligiani, e anche di gente più
lontana, a quel paese, questo non si potrebbe argomentare; giacché nelle
memorie di quel tempo troviamo che da venti e più miglia veniva gente in folla,
per veder Federigo.
I bravi
che s'abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al passar del
signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se volesse prenderli
seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si pensare della sua aria, e
dell'occhiate che dava in risposta a' loro inchini.
Quando
fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i passeggieri, era di
vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva luogo, prendendola larga,
quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e levandosi rispettosamente il
cappello. Arrivato al paese, trovò una gran folla; ma il suo nome passò subito
di bocca in bocca; e la folla s'apriva. S'accostò a uno, e gli domandò dove fosse
il cardinale. - In casa del curato, - rispose quello, inchinandosi, e gl'indicò
dov'era. Il signore andò là, entrò in un cortiletto dove c'eran molti preti,
che tutti lo guardarono con un'attenzione maravigliata e sospettosa. Vide
dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove molti altri
preti eran congregati. Si levò la carabina, e l'appoggiò in un canto del
cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate, bisbigli, un nome
ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di quelli, gli domandò dove fosse il
cardinale; e che voleva parlargli.
- Io
son forestiero, - rispose l'interrogato, e data un'occhiata intorno, chiamò il
cappellano crocifero, che in un canto del salottino, stava appunto dicendo
sotto voce a un suo compagno: - colui? quel famoso? che ha a far qui colui?
alla larga! - Però, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale, dovette
venire l'innominato, stette a sentir quel che voleva, e alzando con una
curiosità inquieta gli occhi su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì
un poco, poi disse o balbettò: - non saprei se monsignore illustrissimo... in
questo momento... si trovi... sia... possa... Basta, vado a vedere -. E andò a
malincorpo a far l'imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il
cardinale.
A questo
punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non fermarci qualche
poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un terreno
arido e salvatico, si trattiene e perde un po' di tempo all'ombra d'un
bell'albero, sull'erba, vicino a una fonte d'acqua viva. Ci siamo abbattuti in
un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque
tempo alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un
senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo
la contemplazione d'una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo
personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si
curasse di sentirle, e avesse però voglia d'andare avanti nella storia, salti
addirittura al capitolo seguente.
Federigo
Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano
impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza, tutti i
vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e
nell'esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito
limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso
per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe,
badò fin dalla puerizia a quelle parole d'annegazione e d'umiltà, a quelle
massime intorno alla vanità de' piaceri, all'ingiustizia dell'orgoglio, alla
vera dignità e a' veri beni, che, sentite o non sentite ne' cuori, vengono
trasmesse da una generazione all'altra, nel più elementare insegnamento della
religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio,
le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e
altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione,
con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per
norma dell'azioni e de' pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita
non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per
tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a
pensare come potesse render la sua utile e santa.
Nel
1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne
prese l'abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin
d'allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio
fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì,
applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne
assunse di sua volontà; e furono d'insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi
e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere
gl'infermi. Si valse dell'autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per
attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e
profittevole esercitò come un primato d'esempio, un primato che le sue doti
personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato
l'infimo per condizione. I vantaggi d'un altro genere, che la sua gli avrebbe
potuto procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli.
Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto
povero che semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il
contegno. Ne credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti
gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un'altra
guerra ebbe a sostenere con gl'istitutori, i quali, furtivamente e come per
sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche
suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e
figurare come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben
volere con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s'invanisce
e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di que' prudenti che s'adombrano
delle virtù come de' vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e
il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov'essi sono arrivati, e ci stanno comodi.
Federigo, non che lasciarsi vincere da que' tentativi, riprese coloro che li
facevano; e ciò tra la pubertà e la giovinezza.
Che,
vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a quella
presenza grave, solenne, ch'esprimeva così al vivo la santità, e ne rammentava
le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe aggiunto autorità
ogni momento l'ossequio manifesto e spontaneo de' circostanti, quali e quanti
si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno
e al pensare d'un tal superiore, non è certamente da farsene maraviglia; ma è
bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si sia potuto
accorgere che a Federigo, allor di vent'anni, fosse mancata una guida e un
censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua dottrina e della sua
pietà, la parentela e gl'impegni di più d'un cardinale potente, il credito
della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti
un'idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e tutto ciò che può
condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a
pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale
professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità
d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava
di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; che poche vite
furono spese in questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno
né capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595,
proposto da Clemente VIII l'arcivescovado di Milano, apparve fortemente
turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa.
Tali
dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e l'ipocrisia
non ha bisogno d'un più grande sforzo d'ingegno per farle, che la buffoneria
per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan forse per questo d'esser
l'espressione naturale d'un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il
paragone delle parole: e le parole ch'esprimono quel sentimento, fossero anche
passate sulle labbra di tutti gl'impostori e di tutti i beffardi del mondo,
saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di
disinteresse e di sacrifizio.
In
Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per
sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso in somma, se non
quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite
ecclesiastiche sono patrimonio de' poveri: come poi intendesse infatti una tal
massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il
suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi
(scudo si chiamava allora quella moneta d'oro che, rimanendo sempre dello
stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne
contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non
credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo
poi era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava di non
ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu
notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d'una
squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell'età sudicia e
sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua
mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo
ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse
rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d'una virtù gretta, misera,
angustiosa, d'una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati;
se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa
lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da' fondamenti; per fornir la quale
di libri e di manoscritti, oltre il dono de' già raccolti con grande studio e
spesa da lui, spedì otto uomini, de' più colti ed esperti che poté avere, a
farne incetta, per l'Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania,
per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi
circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla
biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che
visse; dopo, non bastando a quella spesa l'entrate ordinarie, furon ristretti a
due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere,
antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l'obbligo ad ognuno di
pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v'unì un collegio da lui
detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un
collegio d'alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per
insegnarle un giorno; v'unì una stamperia di lingue orientali, dell'ebraica
cioè, della caldea, dell'arabica, della persiana, dell'armena; una galleria di
quadri, una di statue, e, una scuola delle tre principali arti del disegno. Per
queste, poté trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che
da fare gli avesse dato la raccolta de' libri e de' manoscritti; certo più
difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora molto men
coltivate in Europa che al presente; più ancora de' tipi, gli uomini. Basterà
il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario;
e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e
delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che
n'abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza.
Nelle regole che stabilì per l'uso e per il governo della biblioteca, si vede
un intento d'utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti
sapiente e gentile molto al di là dell'idee e dell'abitudini comuni di quel
tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più
dotti d'Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso
de' libri migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli
prescrisse d'indicare agli studiosi i libri che non conoscessero, e potesser
loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse
comodità e tempo di servirsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve
ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d'una
biblioteca: allora non era così. E in una storia dell'ambrosiana, scritta (col
costrutto e con l'eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu
bibliotecario dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa
singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue
spese, i libri fossero esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li
chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender
gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne
biblioteca pubblica d'Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in
armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de' bibliotecari, quando si
sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di
studiare, non se n'aveva neppur l'idea. Dimodoché arricchir tali biblioteche
era un sottrar libri all'uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n'era
e ce n'è tuttavia molte, che isteriliscono il campo.
Non
domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla
coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si
dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare,
fino a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta
fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che
giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano,
dovesse essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e
l'eseguì, in mezzo a quell'ignorantaggine, a quell'inerzia, a quell'antipatia
generale per ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos'importa?
e c'era altro da pensare? e che bell'invenzione! e mancava
anche questa, e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi
spesi da lui in quell'impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de'
suoi.
Per
chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che non ci sia
bisogno di sapere se n'abbia spesi molt'altri in soccorso immediato de'
bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel
genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile
elemosina. Ma Federigo teneva l'elemosina propriamente detta per un dovere
principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei
all'opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di
questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco
occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che
gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De' molti esempi
singolari che d'una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo
qui un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far
monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire
il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il
non avere quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a
maritar la figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse
a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo
condiscendente agli stolti capricci d'un superbo; e che quattromila scudi
potevano esser meglio impiegati in cent'altre maniere. A questo non abbiamo
nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso
eccessi d'una virtù così libera dall'opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue),
così indipendente dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu quella che
mosse un uomo a dar quattromila scudi, perché una giovine non fosse fatta
monaca.
La
carità inesausta di quest'uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo
contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli
che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa;
tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure ebbe a combattere co'
galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto
farlo star ne' limiti, cioè ne' loro limiti. Uno di costoro, una volta che,
nella visita d'un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri
fanciulli, e, tra l'interrogare e l'insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando,
l'avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze a que' ragazzi, perche
eran troppo sudici e stomacosi: come se supponesse, il buon uomo, che Federigo
non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non abbastanza
perspicacia, per trovar da sé quel ripiego così fino. Tale è, in certe
condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in certe
dignità: che mentre così di rado si trova chi gli avvisi de' loro mancamenti,
non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma il buon
vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: - sono mie anime, e forse
non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci?
Ben
raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de' suoi modi,
per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità
straordinaria di temperamento; ed era l'effetto d'una disciplina costante sopra
un'indole viva e risentita. Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu
co' pastori suoi subordinati che scoprisse rei d'avarizia o di negligenza o
d'altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per
tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale,
non dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d'ardore, né d'agitazione:
mirabile se questi moti non si destavano nell'animo suo, più mirabile se vi si
destavano. Non solo da' molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto
di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile all'ambizione, e così
terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto,
venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era
quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello
depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia,
quest'avversione al predominare apparivano ugualmente nell'occasioni più comuni
della vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che
fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d'impicciarsi negli affari altrui;
anzi si scusava a tutto potere dall'ingerirvisi ricercato: discrezione e
ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori del bene, qual era
Federigo.
Se
volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del suo
carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in
apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme. Però non ometteremo di
notare un'altra singolarità di quella bella vita: che, piena come fu
d'attività, di governo, di funzioni, d'insegnamento, d'udienze, di visite
diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio c'ebbe una parte, ma ce
n'ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti,
con tant'altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi
contemporanei, quello d'uom dotto.
Non
dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in
pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d'oggi parrebbero a ognuno
piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran
voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe
quella scusa così corrente e ricevuta, ch'erano errori del suo tempo, piuttosto
che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall'esame particolare
de' fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e
alla cieca, come si fa d'ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non
volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo
un episodio, tralasceremo anche d'esporle; bastandoci d'avere accennato così
alla sfuggita che, d'un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo
che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere
un'orazion funebre.
Non è
certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno di loro
domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest'uomo abbia lasciato qualche
monumento. Se n'ha lasciati! Circa cento son l'opere che rimangon di lui, tra
grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si
serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni,
dissertazioni di storia, d'antichità sacra e profana, di letteratura, d'arti e
d'altro. "E come mai, dirà codesto lettore, tante opere sono dimenticate,
o almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto
ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con
tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candor
d'animo, con tant'altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore,
questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che son
riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo
anche da chi non le legge? Come mai, tutte insieme, non sono bastate a
procurare, almeno col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi
posteri?"
La
domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto interessante; perché
le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l'osservar molti fatti
generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni
simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v'andassero a genio? se vi
facessero arricciare il naso? Sicché sarà meglio che riprendiamo il filo della storia,
e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest'uomo, andiamo a vederlo
in azione, con la guida del nostro autore.
Il
cardinal Federigo, intanto che aspettava l'ora d'andar in chiesa a celebrar gli
ufizi divini, stava studiando, com'era solito di fare in tutti i ritagli di
tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato.
- Una
strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo!
- Chi
è? - domandò il cardinale.
-
Niente meno che il signor... - riprese il cappellano- e spiccando le sillabe
con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo scrivere ai
nostri lettori. Poi soggiunse: - è qui fuori in persona; e chiede nient'altro
che d'esser introdotto da vossignoria illustrissima.
- Lui!
- disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da
sedere: - venga! venga subito!
- Ma...
- replicò il cappellano, senza moversi: - vossignoria illustrissima deve sapere
chi è costui: quel bandito, quel famoso...
- E non
è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo
a trovare?
- Ma...
- insistette il cappellano: - noi non possiamo mai parlare di certe cose,
perché monsignore dice che le son ciance: però quando viene il caso, mi pare
che sia un dovere... Lo zelo fa de' nemici, monsignore; e noi sappiamo
positivamente che più d'un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o
l'altro...
- E che
hanno fatto? - interruppe il cardinale.
- Dico
che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene corrispondenza
co' disperati più furiosi, e che può esser mandato...
- Oh,
che disciplina è codesta, - interruppe ancora sorridendo Federigo, - che i
soldati esortino il generale ad aver paura? - Poi, divenuto serio e pensieroso,
riprese: - san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse
ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito: ha già
aspettato troppo.
Il
cappellano si mosse, dicendo tra sé: "non c'è rimedio: tutti questi santi
sono ostinati".
Aperto
l'uscio, e affacciatosi alla stanza dov'era il signore e la brigata, vide
questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar di sott'occhio quello,
lasciato solo in un canto. S'avviò verso di lui; e intanto squadrandolo, come
poteva, con la coda dell'occhio, andava pensando che diavolo d'armeria poteva
esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima d'introdurlo,
avrebbe dovuto proporgli almeno... ma non si seppe risolvere. Gli s'accostò, e
disse: - monsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con me -. E
precedendolo in quella piccola folla, che subito fece ala, dava a destra e a
sinistra occhiate, le quali significavano: cosa volete? non lo sapete anche voi
altri, che fa sempre a modo suo?
Appena
introdotto l'innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e
sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito
cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.
I due
rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L'innominato,
ch'era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto
che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza,
straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di
trovare un refrigerio al tormento interno, e dall'altra parte una stizza, una
vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a
confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne
cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell'uomo, si sentiva sempre più
penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che,
aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l'orgoglio di
fronte, l'abbatteva, e, dirò così, gl'imponeva silenzio.
La
presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la
fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente
maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l'occhio grave e vivace,
la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni
dell'astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza
verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c'era stata
quella che più propriamente si chiama bellezza; l'abitudine de' pensieri solenni
e benevoli, la pace interna d'una lunga vita, l'amore degli uomini, la gioia
continua d'una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi,
bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della
porpora.
Tenne
anche lui, qualche momento, fisso nell'aspetto dell'innominato il suo sguardo
penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri;
e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più
qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d'una tal
visita, tutt'animato, - oh! - disse: - che preziosa visita è questa! e quanto
vi devo esser grato d'una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po'
del rimprovero!
-
Rimprovero! - esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e
da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato
un discorso qualunque.
-
Certo, m'è un rimprovero, - riprese questo, - ch'io mi sia lasciato prevenir da
voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.
- Da
me, voi! Sapete chi sono? V'hanno detto bene il mio nome?
- E
questa consolazione ch'io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto,
vi par egli ch'io dovessi provarla all'annunzio, alla vista d'uno sconosciuto?
Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che
almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de' miei figli,
che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d'accogliere e
d'abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo
le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de' suoi poveri servi.
L'innominato
stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano
tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di
dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. - E che? - riprese, ancor
più affettuosamente, Federigo: - voi avete una buona nuova da darmi, e me la
fate tanto sospirare?
- Una
buona nuova, io? Ho l'inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi,
se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.
- Che
Dio v'ha toccato il cuore, e vuol farvi suo, - rispose pacatamente il
cardinale.
- Dio!
Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio?
- Voi
me lo domandate? voi? E chi più di voi l'ha vicino? Non ve lo sentite in cuore,
che v'opprime, che v'agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo
v'attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d'una
consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo
confessiate, l'imploriate?
- Oh,
certo! ho qui qualche cosa che m'opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c'è questo
Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?
Queste
parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne,
come di placida ispirazione, rispose: - cosa può far Dio di voi? cosa vuol
farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una
gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo
contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere... -
(l'innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel
linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi
quasi un sollievo); - che gloria, - proseguiva Federigo, - ne viene a Dio? Son
voci di terrore, son voci d'interesse; voci forse anche di giustizia, ma d'una
giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d'invidia di codesta
vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza
d'animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar
voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa
far di voi? Chi son io pover'uomo, che sappia dirvi fin d'ora che profitto
possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà
impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l'abbia animata, infiammata
d'amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover'uomo, che vi pensiate
d'aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non
possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi?
e farvi salvo? e compire in voi l'opera della redenzione? Non son cose
magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur
così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra
salute, che per essa darei con gaudio (Egli m'è testimonio) questi pochi giorni
che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che
m'infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia
Quello che mi comanda e m'ispira un amore per voi che mi divora!
A
misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni
moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e
convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una
commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall'infanzia più
non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si
coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e
più chiara risposta.
- Dio
grande e buono! - esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: - che
ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perche Voi mi chiamaste a
questo convito di grazia, perche mi faceste degno d'assistere a un sì giocondo
prodigio! - Così dicendo, stese la mano a prender quella dell'innominato.
- No! -
gridò questo, - no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano
innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete
stringere.
-
Lasciate, - disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, - lasciate
ch'io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante
beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica,
umile a tanti nemici.
- È
troppo! - disse, singhiozzando, l'innominato. - Lasciatemi, monsignore; buon
Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v'aspetta; tant'anime buone,
tant'innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e
voi vi trattenete... con chi!
-
Lasciamo le novantanove pecorelle, - rispose il cardinale: - sono in sicuro sul
monte: io voglio ora stare con quella ch'era smarrita. Quell'anime son forse
ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha
operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di
cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza
saperlo: forse lo Spirito mette ne' loro cuori un ardore indistinto di carità,
una preghiera ch'esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete
l'oggetto non ancor conosciuto -. Così dicendo, stese le braccia al collo dell'innominato;
il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come
vinto da quell'impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò
sull'omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti
cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di
questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca,
avvezza a portar l'armi della violenza e del tradimento.
L'innominato,
sciogliendosi da quell'abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e,
alzando insieme la faccia, esclamò: - Dio veramente grande! Dio veramente
buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno
davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia,
sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!
È un saggio, - disse Federigo, - che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere! - Me sventurato! - esclamò il signore, - quante, quante... cose, le